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La sinistra lucana negli anni Settanta

Prefazione al libro di Mauro Armando Tita "Quando la Sinistra 'amava' il Mezzogiorno interno e la Basilicata. Servizi, inchieste e reportage di un giovane redattore 'sociologo di strada'", edito da "Il Segno" di Potenza nel 2017

 

irsina

La pubblicazione dei servizi, delle inchieste e dei reportage inediti che Armando Tita realizzò negli anni Settanta – sulle vicende sociali, economiche e politiche che caratterizzarono la Basilicata di quel periodo – va salutata con grande interesse e viva gratitudine. Il libro costituisce una testimonianza di notevole valore su com’era fatta la sinistra lucana che era uscita dai sommovimenti socio-culturali ed economici avvenuti tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta. E su come si muoveva quella generazione che si era formata politicamente altrove, soprattutto nelle città universitarie, e che in Basilicata sperimentavano nuovi modi di fare politica per interpretare le trasformazioni e darne un senso. Come Armando, che era impegnato nel giornalismo d’inchiesta, anch’io facevo la mia parte nell’Alleanza provinciale dei contadini di Potenza, guidata brillantemente da Giovanni Bulfaro, intelligente e appassionato dirigente che si era forgiato nelle lotte studentesche del capoluogo. Nella piccola sede di via Magaldi, dietro l’Upim a piazza Prefettura, c’era Gennaro Laus, il mitico “avvocato dei contadini”, raccontato agli italiani da Giovannino Russo vent’anni prima, quando uscì “Baroni e contadini”. Laus si occupava della Lega delle Autonomie e Mutue. Ma gli affittuari di San Francesco o San Fele passavano prima nella sua stanza, per un consiglio o semplicemente per un saluto, e poi andavano a sedersi davanti alla scrivania di Michele Fortannascere o di Angelina Miglionico per firmare la domanda di pensione. C’era poi Elio Altamura, consigliere regionale del Pci e presidente regionale dell’Alleanza. Dovette lasciare l’organizzazione perché al Congresso del 1975 stabilimmo norme più rigide sulle incompatibilità con le cariche istituzionali e fu sostituito da Giovanni. Ricordo che stavo facendo il militare alla Caserma Lucana di Potenza. Godevo dell’avvicinamento perché ero consigliere comunale a Tito. Giovanni mi chiamò per chiedermi se ero disponibile a sostituirlo nell’incarico di presidente provinciale ed io accettai. Partecipai in divisa militare alla riunione del consiglio e sono rimasto nell’organizzazione fino al 2005, dopo aver svolto dal 1992 al 2002 la funzione di vice presidente nazionale.  Con Giovanni costruimmo il gruppo dirigente che, nei decenni successivi, animerà la Confcoltivatori di Basilicata, diventata poi Confederazione italiana agricoltori: Donato Salvatore, Nicola Manfredelli, Paolo Carbone, Luciano Sileo, Donato Di Stefano, Vito Pace, Vincenzo Santarsiero ed altri ancora.  Non fu semplice superare modi di essere che venivano da lontano. L’idea che l’organizzazione professionale agricola fosse una struttura autonoma dal partito e dal sindacato fu un’acquisizione culturale conseguita con fatica e con scontri politici molto duri tra il nuovo e il vecchio gruppo dirigente. Noi giovani sapevamo tenere distinte le funzioni senza rinunciare al nostro impegno nei partiti. E questa sensibilità alimentava anche l’ansia di una ricerca autonoma di soluzioni ai problemi dell’agricoltura, partendo dalle questioni concrete che ponevano gli agricoltori. Eravamo stimolati ad educarci al senso dell’autonomia da personalità comuniste come Pio La Torre, Attilio Esposto e Gaetano Di Marino che perseguivano con coerenza l’obiettivo dell’unità delle campagne. E una spinta ulteriore in tale direzione veniva da dirigenti di alto spessore culturale di area socialista, come Giuseppe Avolio ed Elvio Salvatore. Per questi uomini, l’obiettivo dell’unità del mondo agricolo era non tanto uno strumento per rafforzare la categoria degli agricoltori, quanto la strada maestra per rinnovare la nostra cultura politica, uscendo dagli schemi ideologici massimalisti, che impedivano l’affermarsi di un’impostazione riformista. Ma la generazione precedente recalcitrava: essa coltivava davvero l’idea che l’Alleanza fosse una succursale del Pci e viveva l’autonomia non come un valore e un’opportunità per fare meglio il nostro mestiere, ma come una sorta di doppiezza da non nascondere più di tanto. E il motivo stava nel fatto che le campagne erano state prescelte dai partiti, ricostituitisi dopo la caduta del fascismo, come arena sociale dove contendersi il consenso e trasformarsi così in moderni partiti di massa. La Dc aveva provocato una scissione in casa Confagricoltura per creare, da un suo ramo, la Coldiretti come propria componente organica, a cui il Pci aveva contrapposto l’Alleanza dei contadini, con la medesima funzione. Addirittura, a Potenza, il direttore della Cassa mutua dei coltivatori diretti svolgeva anche la funzione di segretario di Emilio Colombo. E questa condizione di dipendenza della rappresentanza sociale da quella politica è stata una delle cause di fondo della debolezza dell’agricoltura nel nostro Paese, non solo sul piano economico-produttivo ma anche culturale.

Nel volume non c’è soltanto l’intransigente piglio giornalistico di un giovane redattore, allievo di Giuseppe Fava.  C’è il fervore e il rigore del sociologo di strada che, incuriosito dai cambiamenti, analizza e studia i fatti, prendendo posizione senza pregiudizi o infingimenti. Nell’introduzione Armando evita ogni commento, limitandosi ad enunciare la finalità del volume: offrire un contributo che permetta alla sinistra odierna di fare i conti con la propria storia. Tra i ritagli in coda al volume ci sono anche articoli recenti a testimoniare la passione politica e la vivacità culturale, mai sopite, dell’autore. Ma non tolgono nulla alla coerenza dell’opera che rimane quella del cronista impegnato ad andare a fondo dei problemi.

Il primo capitolo è un affresco sulle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno interno e della Basilicata a conclusione della prima modernità, dissipatrice di legami sociali e di risorse naturali. Insomma, di quella particolare modernità realizzata con il boom economico. Sono citati documenti e interventi di varie iniziative del Pci meridionale e lucano. Sorprende l’approccio interdisciplinare dell’analisi. Si dà conto persino dell’evoluzione del rapporto tra il clero e il potere politico, attingendo a documenti dell’episcopato materano. L’”osso” lucano è scrutato nel dettaglio per coglierne gli elementi che impediscono l’innovazione: ad esempio, lo spostamento della condizione di privilegio, in una comunità, dal vecchio notabilato o aristocrazia terriera al professionista, specie se capace di gestire risorse pubbliche. Vi è un cenno anche al dissesto ambientale e, dunque, all’emergere di una sensibilità nuova verso le risorse naturali e la loro erosione.

Si respirava un clima di ricerca, fatto di attenzione all’approfondimento scientifico dei problemi e di rigore nell’analisi socio-economica della realtà.  Questo clima era evidente anche nella quantità di libri che acquistavamo e leggevamo e nel fervore con cui seguivamo la costituzione di centri culturali, come l’Istituto “Alcide Cervi” per la storia del movimento contadino e dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne. Ispiratore diretto era Emilio Sereni, per un lungo periodo presidente dell’Alleanza, parlamentare comunista, studioso di chiara fama internazionale, profondo conoscitore dell’agricoltura e intellettuale dagli interessi culturali molteplici. Nonostante una tale vivacità culturale, permanevano limiti notevoli. Ad esempio, si perseguiva una lettura dualistica della realtà: sviluppo/arretratezza, congestione/spopolamento, centralità/perifericità, rilevanza/marginalità. Una lettura che giudicava le vicende economiche comparando una realtà materiale sulla base della logica binaria efficiente/inefficiente, antiquato/moderno, ecc. E il metro di giudizio per applicare tale logica comparativa era stabilito dall’area sociale che aveva realizzato per prima determinate innovazioni tecnico-produttive. Mancava ancora la consapevolezza di una diversificazione delle politiche, secondo il motto rossidoriano: “Per problemi diversi, politiche diverse”. Non c’era un riferimento al fenomeno del part-time agricolo già studiato dall’Istituto nazionale di sociologia rurale (Insor) sul finire degli anni Sessanta. Si ignorava il lavoro scientifico di Corrado Barberis che già in quegli anni elaborava la teoria della bipolarizzazione del consumo alimentare “attorno ai due aspetti: cibo-nutrizione e cibo-soddisfazione, con richiesta per la prima esigenza di prodotti di qualità standardizzata e di prezzo contenuto e, per la seconda, di prodotti di alta qualità a prezzi ovviamente più alti”. Ma su questi aspetti c’era un ritardo culturale che attraversava non solo i partiti e le forze sociali: anche il mondo tecnico-scientifico, tranne alcune eccezioni, si attardava su obiettivi di sviluppo quantitativo, ignorando che la fine del fordismo aveva conseguenze complessive e stava facendo sorgere una nuova ruralità che nessuno intravedeva.

Eravamo in pochi a prendere in seria considerazione le attività di ricerca condotte già in quel periodo con successo da Alessandro Carena, direttore dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza, sulle caratteristiche della razza podolica e sulle peculiarità dei pascoli e delle singole erbe, dell’altitudine, del versante e in generale dell’ambiente, che avrebbero potuto corroborare  interventi e azioni rivolte alla qualità delle carni e dei prodotti lattiero-caseari. In sostanza, si sarebbero potute già allora perseguire strategie di costruzione di una domanda di qualità e di tipicità delle produzioni agroalimentari delle aree interne e sollecitare per questa via una spinta all’innovazione di processo e di prodotto. Ma queste idee nuove venivano di fatto considerate delle stravaganze da utilizzare solo per compilare dei buoni documenti di politica agricola regionale.

Armando dedica il secondo capitolo alla politica per l’industrializzazione del Mezzogiorno. In esso sono descritti meticolosamente gli effetti negativi della scelta dello sviluppo per poli. La causa del fallimento di quella politica viene individuata nella mancanza di “quell’elemento cosciente di direzione politica, di pianificazione del processo, di ordine nello sviluppo che pure, nelle intenzioni dei suoi promotori, doveva essere insito in essa”. Viene ribadita la tesi già sostenuta dal sindacato, fin dagli inizi degli anni Sessanta, che il limite di quella politica fosse la mancanza di programmazione e che l’esito inevitabile sarebbe stata una scarsa capacità diffusiva dello sviluppo industriale e l’impossibilità di arrestare il flusso migratorio dal Sud verso il Nord Italia e i Paesi nord-europei. Si cita uno studio della Cgil pubblicato in “Quaderni di Rassegna sindacale” (n. 2 del settembre 1963) in cui si afferma: “Non si critica di per sé la scelta di concentrare in aree prestabilite le nuove unità industriali, nella misura in cui ciò appaia conveniente. Ciò che si critica è il criterio che è presieduto alla loro nascita che, oltretutto, non è stata certo determinata da scelte governative”.

Tali argomenti sono ripresi nel terzo capitolo dedicato allo sviluppo industriale lucano, in cui si citano gli studi di Biondi e Coppola dell’Università di Napoli. Per giungere ad una affermazione significativa: “Il mito dell’industrializzazione che ha affascinato e continua ad affascinare le generazioni lucane del dopoguerra, si è tradotto in qualcosa di concreto solo per lembi insignificanti di territorio”. Chiaro è il riferimento al fascino che il mito industrialista ha esercitato, in modo trasversale e per un lungo periodo, l’intera classe dirigente regionale. Un mito che negli anni Settanta si fonde con diffuse visioni pan-sindacalistiche di autosufficienza rispetto al sistema politico e contribuisce a marginalizzare i problemi dello sviluppo agricolo. Come scrive Armando, quel mito si traduce presto in delusione: “Se la conquista dell’industria da parte di una regione si esprime in un insieme di modi di vita, di contatti interni ed interregionali, di correnti di pensiero e di atteggiamenti politici, nulla di questo si è qui realizzato”.

Il quarto capitolo è dedicato alla Dc lucana, i cui caratteri sono analizzati dal suo sorgere nell’immediato Dopoguerra, facendo tesoro degli studi del compianto Nino Calice. Nel delineare i tratti distintivi del sistema di potere costruito dal partito di maggioranza sono significativamente utilizzati anche alcuni documenti di un gruppo di preti e laici del dissenso ecclesiale cattolico, molto vivido in Basilicata, e inchieste di osservatori esterni per conto di riviste nazionali della sinistra democristiana. Il caso Basilicata, coi suoi tratti semifeudali, appare, da questo punto di vista, un’anomalia nel panorama del sistema politico meridionale e nazionale. Un’anomalia che provoca una forte reazione e un rifiuto di quel sistema clientelare, assistenzialistico e parassitario; una ripulsa soprattutto da parte dei giovani, che si manifesta in modo eclatante con l’avanzata della sinistra nelle elezioni politiche del 1972.

È in tale contesto che si colloca il fenomeno straordinario narrato nel quarto capitolo: i fatti di Melfi e del Comitato cittadino per la provincia. Il mito del posto pubblico amplificato dall’istituzione della regione s’invera nella rivolta di popolo in un grosso centro che aveva visto, tra il 1961 e il 1971, crescere l’occupazione solo negli uffici. I gagliardetti normanni e i draghi anticipano i rituali della Lega Nord e manifestano visibilmente i caratteri ”separatisti” del movimento contro “Potenza, il capoluogo che inibisce, che toglie aria”. Il fenomeno è strumentalizzato dagli esponenti locali dei partiti di governo ma si esaurisce con uno spostamento a sinistra dell’elettorato.

Nei capitoli successivi sono proposti i resoconti di iniziative politiche importanti: la Conferenza economica del Pci e del Psi sui problemi della montagna, che si svolge a Rionero in Vulture il 18 marzo 1975 con la partecipazione di Gerardo Chiaromonte, e la Conferenza economica del Pci regionale, che si tiene a Matera nei giorni 22-23 gennaio 1977, con una relazione di Umberto Ranieri e le conclusioni di Giorgio Napolitano.  Il clima politico è mutato. La Dc  lucana, che governava la Regione coi socialisti e i socialdemocratici, sottoscrive coi partiti alleati e con il Pci un accordo programmatico, dando vita alla “politica delle larghe intese”. Sicché, nel 1977, il comunista Giacomo Schettini viene eletto Presidente del Consiglio Regionale.  Si apre una fase di intenso dialogo tra comunisti e democristiani sulla definizione degli obiettivi di sviluppo e sulle politiche della regione. Con il Decreto Legislativo n. 616 del 1977 si ampliano le competenze regionali e il confronto sulle politiche diventa ancor più pregnante. A questa fase di intenso fervore a livello istituzionale corrisponde il sorgere spontaneo di nuovi metodi di lotta, come i comitati popolari unitari, in cui si riconoscono partiti, organizzazioni sindacali, culturali e sociali. Ne ho ancora oggi un ricordo vivido perché anche nella valle del Melandro se ne era costituito uno, a cui partecipavo come amministratore comunale di Tito e della Comunità montana. Alla testa delle manifestazioni sventolavano i gonfaloni e le bandiere dei sindacati. Ma in realtà mancava una vera e propria progettualità. Sulla difesa idrogeologica del suolo, ad esempio, non si riuscì mai a far convergere gli interessi delle aziende agricole con quelli degli operai forestali. In realtà, non c’era da parte delle rappresentanze sociali una vera disponibilità a trovare soluzioni innovative, privilegiando impostazioni assistenzialistiche, più comode da gestire senza sottoporsi allo sforzo di cambiare mentalità.

L’ultimo capitolo riguarda un evento che mi sta particolarmente a cuore: la manifestazione nazionale della Costituente contadina su “Occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura” che si svolse a Borgata Taccone nel comune di Irsina nei giorni 14, 15 e 16 ottobre 1977. Come presidente provinciale dell’Alleanza di Potenza seguii direttamente sia la fase di preparazione che quella di gestione dell’evento. Nel suo reportage, Armando coglie il senso profondo di quella iniziativa che vedeva la partecipazione di 1500 giovani provenienti da tutte le regioni italiane: un modo per scrollarsi di dosso “quell’atteggiamento di sfiducia e di diffidenza così diffuso in ampi strati delle nuove generazioni  dell’interno Sud” e per “portare avanti nuove esperienze e nuove proposte concrete fuori da ogni genericismo e da ogni enfasi”. Descrive l’ansia di rinnovamento che si respirava: una voglia di fare agricoltura partendo dal “diritto a costruire una cultura alternativa che prendendo il via dalla vecchia cultura la elabori, la modernizzi, la renda attuale”. Evoca i dibattiti a carattere multidisciplinare, rassegne cinematografiche, mostre d’arte, incontri con personalità della cultura e della scienza.

Quest’anno ricorre il quarantennale della “Tre giorni di Taccone” e questo libro può costituire uno stimolo per tornare a riflettere su quella vicenda che ancora oggi suscita reazioni controverse. È l’intera storia dell’Italia repubblicana che andrebbe discussa per capire fino in fondo come l’oggi è diventato quello che è. Per vivere consapevolmente il presente dovremmo coltivare una conoscenza della realtà che unisca il passato con l’oggi, e con ciò a cui siamo rivolti nell’attesa. Quell’evento s’inseriva in un fenomeno non solo nazionale ma che in Italia ha avuto una sua consistenza e specificità: la nascita e lo sviluppo di cooperative giovanili. Si trattava di una modalità sperimentata dalle nuove generazioni per “creare lavoro” in diversi settori, dall’agricoltura all’artigianato, dai servizi sociali e sanitari a quelli connessi con aspetti culturali, ambientali e per il tempo libero, fino ai servizi alle imprese nel campo della progettazione, dell’informatica e dell’assistenza tecnica. Furono costituite 1.248 cooperative giovanili con circa 16 mila soci.

Quel movimento nasceva da spinte diverse. Nelle campagne sicuramente prevaleva una pressione indotta dalla sensibilità ecologica e dal bisogno di legami comunitari da parte, soprattutto, di giovani laureati e diplomati disoccupati, professionisti che non trovavano occasioni di lavoro, studenti, i quali guardavano all’agricoltura non già con gli occhi dei padri e dei nonni che erano scappati via per le condizioni di miseria, ma incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un conteso di relativo benessere, il settore presentava in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di sperimentazione di nuovi servizi di accoglienza.

Nelle campagne erano venute ad addensarsi le prime forme di resistenza alle idee che erano sottese al modello distruttivo di capitale umano e di risorse naturali che aveva provocato la crisi ecologica. Tali forme si caratterizzavano in modelli di conduzione agricola in cui gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, s’integravano con le opportunità che solo i territori rurali erano in grado di offrire.

Anche i figli dei contadini che tornavano dalle università portavano con sé quel bisogno di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori, alle prese coi processi di modernizzazione dell’agricoltura fondati esclusivamente sulla produttività e l’efficienza. E questi nuovi agricoltori istruiti dialogavano coi giovani di provenienza urbana.

Nel Mezzogiorno il fenomeno si presentava con caratteristiche proprie e coerenti con una tradizione rurale che poneva al centro le piccole e medie città e gli insediamenti abitativi accentrati, come parti integranti e non separate della campagna. La nascita dei poli industriali e i fenomeni di ampliamento delle grandi e medie città meridionali avevano creato lavoro nelle fabbriche, nell’edilizia e nel pubblico impiego con inquadramenti bassi e avevano anche favorito il miglioramento della piccola azienda coltivatrice.

Invece, nelle aree più emarginate delle campagne meridionali, le forme di part-time che si erano diffuse non avevano trovato la complementarietà nel mercato del lavoro ma in regimi assistenzialistici che sommavano varie provvidenze, dalle indennità di disoccupazione alle pensioni di invalidità. E difficilmente le rimesse degli emigrati o i risparmi investiti al rientro trovavano impiego nell’azienda agricola.

Le iniziative di lotta, come l’occupazione delle terre pubbliche di quel periodo, non avevano, dunque, nulla a che vedere con le forme assunte dal movimento per la terra degli anni Quaranta.

Ma se è vero questo, allora perché si è andati a collocare l’iniziativa in un borgo abbandonato della riforma agraria del 1950?

L’intento non era quello di stabilire una sorta di connessione o parallelismo tra assalto al latifondo (per frazionarlo in poderi da assegnare a contadini senza terra) e occupazione di terre pubbliche (per darle in gestione a cooperative giovanili non solo produttive ma soprattutto di servizi alle persone e alle comunità). L’intento era, invece, quello di far risaltare un aspetto critico della riforma agraria nelle aree collinari; aspetto che ne aveva decretato il parziale fallimento: a differenza di quanto era avvenuto nelle aree di pianura soprattutto a seguito delle opere infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno nei primi dieci anni di vita, nelle aree collinari non si erano costituite nuove comunità e, dunque, in collina la riforma non aveva realizzato i suoi obiettivi.

Il richiamo alla Riforma agraria, collocando l’iniziativa a Borgo Taccone, avrebbe dovuto dirci che la coesione sociale e i legami comunitari precedono lo sviluppo e non sono l’esito dello sviluppo. E tale messaggio resta ancora valido oggi.

Nel movimento degli anni Settanta convergevano anche le iniziative per conquistare i diritti civili, rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare in modo nuovo la tossicodipendenza e la condizione carceraria. La Basilicata era tra le regioni italiane quella che maggiormente esprimeva tali pulsioni. A Matera, le amministrazioni di sinistra che si erano insediate alla Provincia e in molti Comuni a seguito delle elezioni amministrative del 1975, avevano creato ulteriori opportunità di sviluppo della cooperazione, soprattutto nel settore dei servizi alla persona, dei servizi di vigilanza e di pulizia e di quelli informatici.

Nel 1977 si era approvata la legge 285 sull’occupazione giovanile, che prevedeva sostegni alle cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura. Nel 1978 si approveranno la riforma sanitaria, la legge 180, ispirata da “Psichiatria Democratica”, la legge sulle terre incolte e mal coltivate e la legge “Quadrifoglio”. Tutte queste iniziative legislative facevano parte del programma formulato dai partiti che sostenevano i governi di solidarietà nazionale. Il sen. Angelo Ziccardi di Matera era tra i più attivi protagonisti di tali iniziative parlamentari.

Le diverse spinte culturali s’incrociavano e davano vita a cooperative agricole che vedevano la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti, anticipando il fenomeno che avremmo poi inquadrato come “agricoltura sociale”.

Un siffatto fermento era alla base di quel movimento. L’iniziativa di Taccone era stata preceduta da convegni organizzati dalla Costituente contadina in quasi tutte le regioni italiane sulla base di piattaforme volte ad ottenere i suddetti provvedimenti legislativi. Ricordo che in Basilicata, dopo un convegno regionale, in cui io fui relatore, fu costituito un coordinamento per promuovere cooperative giovanili in agricoltura. Oltre noi dell’Alleanza, ne facevano parte Mimmo Guaragna, segretario provinciale della Federbraccianti-Cgil e Vanda Giuliano, presidente regionale della Lega delle Cooperative e Mutue. Con Vanda e Mimmo, persone di grande vivacità culturale e di generosità non comune, giravamo con una 500 Fiat in diversi centri della Basilicata per partecipare a riunioni e assemblee. Naturalmente convivevano ispirazioni ideali e politiche diverse. E anche forti preoccupazioni da parte di quei settori politici che non sapevano (o non volevano) distinguere i movimenti anti-sistema dai movimenti civili che si battevano per un riconoscimento di esperienze innovative in ambiti diversi, dall’agricoltura ai servizi socio-sanitari, dalla cultura all’organizzazione del tempo libero. Si temevano derive movimentiste che avrebbero potuto alimentare indirettamente il terrorismo.

Tali timori erano presenti anche nel gruppo dirigente nazionale della Costituente contadina e si erano accresciuti nell’estate del 1977, dopo i fatti di violenza che si erano verificati nelle principali università italiane. Ma, in realtà, siffatte paure nascondevano, forse, ben più radicati limiti nel comprendere i caratteri del fenomeno che avevamo dinanzi. All’interno delle forze politiche e sociali erano in pochi ad avvertire l’importanza di queste novità. Gerardo Chiaromonte, nel ricostruire le vicende politiche del triennio 1976-1979, ha ricordato un convegno dell’Istituto Gramsci organizzato nel 1977 in collaborazione con la Federazione giovanile comunista sul tema “La crisi della società italiana e le giovani generazioni”, di cui egli era stato relatore. Per testimoniare un passaggio essenziale della sua riflessione, il dirigente comunista scrive: “Il crollo della prospettiva di ingresso nel processo produttivo per tantissimi giovani, la sensazione di non poter proseguire a lungo in certi modi di vita, la necessità drammatica di rinunciare ad abitudini o ad aspirazioni che sembravano fondamentali per dare un senso alla vita, il caos crescente della scuola e dell’università, la caduta dei valori tradizionali e al tempo steso il non affermarsi di nuovi valori avevano portato a fenomeni di emarginazione e anche a quel diffusissimo senso di malessere, e anche di disperazione e di angoscia, che colpivano una parte grande delle nuove generazioni, tanto da creare una frattura tra queste e il regime democratico”. E Chiaromonte ricorda che da questa consapevolezza la sua relazione faceva derivare una serie di indicazioni politiche concrete, tra cui l’impegno per applicare la legge 285 sull’occupazione giovanile. Ma tranne in alcune realtà, come la Basilicata e in qualche altra regione, quasi dappertutto i movimenti giovanili dei partiti di sinistra non s’impegnarono su questi nuovi sentieri d’iniziativa e di lotta proposti da Chiaromonte.

Nonostante le resistenze culturali e politiche, a ottobre si decise di tenere comunque l’iniziativa di Taccone. Vennero giovani da tutte le regioni. Anche gruppi che avevano partecipato ad iniziative violente nelle università e nelle grandi città furono presenti alla manifestazione, ma in modo pacifico e rispettoso, come rileva anche Armando. Assistettero gli inviati dei maggiori organi di stampa e della televisione. Alla fine venne distribuita una rassegna stampa di oltre 500 pagine. Un successo dal punto di vista della partecipazione e della comunicazione.

Ma dell’organizzazione agricola che l’aveva promossa vi presero parte solo alcuni dirigenti nazionali di secondo piano. Non vennero né Attilio Esposto, né Afro Rossi, né Renato Ognibene. Dei dirigenti politici nazionali partecipò ad un dibattito solo il socialista Giacomo Mancini, mentre Giuseppe Avolio, che era responsabile della sezione agraria del PSI, e Pio La Torre, che dirigeva la sezione agraria del PCI, non si fecero vivi. Quando due mesi dopo, si svolse il congresso di fondazione della Confcoltivatori, nessuno evocò l’iniziativa di Taccone che venne rimossa. Sono rimasti solo gli articoli pubblicati da “Nuova Agricoltura” e dai quotidiani.

Come già ho anticipato, in tale presa di distanza prevalsero solo le preoccupazioni per il terrorismo, che si manifestava nelle sue forme più odiose, o ci fu anche dell’altro, più propriamente legato alla diversità con cui si leggevano le trasformazioni delle campagne e dell’intera società? Questo a me pare un interrogativo cruciale a cui ancora oggi è importante rispondere.

Se si vanno a guardare i titoli delle iniziative che si svolsero a Taccone e i nomi delle personalità della cultura che furono coinvolte, si può facilmente notare che, in quella occasione, gli organizzatori fecero un tentativo di collegare le esperienze di comunità degli anni Cinquanta con le ricerche antropologiche e sociologiche di Ernesto De Martino e di altri studiosi nel Sud, nonché con quelle che Nuto Revelli svolse tra i contadini delle Langhe. Si trattò di un tentativo originale di costruire un pensiero sui temi ambientali e sui rapporti tra agricoltura e cultura con approcci completamente diversi da quelli d’importazione anglosassone e che si collegavano agli approcci sperimentati prima del boom economico. Approcci combattuti o lasciati ai margini da quelle forze trasversali (la Dc, il Pci e i sindacati) che di fatto sposarono l’idea di Pasquale Saraceno di promuovere lo sviluppo del Sud con un processo di industrializzazione forzata dall’alto. Anche Manlio Rossi-Doria, che non partecipò alla “Tre giorni di Taccone”, perseguiva comunque lo stesso filone di impegno in casa socialista: egli fu il primo, in quegli anni, a creare una posizione critica al nucleare nell’area socialista e dialogava molto con Nuto Revelli.

Penso che nelle organizzazioni agricole e nel mondo politico ci fosse un ritardo nel comprendere il senso delle trasformazioni che si stavano verificando negli anni Settanta nelle campagne. Come ho già ricordato, l’Insor di Corrado Barberis aveva già pubblicato ricerche e studi sul part-time, le trasformazioni delle famiglie agricole, l’avvio di attività agricole da parte di gruppi di provenienza urbana, l’importanza della tipicità dei prodotti nell’evoluzione dei gusti e degli stili alimentari. Noi della Confcoltivatori facemmo i primi convegni sui temi del rapporto agricoltura, ambiente e territorio, confrontandoci con queste novità, solo nella seconda metà degli anni Ottanta con “Spoleto Uno” e “Spoleto Due”, cioè con due convegni a carattere interdisciplinare, le cui risultanze sono rimaste per lo più inapplicate.

Sono convinto che Taccone abbia a che vedere con inedite sensibilità culturali che incominciavano a manifestarsi in quel periodo. Sensibilità capaci di percepire che qualcosa di nuovo stesse avvenendo o sarebbe avvenuto a breve nelle campagne. Ma ci fu da parte nostra un’enorme difficoltà a cogliere questa novità e a dare ad essa uno sviluppo in termini di elaborazione politico-sindacale e di strutturazione organizzativa. I segnali più evidenti di questi limiti si possono cogliere in una molteplicità di situazioni concrete. Per brevità ne cito solo due: arrivammo solo dopo dieci anni dall’atto fondativo della Confederazione a costituire l’associazione dei giovani e cogliemmo con ritardo la domanda che proveniva dai pionieri del biologico di un riconoscimento mediante la creazione di un’associazione specifica. In sostanza, non riuscimmo a vedere per tempo una cosa importante: un po’ dappertutto gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si erano ridimensionati e quelli che restavano si sovrapponevano e creavano nuove differenziazioni. Tali diversità non avevano nulla in comune con quelle precedenti e riguardavano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso, uso e consumo dei beni, modelli alimentari, modelli di welfare, scelte etiche e multidealità relative alle motivazioni degli imprenditori. Dal versante più propriamente produttivo, le antiche distinzioni tra imprese agricole, industriali e di servizi si erano diradate e, in diverse situazioni, erano state sostituite da imprese a rete nel comparto alimentare e imprese di servizi sociali, culturali, educativi, ricreativi, ambientali, paesaggistici, in cui il connotato agricolo veniva fornito da elementi non tanto materiali quanto immateriali. La novità che non vedevamo era la lenta ma determinata espansione di un’agricoltura di servizi, nel quadro di un’innovazione sociale che ricostituiva l’osmosi originaria tra saperi esperienziali e conoscenza tecnico-scientifica.

E così giungemmo fortemente impreparati e disarmati al dibattito sulla riforma della Politica Agricola Comune (PAC) a cavallo tra gli anni Ottanta e anni Novanta, quando furono introdotti gli aiuti diretti al reddito. E non sapemmo assumere un atteggiamento critico rispetto a questa nuova impostazione che, di fatto, manteneva un impianto di tipo protezionistico, guardava con molta timidezza allo sviluppo rurale, frenava l’innovazione e la capacità degli agricoltori di riposizionarsi nel nuovo contesto economico e sociale. Noi eravamo gli unici che potevano elaborare una proposta diversa. Non avevamo, infatti, alle spalle un passato di co-gestione della politica agricola come l’avevano Coldiretti e Confagricoltura con la Federconsorzi. Ma non avendo compreso per tempo i caratteri della nuova ruralità, accettammo anche noi e condividemmo fino in fondo la nuova fase della PAC, che si realizzava non più attraverso le organizzazioni economiche ma attraverso i servizi per co-gestire l’erogazione degli aiuti diretti.

Per me Taccone evoca tutto questo ovvero l’esigenza di una riflessione a tutto tondo per capire perché l’agricoltura italiana e, specificatamente, lucana è quella che è: un settore incapace di cogliere le grandi opportunità della globalizzazione e di fronteggiare i rischi che essa determina, mediante un’innovazione continua. E il libro di Armando ci aiuta a ripercorrere la lunga durata di vicende che si possono leggere e comprendere solo guardando alle loro cause di fondo.

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One Response to La sinistra lucana negli anni Settanta

  1. Rocco Lauletta Rispondi

    29 giugno 2019 a 15:21

    Tempi seri e responsabili ma il capitalismo monetario ed egoista vinse quella battaglia ma noi per volere delle stelle siamo ancora presenti a lottare e a sognare con la migliore gioventù. Ci dispiace per gli altri.

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