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Esperienze di sviluppo locale in Sardegna

Uno studio pioneristico di Anna Anfossi del 1968 che assume per primo e in largo anticipo, le dimensioni sociali dello sviluppo, il capitale umano, la formazione e il capitale sociale come precondizioni dei progetti di sviluppo locale

anfossi

Nel 2005 è stato ripubblicato uno studio di Anna Anfossi dal titolo Socialità e organizzazione in Sardegna con un saggio introduttivo di Benedetto Meloni. Si tratta di un lavoro apparso per la prima volta nel 1968. Esso costituisce uno studio sulla zona di Oristano-Bosa-Macomer tratto dalla ricerca che, tra il 1958 e il 1962, la sociologa conduce nel triangolo Oristano-Bosa-Macomer per l’OECE all’interno del “Progetto Pilota Sardegna”.  Un progetto che si poneva in maniera antitetica rispetto al modello di sviluppo dei poli industriali, in quanto aveva assunto, per primo e in largo anticipo, le dimensioni sociali dello sviluppo, il capitale umano, la formazione e il capitale sociale come precondizioni dei progetti di sviluppo locale.

Già Professore ordinario di Sociologia presso l’Università di Torino, dal 1964 al 1973, Anna Anfossi ha insegnato Sociologia presso l’Università di Cagliari. Tra il 1957 e il 1961 ha condotto ricerche sulle trasformazioni socio-economiche e sullo sviluppo in Sicilia (Ragusa, 1957), Lazio (Latina, 1958), Sardegna (Oristano, 1960-1961). È stata tra le fondatrici del Centro di Ricerche Industriali e Sociali di Torino.  Le sue ricerche più recenti si sono concentrate sulla concezione gandhiana dello sviluppo (India 1979-1980), sugli aspetti della formazione, della cultura nelle città e infine sugli “Stili di azione politica fuori delle istituzioni politiche”, riguardante casi di vari paesi (Italia, India, Africa, America Latina).

Il Progetto Pilota Sardegna dell’OECE costituiva un’esperienza basata sul paziente, lungo, complesso, creativo e inevitabile lavoro necessario per irrobustire l’esistente, per mettere in moto le forze endogene latenti, per partire da specificità e saperi locali che costituiscono un vantaggio comparato sicuro, perché radicati nella natura o nelle antiche tradizioni culturali dell’Isola. Purtroppo, tale esperienza fu abbandonata dal Piano di Rinascita della Sardegna a favore di una serie di pratiche per lo sviluppo calate dall’alto e basate sul massiccio trasferimento di risorse pubbliche, in previsione di una crescita economica fondata sull’industrializzazione per poli.

Nel riferirsi al Piano di Rinascita della Sardegna, Giulio Sapelli parla di industrializzazione fallita e di ritardi economici dovuti alla “proliferazione di effetti distorsivi e non incentivanti i fattori endogeni di lungo periodo, […], che stanno alla base della crescita e dello sviluppo industriale”. E aggiunge inoltre: “la carenza più profonda del Piano risiedette nel progressivo abbandono della prospettiva delineata a suo tempo da Anna Anfossi e dal progetto OECE: la valorizzazione del tessuto connettivo dell’attività economica locale attraverso l’assistenza tecnica, la formazione, il sostegno liberatorio allo sviluppo”. Non solo: il Piano di Rinascita “soffocò di fatto esperienze straordinariamente anticipatrici … come la missione OECE degli anni cinquanta”.

Lo studio della sociologa risponde a obiettivi esplicitamente dichiarati: – “stimolare un programma di sviluppo locale e di azione comunitaria nella zona prescelta; – collaborare con gli enti e le autorità responsabili dell’esecuzione di un piano di sviluppo integrato a livello locale; – a questo scopo, mettere a punto e sperimentare tecniche di intervento qualificato, volte ad appoggiare o – se necessario – a promuovere iniziative miranti allo sviluppo economico e sociale della zona”. Si prefigura a monte, quindi già nella fase progettuale, un intervento di sviluppo non calato dall’alto, bensì basato su un approccio integrato e sulla formazione come strumento per l’accompagnamento. L’obiettivo è quello di ricostruire i processi sociali reali che caratterizzano l’area: una realtà locale in qualche senso più ordinaria ma specifica, suscettibile di essere trasformata, di essere oggetto di progetti che coinvolgano le popolazioni locali.

Nel periodo di massima attività, il Progetto arrivò a includere una cinquantina di persone e molti degli esperti operanti nelle sotto-zone erano locali e residenti.L’attività dei servizi tecnico-operativi era orientata verso alcune finalità generali, articolate secondo obiettivi specifici, si dipanava a partire da quattro centri pilota collocati nel territorio, con funzione dimostrativa. Il servizio agricoltura e zootecnia mirava a dimostrare il valore dell’assistenza tecnica nell’incremento del reddito, attraverso la valorizzazione delle produzioni tradizionali e il corretto utilizzo degli incentivi già esistenti. Il servizio artigianato trovava il suo fulcro nell’assistenza tecnica integrata per filiera produttiva, sia con azioni di tipo verticale (dalla scelta delle materie prime alla commercializzazione dei prodotti sul mercato internazionale), sia con azioni di tipo orizzontale (miglioramento quantitativo e qualitativo dei processi produttivi, anche avvalendosi del supporto di artisti). L’addestramento a lavori agricoli o artigianali, con specifica attenzione ai loro aspetti tecnici, non poteva prescindere da una base di formazione organizzativa e amministrativa. Il servizio di economia domestica e rurale venne destinato a valorizzare il ruolo centrale della donna in tutte le attività di trasformazione delle produzioni agroalimentari (orti familiari, insaccati, formaggi, pane, dolci) e artigianali (tessitura, cestineria, ricamo) quale strumento per l’integrazione del reddito. In quest’ambito, i corsi di formazione coinvolsero oltre ottocento donne.

A questi tre servizi operativi propriamente tecnici se ne affiancarono altrettanti di natura socio-culturale, che operavano mediante i quattro centri pilota con funzione dimostrativa. L’intento sotteso era riuscire a realizzare una combinazione efficiente tra gli interventi strutturali di assistenza tecnica e quelli sulla formazione e sul sociale. Il servizio di educazione degli adulti, che interveniva in un contesto caratterizzato da un tasso di analfabetismo superiore al 22 per cento (secondo il Censimento del 1951) operava attraverso la discussione pubblica dei problemi delle comunità così come essi venivano percepiti dai soggetti locali. Il servizio sociale operò fin dall’inizio in maniera integrata con i servizi tecnici ed ebbe un ruolo decisivo nella nascita e nella crescita delle strutture cooperative. Inoltre, realizzò un’azione comunitaria autonoma, basata su un modello di inchiesta comunale che prevedeva il coinvolgimento di operatori locali. Il servizio audiovisivi costituì infine una novità, sia quale strumento di integrazione dell’azione educativa, sia quale stimolo alla partecipazione individuale nelle attività di innovazione tecnologica.

Il compito degli operatori consisteva in primo luogo nello stimolare le attività economiche e culturali già esistenti, suscettibili di dare risultati soddisfacenti per le comunità, e in seconda istanza di suggerire attività nuove che si integrassero con le prime e che lasciassero intravedere possibilità di successo In questa prospettiva, si rendeva necessaria una valutazione accurata, sia delle risorse esistenti, sia delle potenzialità latenti e implicite nelle attività, da individuare attraverso un’osservazione in profondità. Questo doppio canale mostra l’importanza di un approccio integrato perfino nel caso di problemi settoriali specifici, dove gli aspetti tecnici sembrerebbero avere una priorità assoluta. L’intervento non riguardava dunque la singola impresa, ma l’uomo, la comunità, il sistema locale, le relazioni da attivare al loro interno.

Socialità e organizzazione in Sardegna costituisce uno studio controcorrente perché alla fine degli anni ’50, il paradigma che domina la riflessione scientifica su scala mondiale è quello della teoria della modernizzazione, basato sostanzialmente sulla contrapposizione tra tradizione e modernità, che si genera nell’ambito della teoria generale dei sistemi di matrice funzionalistica. Il tipo ideale di modernizzazione è quello legato all’urbanesimo, all’industria, alla tecnologia, a quel processo di individualizzazione, che richiede il distacco dalla tradizione e il venir meno delle funzioni locali come tappa necessaria sulla via del raggiungimento di una società moderna occidentale. Le appartenenze locali vengono espunte perché considerate negative: la famiglia, la comunità locale appaiono caratterizzate esclusivamente da particolarismo e, in quanto tali, sono tematizzate come ostacoli da aggirare perché non si ritardi il processo storico di sviluppo. In questa prospettiva, le azioni di sviluppo in ambito meridionale prevedono il superamento dell’arretratezza e la modernizzazione delle società locali attraverso un intervento dello Stato e delle grandi imprese nazionali. Una crescita economica basata sull’industrializzazione. In particolare, la promozione dello sviluppo delle regioni meridionali dovrebbe passare attraverso l’implementazione di “poli di sviluppo industriale”.

Riflettendo su quella vicenda di cui fu protagonista, lo studioso Francesco Pigliaru così scrive: “La (non dimostrata) incapacità del sistema locale di generare crescita, ricchezza e persino sviluppo, diventò l’alibi che la classe dirigente utilizzò per intrecciare relazioni davvero pericolose con potenti lobby interessate allo sviluppo del settore chimico italiano. Così nacque la scelta strategica di puntare sulla scorciatoia rappresentata da quel tipo di industrializzazione indotta. L’apparente facilità della scorciatoia può avere attratto verso un lavoro salariato «sicuro» persone (capitale umano) che in altri contesti avrebbero lavorato con impegno alla trasformazione dell’industria locale; può aver creato concorrenza nel mercato del lavoro, determinando aspettative salariali e di reddito incompatibili con una industria locale debole, all’inizio di una lunga trasformazione; infine, ha certamente sottratto direttamente al progetto Ocse impegno amministrativo e risorse pubbliche”.

L’elemento di principale fragilità del Progetto Pilota Sardegna va rintracciato nella sua durata, o meglio, nell’impossibilità di raggiungere il suo naturale compimento per motivi contingenti. Infatti, quando, nel 1956, si decise di far partire il Progetto, si era ritenuto che esso dovesse restare operativo per un periodo di tempo sufficiente, non inferiore a una decina d’anni, in modo che le varie attività previste potessero essere non semplicemente avviate, ma anche consolidarsi e andare a regime, così che la popolazione locale potesse esserne informata, potesse approfittarne ed essere in grado, in seguito, di utilizzare queste esperienze per conto proprio. In realtà, già alla fine del 1962 gli Enti pubblici italiani che erano stati coinvolti nel Progetto, prima fra tutti la Cassa per il Mezzogiorno, iniziarono a mostrare minore entusiasmo e si proclamarono ormai assai più interessati a promuovere e sostenere progetti di sviluppo incentrati sull’industrializzazione di aree specifiche, i cosiddetti “poli di sviluppo” in Italia Meridionale, Sardegna compresa. Il Progetto chiuse quindi la sua attività proprio alla fine di quell’anno. Era durato esattamente quattro anni, un periodo di tempo sufficiente per mettere appena in moto un’impresa collettiva così impegnativa e farle cominciare a mettere radici in un contesto sociale che – realisticamente – non vi era preparato.

Va anche ricordato che contemporaneamente al Progetto Sardegna, si attiva nel Comune di Santulussurgiu, nel Montiferru, un’esperienza di comunità parallela e direttamente connessa a quella di Ivrea e del Canavese di impronta olivettiana.

Adriano Olivetti trae spunto dalla critica alla società industriale contemporanea – preoccupato che gli “spiriti animali” del capitalismo distruggano il tessuto sociale, favorendo un individualismo egoistico – e insiste sulla dissociazione che la base economica della modernità opera all’interno della dimensione etica e culturale. Ancora più specificamente, egli mette in risalto il conflitto che oppone gli individui alle istituzioni e alle Amministrazioni, e ne ricava lo stimolo a proporre progetti di nuova amministrazione, intesi a fare della comunità il modello-base su cui fondarsi. Lo sviluppo della civiltà contemporanea avrebbe infatti potuto favorire la nascita di un interesse morale e materiale tra gli individui, il cui fondamento territoriale non poteva che essere la comunità locale. Questa comunità di interessi, che è anche una comunità storica, avrebbe dovuto essere la base su cui costruire rapporti in grado di attutire i contrasti della modernità, favorire i contatti e lo scambio tra settori produttivi (agricoltura, industria, artigianato) e spingere gli individui a dotarsi di servizi e beni comuni, sulla base di una vita meno frazionata e sprovvista di solidarietà.

In definitiva, lo sviluppo locale solidale non avrebbe potuto prescindere dal fuoco centrale della comunità sottesa. In stretta collaborazione con il Movimento di Comunità di Olivetti – tanto sul piano teorico quanto su quello delle “buone pratiche” – si costituisce il “Gruppo Montiferru”, a cui aderiscono non solo i giovani del paese ma anche persone provenienti da tutta l’Isola. Il dibattito si focalizza sui temi dell’autonomia e dello sviluppo locale, e innesca una ricerca di comunità basata sull’esperienza della riforma agraria.

L’indagine Autonomia e Solidarietà nel Montiferru (1959), realizzata da Diego Are eAntonio Cossu con il coordinamento del sociologo svizzero Albert Meister, definisce nella prefazione – in termini ancora attuali – concetti quali autonomia, solidarietà, partecipazione ai processi di sviluppo e di crescita comunitaria. Nella sostanza, la ricerca affronta lo studio dell’ambiente sociale ed economico e l’analisi della vita associativa e culturale di Santulussurgiu, e ipotizza alcune linee di sviluppo possibile, disegnando il quadro dei rapporti tra la comunità locale e il nascente Mercato Comune Europeo.

Il gruppo Montiferru edita un periodico omonimo, di cui uscirono 14 numeri, il quale ospita contributi vari sulle problematiche dello sviluppo locale e organizza dei convegni regionali che affrontano i nodi del ritardo isolano e in particolare dell’area in questione. Tra le sue iniziative, figura anche la fondazione del Centro di Cultura Popolare dell’UNLA, che in quegli anni si dedica con successo all’educazione degli adulti attraverso corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale in agricoltura. L’esperienza fu così positiva da ottenere il riconoscimento dell’UNESCO come buona pratica da replicare.

Tornare a riflettere su queste esperienze, come su tante altre che maturarono in molti territori del nostro Paese negli anni ’50, è importante perché, in tanti casi, si tratta di riprendere un cammino bruscamente interrotto da una visione culturale che oggi finalmente è messa in discussione in modo generalizzato.

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