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Paolo VI e la diaspora del dissenso

Il 6 agosto di 40 anni fa moriva Montini. Incoraggiò l'allontanamento delle voci dissenzienti per non fare i conti con la democrazia, sia all'interno della Chiesa che nel rapporto tra fedi e politica. Il prossimo 14 ottobre Francesco lo proclamerà Santo

paolo VI

Erano mesi convulsi e terribili: il terrorismo delle Brigate Rosse; il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro; una devastante crisi politico-istituzionale acuita dallo scandalo Lockheed e culminata con le dimissioni dell’allora Presidente della Repubblica, Giovanni Leone (15 giugno), al quale, il 9 luglio, subentrava Sandro Pertini. Il 6 agosto 1978 era una domenica. A Castel Gandolfo, nella dimora estiva dei Pontefici, si spegneva Paolo VI.

I  viaggi

Fu il primo Papa del Novecento a varcare i confini italiani. Viaggiò in Africa, America, Oceania e Australia, Asia, fin quasi alle porte della Cina. Fu il primo Pontefice a tenere un discorso alle Nazioni Unite, a New York. Parlò lunedì 4 ottobre 1965, con quel Mai più la guerra. Montini fu perfino il primo Papa vittima di un attentato, in diretta Tv. Accadde nelle Filippine, a Manila, nel novembre 1970: Paolo VI scampò alla coltellata del pittore boliviano Benjamin Mendoza, che per altro lo ferì, soltanto grazie alla prontezza del suo segretario, don Pasquale Macchi, che spinse di lato l’attentatore.

L'”Octogesima Adveniens” e la sensibilità ecologica

Montini colse per tempo l’emergere di una sensibilità ecologica a seguito delle fratture determinate da uno sviluppo industriale forzato dall’alto, voluto e gestito senza alcuna attenzione all’interazione socio-culturale con un’agricoltura che usciva dalle condizioni di arretratezza e si avviava verso la modernizzazione. Fratture che si erano manifestate in gravi problemi ambientali conseguenti all’erosione di capitale sociale e di ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.

Nel 1971 Paolo VI affrontò il tema nella lettera apostolica Octogesima Adveniens: “L’uomo prende coscienza bruscamente… dello sfruttamento sconsiderato della natura, tanto da rischiare di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. E insieme al degrado ambientale, Papa Montini parla del “contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile”.

Irritazione nei confronti del dissenso cattolico

Il pontificato di Montini è, tuttavia, legato a due episodi che vanno ricordati. Il primo riguarda l’enciclica “sulla propagazione della prole umana da regolarsi rettamente” firmata da Paolo VI il 25 luglio 1968 e resa pubblica quattro giorni dopo. Le parole iniziali in latino sono Humanae vitae. La discussione su questo tema era iniziato nel 1963, pochi mesi dopo la conclusione della prima sessione del Concilio Vaticano II. Su suggerimento del cardinale Léon-Joseph Suenens, Giovanni XXIII aveva costituito la Commissione pontificia di studio su “popolazione e famiglia”, la cui prima riunione si era svolta a Lovanio, nell’ottobre del 1963, quattro mesi dopo la morte del papa.

La Commissione aveva tenuto cinque sessioni di lavoro e la sua composizione era stata gradualmente allargata dagli iniziali sei membri agli oltre settanta finali, compresi sedici componenti tra cardinali e vescovi. Erano stati coinvolti numerosi esperti: biologi, medici, sociologi, psicologi, demografi, oltre naturalmente a teologi e attivisti, tra cui i coniugi Crowley, fondatori e leader di un gruppo cattolico assai influente – Christian Family Movement – sostenitore di un cambiamento di rotta della pastorale sulla contraccezione.

Nelle ultime riunioni del 1966 era emersa una netta maggioranza in favore del cambiamento di posizione, condensato in un documento dal titolo De responsabili paternitate. Esso riteneva che la maturazione teologica e le nuove scoperte scientifiche imponessero di superare il fisicismo e l’appello alla “legge naturale” che dominava l’enciclica Casti connubi emanata da Pio XI nel 1930 quando la popolazione mondiale era di 2 miliardi di persone. La proposta degli innovatori era che sui “metodi” di regolazione delle nascite fosse lasciata libertà di coscienza ai coniugi; del resto — puntualizzava la maggioranza —, la moralità di una vita coniugale doveva essere valutata nell’insieme del suo atteggiamento rispetto alla generazione di nuove vite, e non per ogni singolo atto sponsale. A tale documento era stato contrapposto un rapporto della minoranza dal titolo La dottrina della Chiesa e la sua autorità (sostenuto solo da quattro voti) che ribadiva l’inammissibilità anche di un solo atto coniugale compiuto in modo da impedire la “naturale” fecondità.

Ma nonostante il largo consenso accordato al primo testo anche dalla maggioranza dei prelati che avevano partecipato ai lavori della Commissione, Paolo VI non ne volle tener conto e ribadì l’atteggiamento negativo nei confronti della contraccezione, nonostante le attese e le speranze che si erano manifestate nella chiesa in ordine ad una pastorale più aperta su tali argomenti.

A irritare Montini probabilmente fu la circostanza dell’elaborazione di due testi contrapposti. Scrisse, infatti, nell’enciclica: “Le conclusioni alle quali era pervenuta la Commissione non potevano essere da noi considerate come certe e definitive, né dispensarci da un personale esame di tanto grave questione; anche perché non si era giunti, in seno ad essa, alla piena concordanza di giudizi circa le norme morali da proporre, e soprattutto perché erano emersi alcuni criteri di soluzioni, che si distaccavano dalla dottrina morale sul matrimonio proposta con costante fermezza dal magistero della Chiesa”. Come osserva Luigi Sandri nel suo recentissimo libro Il papa gaucho e i divorziati (Aracne Editrice 2018): “A dimostrazione dell’irritazione del pontefice per il rapporto della maggioranza della Commissione sta un fatto: il Vaticano non pubblicherà mai quel testo, che invece avrebbe avuto tutto l’interesse a rendere noto, se esso fosse stato sostanzialmente collimante con le idee del papa”.

L’enciclica creò forte imbarazzo a molte conferenze episcopali, come documentò Sandri già in un libro del 1969 (“Humanae vitae” e magistero episcopale). I vescovi belgi presero le distanze da Montini, sottolineando che, non essendo la dottrina dell’enciclica, formalmente, “infallibile, noi non siamo tenuti a un’adesione incondizionata, come quella che si esige per una definizione dogmatica”. Anche in altri Paesi ci furono contestazioni e chi, nel mondo teologico, apertamente prese le distanze dall’enciclica, ebbe problemi già sotto Paolo VI con le autorità ecclesiastiche; anche se la sorveglianza sarà assai più severa, e sistematica, con Giovanni Paolo II, che sceglierà, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger.

La diaspora del dissenso cattolico

L’altro episodio è legato all’approvazione della legge sul divorzio soprattutto per merito dei deputati Antonio Baslini, liberale, e Loris Fortuna, socialista (con il martellante “appoggio esterno” dei radicali) e al successivo referendum abrogativo proposto da gruppi cattolici, da una parte della Dc e dal Msi.

In prossimità della consultazione referendaria, prevista per il 12 e 13 maggio 1974, il Consiglio permanente della Cei, con una “Notificazione” voluta da papa Montini, invitò fortemente i cattolici – come impegno morale – a votare per l’abrogazione di quella legge. Ci furono immediatamente delle prese di distanza da parte di settori del mondo cattolico. L’ex Abate di San Paolo fuori le Mura, dom Giovanni Franzoni, contrastò apertamente l’indicazione dei vescovi e, in un libretto intitolato Il mio regno non è di questo mondo, sostenne che anche i cattolici avevano il pieno diritto di votare in coscienza, come ritenevano meglio e, dunque, anche per il NO. “La controversia – rilevò – non riguarda il sacramento del matrimonio, ma una legge di uno Stato laico”. Questa presa di posizione costò a Franzoni la sospensione “a divinis”, che gli impedì di celebrare lecitamente i sacramenti. Il tutto senza alcun processo canonico. Anche alcune decine di preti “divorzisti” furono variamente puniti dai rispettivi superiori. Ma pure “laici” furono puniti: a Venezia il patriarca Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I, sciolse la Fuci locale, espressasi per il NO.

Quando si votò si registrò un terremoto per il Vaticano, per la Cei e per la Dc: andò alle urne l’87,7% degli elettori e il NO prevalse con il 59,3%. Ma quella vittoria del fronte divorzista colse di sorpresa un’intera opinione pubblica che non si era accorta dei profondi cambiamenti socio-culturali che erano intervenuti nei vent’anni precedenti.

Nonostante le sollecitazioni di Montini, i vescovi non riuscivano a contenere un impegno politico e sociale dei credenti che metteva in discussione l’unità politica dei cattolici. E così il 25 aprile 1975, ricorrendo il trentesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazi-fascista, ci furono molte manifestazioni politiche e culturali sul valore dell’impegno politico e sulla responsabilità laica da parte di tutta la comunità civile del paese e di tutte le culture socio-politiche, già protagoniste della scrittura della Costituzione, nella edificazione di una cittadinanza inclusiva e solidale. Numerosi cattolici, sacerdoti e laici, parteciparono a pubblici dibattiti. E, nell’ambito di un siffatto confronto molto ampio, alcuni di loro – con un approccio di non eccezionalità, ma di una normale scelta laica e libera – richiesero e ottennero l’iscrizione al Pci.

La cosa non passò inosservata. Il 13 dicembre 1975, il Consiglio permanente della Cei emanò la “Dichiarazione” 254 che così recitava: “È incompatibile con la professione di fede cristiana l’adesione o il sostegno a quei movimenti che, sia pure in forme diverse, si fondano sul marxismo, il quale nel nostro Paese continua ad avere la sua più piena espressione nel comunismo, già operante fra noi anche a livello culturale e amministrativo”. L’allusione al Pci era evidente. E così alcuni preti che avevano aderito a questo partito, come don Mario Campli, presero la parola pubblicamente per opporsi alla “Dichiarazione” della Cei e smettere, autonomamente e liberamente, il servizio presbiterale.

Si trattò di una silenziosa diaspora che papa Paolo VI aveva considerato opportuno non contrastare con una attenta “pastorale” interlocuzione, bensì favorire, anche con l’intento di spingere ai margini della Chiesa (che la Lumen Gentium definisce “popolo di Dio”), e comunque fuori dall’organizzazione ministeriale, parti importanti del dissenso cattolico.

Franzoni, che non aveva aderito al Pci, annunciò su Com-Nuovi Tempi che alle elezioni politiche – in programma il 20 giugno 1976 – avrebbe votato quel partito. In agosto venne, pertanto, ridotto allo stato laicale.

Il rovesciamento dei fatti

A quarant’anni da quelle vicende, bisogna constatare che papa Bergoglio ne ha rovesciato i termini. Il 19 ottobre 2014, proclamando Beato Montini, ha infatti detto: “Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, Paolo VI ha saputo condurre con saggezza lungimirante — e talvolta in solitudine — il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore”.

In realtà, non era affatto una società secolarizzata e ostile che veniva avanti — come ancora pensa Bergoglio — ma una società che chiedeva e chiede anche alla Chiesa cattolica di fare i conti con la democrazia, sia al proprio interno che nel rapporto tra fedi e politica.

Ridefinire il concetto di laicità

Oggi l’unità politica dei cattolici non viene più affermata nemmeno a livello teorico. E ciascun credente compie le sue scelte politiche liberamente. Due anni fa, l’iniziativa di un gruppo di persone appartenenti, in diversa maniera, al cosiddetto “mondo cattolico” volta a diffondere un Appello dei cattolici per il NO al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, è stato prontamente rintuzzato da un nutrita schiera di cattolici, cristiani di altre confessioni, credenti di altre fedi e non credenti, di vario orientamento culturale e politico, sostenitori del NO o del SÌ, che hanno giudicato quell’Appello un modo integrista di intendere la fede, in contrasto con il Concilio Vaticano II che affermava la laicità delle scelte politiche.

Questa particolare angolatura della laicità in Italia appare ormai un’opzione largamente condivisa. Ed episodi come quello del 4 dicembre costituiscono atti regressivi che vanno soltanto deplorati, quando ormai il confronto tra diverse fedi, religioni, culture e saperi si è fatto molto più complesso. In un mondo in continua trasformazione, gli strumenti e le modalità per rendere proficuo il dialogo interculturale e interreligioso vanno completamente ridefiniti, a partire dal concetto stesso di laicità, che assume oggi una valenza generale molto più ampia rispetto al passato.

Queste mi appaiono le riflessioni più utili che il quarantesimo anniversario della morte di Paolo VI dovrebbe suscitarci in attesa che, il prossimo 14 ottobre, Francesco lo proclami Santo.

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