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Tito agli albori della Repubblica

Le lotte per la terra vedono protagonisti soprattutto i braccianti e sono decisive per l'avvio della democrazia repubblicana. Come molti coltivatori che avevano una masseria in proprietà, in affitto o a mezzadria, Moscarelli non partecipa a quelle lotte. Si era trasferito con la sua famiglia a Satriano, separandosi dal padre e dai fratelli, e conduceva un fondo a mezzadria

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All’indomani della seconda guerra mondiale, migliaia e migliaia di contadini lasciano il fronte o i luoghi di internamento nei lager nazisti e trovano le campagne, soprattutto nel Mezzogiorno, in condizioni di estrema miseria. Anche Moscarelli ed altri militari titesi ritornano finalmente a casa. Fa ritorno a Tito un contadino di grande coraggio,  Giuseppe Meliante, che ha rievocato in un libricino davvero prezioso (Impronte… rosse, RCE Edizioni, 2003) la sua esperienza di internato nei lager nazisti per aver opposto un netto rifiuto ad arruolarsi nell’esercito della repubblica di Salò. Egli dové ingaggiare, insieme ad altre centinaia di migliaia di ragazzi, per lo più meridionali e contadini, una gigantesca lotta per la sopravvivenza, a cui poté far fronte attingendo ad una sapienza non colta, trasmessa di padre in figlio e plasmata da secoli di oppressione e sfruttamento. Lungo i tornanti della storia i contadini portano stampata in volto una dignitosa capacità di sopportare la loro condizione di subalternità: una sottile ironia, un sorriso sardonico, un senso di attesa infinita. Poi, all’improvviso, quando le vicende umane sembrano mettere in moto tutte le potenzialità di cambiamento, essi si fanno avanti, si ribellano, entrano nella storia con una consapevolezza incredibile. Così quel “no” al nazifascismo, espresso da Meliante con tutte le proprie energie e proveniente dal profondo delle sue viscere, equivaleva per intensità di emozioni e sfaldamento di antiche certezze a ciascuna delle guerre contadine, da Spartaco al brigante Crocco. Dovette essere estremamente drammatica la situazione per i prigionieri impiegati in quelle industrie che applicarono la disposizione del 28 febbraio 1944 secondo la quale il vitto dei deportati doveva essere proporzionato al loro rendimento sul lavoro. Le condizioni di salute diventarono così precarie che fu ordinato dal Comando tedesco  di assegnare ad aziende agricole tutti quegli internati italiani che “non sono in grado di lavorare, affinché si rimettano pienamente in forze”. Meliante ne fu sollevato anche moralmente. Tornare per un po’ al contatto diretto con la terra era come un tuffo nel suo mondo, il suo habitat naturale.

Purtroppo, la scoperta del furto di qualche barbabietola interruppe bruscamente quel breve soggiorno agreste. Arrivò il 23 luglio 1944, una domenica come le altre. Tutti i giornali annunciarono la cosiddetta “civilizzazione degli internati militari italiani”. Una beffa! Si trattava di passare dal controllo militare della Wehrmacht a quello civile, poliziesco, della Gestapo, per la quale ogni mancanza sul lavoro diventava sabotaggio, attentato alla sicurezza della Germania, reato da pena capitale.

Anche in questo caso la stragrande maggioranza dei nostri ragazzi reagì con dignità, rifiutando la “civilizzazione” volontaria. Non firmando l’impegno richiesto, furono sottoposti ai maltrattamenti più inauditi. E alla fine l’ebbero vinta. Hitler fu costretto a dichiararli automaticamente “liberi lavoratori civili”. Lavoro libero ma… obbligatorio!

Quando coloro che erano riusciti a sopravvivere tornarono nelle proprie famiglie, trovarono i propri paesi nella desolazione. In molte regioni la disoccupazione è altissima. E così masse enormi di braccianti, soprattutto quelli che avevano resistito al nazifascismo, danno vita a manifestazioni imponenti per protestare contro le autorità pubbliche. Dapprima il comunista Fausto Gullo e successivamente il democristiano Antonio Segni, ministri dell’Agricoltura dei primi governi democratici che si costituiscono dopo la caduta del fascismo e la lotta di liberazione, adottano un provvedimento che tenta di venire incontro alla fame di terra dei contadini. I terreni pubblici e privati, che sono incolti o mal coltivati, vengono assegnati ai disoccupati.

Questa misura incentiva e “protegge” legalmente quella particolare forma di lotta che i contadini avevano già sperimentato in passato: l’occupazione delle terre e soprattutto dei latifondi, che sono grandi estensioni terriere su cui i proprietari investono pochissimo. Così, specie nel Mezzogiorno, migliaia e migliaia di ettari di terre incolte sono occupate e decine e decine di municipi diventano punti di riferimento di forti mobilitazioni popolari.

A Tito, nel 1946 furono occupati per alcuni giorni i terreni demaniali al Piano di Finocchio, con azioni di lotta sostenute dall’Amministrazione comunale a guida socialcomunista. Il 31 marzo di quell’anno era stato eletto sindaco il socialista Luigi Salvia. La stessa cosa era avvenuta a Tricarico con l’elezione del poeta Rocco Scotellaro.

Il mondo contadino del Sud conosce, per la prima volta in modo diffuso, le modalità della libera organizzazione politica e sindacale. Guidano le lotte centinaia di intellettuali, professionisti e artigiani, che dirigono i nuovi partiti di massa: la Democrazia cristiana, il Partito comunista e il Partito socialista. Gli stessi partiti che insieme formano, tra il 1944 e il 1947, i governi di unità antifascista. Si realizza una novità rilevante: lo Stato, in modo aperto e visibile, si pone in sintonia con le esigenze del mondo contadino; nello stesso tempo, i ceti popolari delle campagne vanno manifestando una crescente fiducia nei pubblici poteri. Per la prima e forse unica volta nella storia d’Italia, si manifesta la capacità delle élite intellettuali e politiche di collegarsi con le aspirazioni profonde dei contadini, innescando un processo corale di miglioramento delle condizioni sociali ed economiche del Paese.

La democrazia italiana si arricchisce così della partecipazione dei contadini, che erano rimasti ai margini della vita democratica anche prima della dittatura fascista e ora pongono aspirazioni e bisogni nuovi da soddisfare. Alcuni di essi – come era già avvenuto con Di Vittorio – arriveranno a ricoprire incarichi ai vertici delle organizzazioni agricole e degli organismi dirigenti dei partiti fino all’elezione al Parlamento. Esempi di tali percorsi formativi sono le carriere sindacali e politiche di Leda Colombini, Silvio Antonini, il lucano Michele Mancino. Affiora nei loro itinerari la vocazione pedagogica che i grandi partiti di massa sanno esercitare nei confronti della base, consentendo anche a donne e uomini in fondo alla scala sociale di diventare dirigenti.

Nel 1945 si estende il diritto di voto alle donne. S’avvera così il sogno a lungo coltivato dalla scrittrice Clelia Romano Pellicano, esponente del femminismo liberale, vissuta tra l’Ottocento e il Novecento, dalla socialista Anna Maria Mozzoni che già nel 1867 aveva promosso con Salvatore Morelli la prima proposta di legge sui diritti civili e politici delle donne, e da Argentina Altobelli, segretaria della Federterra.

Le braccianti di Filo di Argenta scrivono una canzone, che cantano andando in lunghe file in bicicletta durante la campagna elettorale del 2 giugno dell’anno successivo, le cui prime parole riecheggiano i canti delle donne socialiste degli inizi del secolo: “Noi donne tutte unite avremo una gran forza/ Siamo chiamate all’urna e per la prima volta/ Andiam senza paura e con grande slancio in cuor”.

Il voto delle campagne è determinante nella vittoria della Repubblica sulla Monarchia e un politico attento come Guido Dorso non manca di rilevarlo in un profetico articolo apparso, qualche giorno prima del referendum, sulla Gazzetta del Mezzogiorno con il titolo “I cafoni sono repubblicani”. Ma al risultato non mancano di contribuire le donne che sono il 52,2 per cento dell’intero elettorato e partecipano al voto nella misura dell’89,1 per cento. E votano più numerose nelle zone rurali che nelle città.

Tito è tra i centri lucani dove prevale la Repubblica. I risultati del referendum istituzionale consentono alla Basilicata, con il suo 40,21 per cento (42,5 a Potenza, 39,9 a Matera) di piazzarsi tra le regioni più repubblicane del Mezzogiorno, seconda solo all’Abruzzo.

L’Assemblea Costituente deve tener conto di tali novità quando formula l’articolo 44 della Costituzione italiana, che recita: “Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata (…) promuove e impone la bonifica, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive: aiuta la piccola e media proprietà (…) “. Principi giuridici nuovi, come la tutela del territorio e la giustizia sociale vengono posti come grandi finalità della politica agricola nazionale, i cui indirizzi riguardano la definizione dei doveri verso la collettività a cui sottoporre la proprietà privata della terra, la centralità della continua trasformazione del territorio per il bene di tutti e il sostegno alla piccola e media proprietà della terra.

Si crea, finalmente, una sintesi alta e condivisa, nell’ordinamento repubblicano italiano, tra l’antico principio della terra come valorizzazione dell’individuo e come bene inclusivo, che caratterizza la plurimillenaria civiltà contadina, e i moderni valori di libertà ed equità. Una sintesi che deriva da un intenso dialogo nelle campagne italiane, sviluppatosi dalla fine dell’Ottocento, tra i socialisti riformisti di Altobelli, i socialisti rivoluzionari di Grieco e Di Vittorio divenuti nel frattempo comunisti, i cattolici democratici di don Murri e i cattolici liberali di don Sturzo.

Queste culture politiche s’incontrano con la cultura tecnico-economica di Jacini, Nitti e Serpieri e, nel contaminarsi con essa, potranno favorire l’ulteriore e significativo miglioramento delle condizioni dell’agricoltura italiana e indicare la strada per tenere insieme i principi di un’agricoltura modernizzata con gli originari capisaldi civili del mondo rurale, da attualizzare costantemente. L’articolo 44 è, infatti, scritto con il contributo determinante di Luigi Einaudi, un economista liberale impegnato perché sia riconosciuta legittimità alle istanze del movimento contadino nel quadro di una modernizzazione dell’agricoltura.

Quando ottiene di sostituire l’indicazione massimalista contenuta nel progetto originario di Costituzione “la legge (…) abolisce il latifondo” con l’altra, più ragionevole e gestibile, “la legge (…) promuove ed impone la bonifica delle terre e la trasformazione del latifondo”, il futuro presidente della Repubblica non fa altro che riproporre alle forze democratiche di raccogliere unitariamente il valore morale della lotta al nazifascismo, da lui indicato come “nemico degli uomini”.

In Basilicata, le lotte per la terra svolgono un ruolo decisivo per lo sviluppo dei partiti. Ma una funzione importante hanno anche la diffusione  della libera stampa e la radio. Dopo il 1943, erano nati molti giornali di partiti, riprendendo, in tal modo, una consolidata tradizione del periodo prefascista. Come molti coltivatori che avevano una masseria in proprietà, in affitto o a mezzadria, Moscarelli non partecipa a quelle lotte. Si era trasferito con la sua famiglia a Satriano, separandosi dal padre e dai fratelli. E si era insediato su un fondo a mezzadria di proprietà di Vincenzo Pucciariello. Vi resterà sei anni. Di quel periodo egli ricorda un episodio significativo: “Dopo un paio d’anni, mi accorsi che il padrone  voleva fare i conti  un po’ a cazzi suoi. Allora io scrissi sulla porta della masseria: ‘Rispettare i lavoratori! Oggi è un’Italia nuova!’ E forse quella scritta ancora oggi ci sarà”.

Vedi anche:

Un capocontadino che sta per compiere cento anni

Pasquale Moscarelli negli anni del fascismo

Pasquale Moscarelli durante la guerra

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2 Responses to Tito agli albori della Repubblica

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