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Rocco Scotellaro tra antica e nuova ruralità

Introduzione al Convegno "Rocco Scotellaro tra antica e nuova ruralità" organizzato da Accademia della Ruralità "Giuseppe Avolio", Associazione Lucani a Roma, CIA Agricoltori Italiani e UNIAT Casa Ambiente e Territorio e svoltosi a Roma il 24 maggio 2023 nell'Auditorium "Giuseppe Avolio"

SCOTELLARO_ORIZZONTALE

Il 10 aprile di vent’anni fa, Giuseppe Avolio tenne a Tricarico un appassionato discorso al Convegno organizzato dalla CIA per l’80° anniversario della nascita di Rocco Scotellaro.

 

Avolio fece un’affermazione importante che vorrei qui riproporre in apertura del nostro Incontro: “Riflettere sulla vicenda umana, politica e culturale del poeta e sindaco di Tricarico può permetterci di trarre qualche elemento valido per la nostra azione di oggi protesa a creare le condizioni necessarie per la rinascita del Sud”.

 

Non abbiamo abbandonato questa consapevolezza riguardo all’attualità del lascito politico e culturale di Scotellaro.

 

Rocco ci ha lasciato in eredità un’idea e un metodo che egli riteneva essenziali nei processi di sviluppo.

 

L’idea è che la cultura contadina, anziché un retaggio del passato, costituisce un elemento da studiare con discernimento per migliorare il valore del capitale umano.

 

E il metodo è che l’inchiesta sociologica partecipata va considerata come la premessa ineludibile di ogni percorso di sviluppo.

 

Per Rocco la cultura contadina non è un mito o un’ideologia, ma una cultura reale. Fatta di valori essenziali: reciprocità, mutuo aiuto, scambio intergenerazionale, rapporto uomo – terra fondato sulla responsabilità.

 

Per avere un’idea concreta di questa cultura basta un solo esempio: le forme cooperativistiche tra braccianti, sorte alla fine dell’800 dalla Romagna al Mantovano, che hanno segnato il movimento cooperativo in Italia come l’unico in Europa ad avere origini agricole.

 

In virtù di questa cultura, l’Associazione generale operai e braccianti di Ravenna, cooperativa fondata da Nullo Baldini, si aggiudicò l’appalto per i lavori di bonifica a Ostia e Maccarese. E oggi, in virtù di questa cultura, la stessa cooperativa, ora denominata CAB. Ter.ra, rinuncia al raccolto per salvare Ravenna dall’inondazione.

 

Scotellaro è convinto che il Mezzogiorno abbia al proprio interno le energie capaci di determinare la propria rinascita.

 

Considera la partecipazione dei contadini alle iniziative volte per il lavoro, i servizi sociali, la crescita culturale, come la condizione per favorire lo sviluppo.

 

Qui l’originalità del suo metodo politico, fondato sulla medesimezza umana e culturale nel rapporto coi contadini.

 

***

 

Non mi soffermerò su Scotellaro intellettuale, politico e amministratore. Altri lo faranno dopo di me.

 

Tratterò un passaggio fondamentale nella sua vicenda umana: l’abbandono della politica attiva e l’avvio di un’attività di studio e ricerca condotta in modo scientifico.

 

Rocco avverte la complessità del clima politico indotto dal nuovo ordine mondiale e dalla Guerra fredda.

 

E intuisce che l’approccio alla politica – movimentista e tattico – praticato dalla sinistra nei primi anni della democrazia repubblicana, è del tutto inadeguato.

 

Comprende che la battaglia per affermare i valori e i diritti dei contadini nella società non si può vincere con lo scontro frontale, muro contro muro.

 

Rileva una insufficiente elaborazione teorica nella sinistra sui temi dell’agricoltura e, in generale, su quelli dello sviluppo.

 

Matura una posizione critica, realistica e combattiva, molto diversa dalla posizione ufficiale sia dei comunisti che dei socialisti.

 

La sinistra non si rende conto, ad esempio, che la riforma agraria, conquistata con le lotte contadine, avrebbe indotto la modifica della struttura produttiva del Paese.

 

Mostra nei confronti della riforma un atteggiamento di attesa, di smobilitazione, di opposizione negativa e passiva.

 

Invece, è proprio con quel “colpo d’ariete” che l’agricoltura si è potuta modernizzare, installandosi su una proprietà più diffusa della terra.

 

Un processo che porta già scritto in sé lo svuotamento delle campagne. Un evento doloroso che sarebbe illusorio pensare di scansare.

 

L’arrivo dei trattori, dei fitofarmaci e dei fertilizzanti fa, infatti, cadere la domanda di manodopera. E i piccoli fazzoletti di terra vengono ineludibilmente abbandonati.

 

Ma senza una riduzione degli addetti non sarebbe possibile ottenere una crescita della produttività in agricoltura e un innalzamento dei redditi agricoli.

 

In questa profonda incomprensione, pesano le rigidità ideologiche e la scarsa attitudine a leggere i dati della realtà.

 

Per questo Rocco si convince che la battaglia politica ha bisogno di strumenti scientifici e culturali nuovi.

 

Sceglie, dunque, di andare a studiare economia agraria con Manlio Rossi-Doria a Portici e prepara per l’editore Laterza un libro sulla cultura dei contadini del Sud.

 

Nel formarsi come scienziato sociale, partecipa al lavoro di un gruppo di giovani studiosi italiani e stranieri. Essi compiono ricerche di impianto nuovo sul Sud.

 

Opera una scelta analoga a quella di Rossi-Doria: dedicarsi alla “politica del mestiere”, come usa dire il professore di Portici.

 

Dedicarsi cioè interamente al mestiere di studioso, dando ad esso chiare finalità sociali e civili.

 

Rocco elabora così un metodo di indagine, fondato sull’intervista e sul racconto autobiografico e si dedica alla stesura di L’uva puttanella e Contadini del Sud.

 

Entrambe le opere rimangono incompiute. Ma colpiscono per l’originalità del metodo adottato: interdisciplinare e sistemico.

 

Si collocano, perciò, nel solco di una lunga e prestigiosa tradizione del pensiero economico-agrario, che affronta i problemi dell’agricoltura in modo sistemico.

 

Con la collaborazione di Scotellaro e Gilberto Marselli, Rossi-Doria apre l’Osservatorio di economia agraria di Portici alla sociologia.

 

In ciò è agevolato dall’arrivo frequentissimo di studiosi americani, attratti dal “Cristo” di Levi e dal desiderio di studiare le radici culturali degli italiani immigrati in Usa.

 

Il Gruppo porticese stabilisce, inoltre, un legame profondo con Giorgio Ceriani Sebregondi che dirige la sezione sociologica della Svimez.

 

Da tale sodalizio nascono gli studi preliminari per il “Piano Lucano”. Segretario del gruppo di studio è Scotellaro, a cui è affidata un’indagine sulla scuola in Basilicata.

 

Purtroppo il Piano Lucano Svimez non avrà alcun seguito operativo. Influenzerà la metodologia della successiva pianificazione. Ma tutto rimarrà a livello concettuale.

 

Infatti, prende piede nel frattempo l’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto come panacèa dei mali del Sud.

 

Pasquale Saraceno la propone in un convegno a Napoli nel 1953, un mese prima della morte di Scotellaro.

 

***

 

La svolta “industrialista” è condivisa trasversalmente da tutti i partiti e da tutti i sindacati. Temono, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma migratorio.

 

Scongiurare tale prospettiva significa evitare non solo forti disagi sociali, ma anche imprevedibili mutamenti politici.

 

La Dc vede nell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari.

 

Mentre il Pci vede nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni.

 

Le voci che si oppongono sono diverse: le critiche più nette giungono da Olivetti, Rossi-Doria, Dolci, Ceriani-Sebregondi e Ardigò. Ma tali voci sono messe a tacere.

 

E nel momento in cui la proposta diviene la grande scelta strategica per il Sud, si delegittima e marginalizza un’intera cultura economica, sociale e politica.

 

Tale cultura dello sviluppo non nega l’importanza dell’industria. Ma pone la necessità di articolare l’intervento per contesti e per aree di sperimentazione.

 

Pone al centro la ricerca e i processi educativi e formativi.

 

I sostenitori dell’industrializzazione forzata dall’alto fanno leva sull’emotività, agitando le previsioni dei flussi migratori che sono indubbiamente allarmanti.

 

Ma evitano di spiegare che l’esodo rurale è un processo sostanzialmente “liberatore”, per usare un’espressione di Rossi-Doria.

 

L’esodo avrebbe messo definitivamente in crisi l’organizzazione tradizionale dell’agricoltura e obbligato a porre in termini nuovi i problemi agricoli nel Sud.

 

La parola “esodo” nella Bibbia non ha una connotazione negativa. È infatti associata alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto.

 

L’esodo, se accompagnato da politiche territoriali di sviluppo, avrebbe indotto nel giro di poco tempo un controesodo, cioè un esodo urbano.

 

Un processo che si sarebbe dovuto sostenere e accelerare per raggiungere un riequilibrio. Salvaguardando con discernimento la cultura rurale.

 

La deriva dell’industrializzazione forzata dall’alto e l’abbandono dell’approccio dello studio di comunità per le politiche di sviluppo hanno conseguenze catastrofiche.

 

Innanzitutto, nell’impegno dei governi sui problemi dell’agricoltura.

 

Da allora si emarginano dai processi di sviluppo le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo.

 

Si attenua il contributo dell’Italia nel fissare le linee di intervento della PAC nei primi e cruciali negoziati dopo la Conferenza di Stresa del 1958.

 

E si riduce sempre più il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative.

 

Gran parte dei tecnici delle scuole e facoltà di agraria sono assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici.

 

Essi sono adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti.

 

E così gli agricoltori diventano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche come filtro nel rapporto coi produttori di mezzi tecnici.

 

Qui si può cogliere la faglia ecologica che si crea durante la fase di modernizzazione dell’agricoltura.

 

La faglia è la frattura nell’osmosi che si era realizzata tra la cultura tecnico-agronomica ed economico-agraria e la sapienza esperienziale dei contadini.

 

Un’osmosi che si era strutturata nella seconda metà dell’Ottocento in una efficiente organizzazione pubblica della conoscenza agricola.
***

 

Bisognerà attendere gli anni Settanta per riproporre in termini corretti i problemi dello sviluppo.

 

Non lontano da Tricarico, nel Borgo Taccone di Irsina, la Costituente Contadina organizza la manifestazione “Occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura”.

 

È l’ottobre 1977. A dicembre nasce la Confcoltivatori.

 

Si addensano nelle campagne le prime forme di resistenza a pratiche agricole che erodono le risorse naturali.

 

Comincia spontaneamente il controesodo dalle città verso le campagne.

 

Nuove forme di conduzione agricola integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana con le opportunità che solo le aree rurali sono in grado di offrire.

 

Anche i figli dei contadini che tornano dalle università sperimentano modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori.

 

E questi nuovi agricoltori istruiti dialogano coi giovani di provenienza urbana.

 

In tali movimenti convergono anche le iniziative per rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare la tossicodipendenza e la condizione carceraria.

 

Nel giugno 1977 era stata approvata, con l’apporto di Angelo Ziccardi, la legge 285 sull’occupazione giovanile. Con sostegni a cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura.

 

Il Parlamento sta discutendo la riforma sanitaria, la riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica, le norme sulle terre incolte e mal coltivate e la “Quadrifoglio”.

 

Iniziative legislative che fanno parte del programma dei governi di solidarietà nazionale. E che saranno approvate l’anno successivo.

 

In tale fermento, anticipatore e innovativo, vengono a incrociarsi spinte culturali diverse. Esse danno vita a cooperative agricole con la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti.

 

Sono i pionieri di quel fenomeno che sarà poi inquadrato come “agricoltura sociale”. Una vicenda sottovalutata e considerata come una moda passeggera.

 

Ma in realtà si tratta di quella “nuova ruralità” che tuttora è viva nelle campagne.

 

Se si guardano i titoli delle iniziative di Taccone e i nomi delle personalità della cultura che sono coinvolte, è facile notare un dato molto importante.

 

C’è un tentativo di collegare le esperienze di comunità degli anni Cinquanta con le ricerche socio-antropologiche di Ernesto De Martino e di altri studiosi nel Sud, nonché con quelle che Nuto Revelli aveva svolto tra i contadini delle Langhe.

 

Un tentativo originale di costruire un pensiero ambientalista con un approccio completamente diverso da quello d’importazione anglosassone.

 

Un approccio che si collega con quello appunto sperimentato da Scotellaro.

 

Rocco aveva già tracciato il percorso e avviato l’immensa opera di recupero critico della cultura contadina.

 

Un’opera che non va confusa con l’impulso nostalgico di sognare il ritorno all’agricoltura di una volta.

 

Le condizioni di quella ruralità erano condizioni di miseria e di malattia. E l’agricoltura del passato era fatta di fatica e sofferenza.

 

Un conto sono i valori, i comportamenti, l’etica di quel mondo; e altra cosa è la vita materiale.

 

Il mondo non si può fermare. E non possiamo costringere nessuno a restare dov’è nato se l’esodo è, biblicamente, vissuto come liberazione dalla precarietà.

 

Va, dunque, rimesso in moto il meccanismo di trasmissione generazionale. E l’immigrazione costituisce oggi una grande opportunità per alimentarlo.

 

Il flusso si svolge dal vaso troppo pieno del continente africano al vaso italiano ed europeo che si sta svuotando, come indicano i dati del nostro declino demografico.

 

Ci sono due necessità da comporre: quella delle popolazioni africane di liberarsi dalla miseria; e quella delle popolazioni europee invecchiate di trasmettere a una nuova generazione il lascito ereditato dagli antenati.

 

Ci vogliono però delle condizioni di base per amalgamare le due necessità.

 

La prima è culturale: prendere atto che le migrazioni sono un fenomeno strutturale da governare nazionalmente e a livello europeo, mediante ingressi selettivi.

 

La seconda è una condizione politica: occorre integrare in profondità gli immigrati, trattando i loro figli come i nostri, attraverso l’educazione, l’istruzione, il lavoro.

 

Quando il processo di integrazione si sarà avviato e fioriranno le comunità, si potranno più agevolmente sconfiggere alcuni mali provocati dalla società del benessere.

 

Questi mali vanno dal senso di solitudine agli atteggiamenti di rifiuto e opposizione al cambiamento, di sfiducia nella politica.

 

In un contesto generativo di attività produttive che utilizzino le nuove tecnologie genetiche e l’intelligenza artificiale, si potranno aprire spiragli per i nostri giovani.

 

Essi oggi continuano ad andarsene all’estero. Nel nuovo contesto da creare potranno, invece, decidere consapevolmente di restare o tornare.

 

L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per accorciare i tempi nell’individuare patogeni, come la Xylella, e salvaguardare così la biodiversità.

 

Le tecnologie TEA e l’editing del genoma ci potranno essere utili per produrre cibo nelle aree aride.

 

Il grande compito della cultura oggi è quello di leggere il mondo in cui viviamo.

 

L’agricoltura del futuro è un’agricoltura che non si difende, intimorita, dal mondo che cambia in continuazione, ma sta nel mondo con gli strumenti utili per capirlo.

 

Settant’anni fa, Scotellaro lo aveva intuito: dare dignità alle diverse culture, farle dialogare e integrarle; puntare su istruzione, formazione e ricerca non sono azioni che fanno perdere tempo; costituiscono, invece, l’investimento più sicuro, la premessa inderogabile della politica di sviluppo.

 

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