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Alberi e filosofia hanno le stesse radici

Il legame tra l’uomo e l’albero è fondamentale per curare la pesantezza del nostro vivere. E ad unirli è la filosofia intesa come un modo di vivere di chi cerca la leggerezza e la verità

monet

Ho fatto un sogno che vorrei raccontarvi. Attraversavo il bosco di Tito, paese lucano dove sono nato oltre sessant’anni fa. E appesantito dalla stanchezza, mi sono fermato per riposarmi. Ero andato a vedere i luoghi dove i contadini titesi avevano occupato le terre nel dicembre del 1949, patendo arresti e processi.  Un paio di radure scarsamente soleggiate. La prima denominata lu chià d’ fenogghiu, perché ricca di finocchi selvatici, e l’altra la mangosa, perché esposta a manca o a tramontana. Avevano diretto quelle lotte intellettuali, professionisti e artigiani capaci di stabilire un rapporto paritario coi contadini.

Le lotte per la terra e la riforma agraria

A Tito il terreno era politicamente fertile perché vi erano stati episodi significativi di una presenza comunista già nel ventennio fascista e nella Resistenza. Un giovane, Rocco Viggiani, si era arruolato nelle Brigate Garibaldine ed era caduto nella guerra di Spagna. Importante era stata la presenza di confinati politici. Inoltre, un giovane militare, Giuseppe Meliante, era rimasto coinvolto nelle deportazioni naziste a seguito del suo rifiuto ad arruolarsi nell’esercito repubblichino. Frequentava il paese un comunista irrequieto che avrebbe voluto incanalare in azioni sovversive il malcontento nelle campagne e l’aspirazione dei contadini alla terra. Si chiamava Peppino Marmorosa, originario del Cilento. Si dice che girasse con un cavallo bianco per raggiungere i diversi centri lucani. Una sorella, Irma, aveva sposato Eugenio Mancinelli che possedeva a Tito alcune masserie. La vicenda di Marmorosa era rimasta avvolta nella leggenda. Un trascorso giovanile rocambolesco lo aveva visto dirigente del fascio, dapprima a San Rufo e poi a Castelmezzano, dove si era trasferito per lavoro. Ma poi, al centro di polemiche legate alla sua movimentata vita sentimentale, era dovuto riparare in Dalmazia. Dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca della zona, si era unito alle formazioni italiane aggregate alle forze partigiane comuniste del maresciallo Tito. Finita la guerra di Liberazione, era stato inviato dal suo partito a dirigere la federazione di Potenza. Le sinistre amministravano diversi comuni lucani e calabresi dove si conducevano le lotte per la terra. Nella primavera del 1946 era stato eletto sindaco del paese il socialista Luigi Salvia. La stessa cosa era avvenuta a Tricarico con l’elezione del poeta Rocco Scotellaro. In diversi centri si erano costituiti i Comitati per la terra, aperti a tutti i cittadini e a tutte le organizzazioni democratiche. Le occupazioni di terre in quel periodo avevano, dunque, più un carattere di festa popolare per il riscatto della condizione contadina che non quello di un vero e proprio atto rivoluzionario. Erano momenti in cui cresceva la consapevolezza della necessità di una rinascita, di un cambiamento profondo per determinare nuove condizioni di vita. Ma da raggiungere attraverso un allargamento del consenso. Le feste però erano sfociate rapidamente in tragedie per insipienza di alcuni responsabili dell’ordine pubblico o per troppo avida paura di alcuni proprietari.  La polizia aveva sparato sui manifestanti ed erano morti alcuni contadini come a Torre Melissa in Calabria e a Montescaglioso in Basilicata. A Tito le occupazioni si erano concluse con l’intervento dei carabinieri che avevano arrestato una decina di persone e denunciato un centinaio. A seguito di quella mobilitazione che aveva assunto anche risvolti cruenti, il governo si era affrettato a varare, nel corso del 1950, una serie di provvedimenti per attuare la riforma agraria in alcune aree del Paese, da tempo in gestazione ma ora ritenuta urgente. Era stata inoltre costituita la Cassa per il Mezzogiorno. E così la riforma agraria e le opere infrastrutturali della Cassa avevano agito come un colpo d’ariete delle ondate di trasformazioni nel tessuto economico e sociale del Paese. Erano stati gli esiti di quelle lotte ad avviare l’ammodernamento non solo dell’agricoltura, ma dell’Italia. Per questo la memoria di quei contadini che vi avevano preso parte e dei luoghi dove si erano svolti non dovrebbe oggi andare dispersa.

Pensieri siffatti mi passavano per la mente quando mi accorgo che nel luogo dove adesso mi sono fermato c’è un acquitrino, un terreno molle e melmoso. Viene chiamato la zambruneda che significa “zona molto fangosa”. Nei pressi c’è l’azzuppadoru, un fosso con un fiumicello dove una volta le donne andavano a lavare i panni. L’acqua cade violentemente, come nelle cascate, dall’alto verso il basso, producendo fragore. Da qui il toponimo: nel dialetto di Tito azzuppà significa «cascare con la massima forza».  Ho deciso così di appoggiarmi ad una quercia. Ma non era un tronco, non era un legno. Emanava una calda, intensa corrente di energia. Mi è sembrato di appoggiarmi alla schiena calda di un’innamorata vogliosa. Mentre cercavo di dare un senso a questa percezione, mi è affiorato alla memoria un passo de Le Metamorfosi in cui  Ovidio racconta la passione di Apollo per la bella Dafne, figlia di Peneo, un fiume sacro che scorre in Tessaglia. Il dio la insegue. E la ninfa, stremata dallo sforzo della folle fuga, getta uno sguardo alle onde del Peneo: «Padre – invoca – vieni in mio soccorso, se voi fiumi ne avete il potere; trasforma la mia immagine, per la quale piaccio troppo». Ha appena finito di pregare che un torpore profondo le invade le membra; il busto delicato si fascia di tenera corteccia; i lunghi capelli si dilatano in fronde; le braccia in rami; i piedi si fissano in immobili radici. Sopravvive soltanto il suo fulgore.  Dafne viene trasformata in alloro, la pianta con cui Apollo cinge il suo capo, la sua cetra, la sua faretra e che diventa il simbolo della vittoria. Ancora oggi, in ricordo di Dafne, la corona d’alloro va a chi compie imprese memorabili, dal compimento degli studi universitari ai campionati sportivi.

La quercia a cui mi sono appoggiato nel sogno sembra la schiena della bella ninfa trasformata in alloro.  Un tronco vivo, percorso da vibrazioni di straordinaria potenza. E nel toccarla mi tranquillizzo e mi abbiocco. Anche nel sogno si può dormire! Quando mi sveglio – continuando a sognare – mi accorgo che sto cambiando. Non sono in grado di parlare perché le mie corde vocali sono ferme. La bocca inaridita. Gli occhi mi si annebbiano. Le braccia s’irrobustiscono e le dita dei piedi crescono per conto loro, affondando nella melma del bosco: sono diventate radici. Affiorano nettamente dal suolo, come del resto avviene agli altri alberi intorno per via dello scarso spessore dell’humus. È per questo che, da tempi immemorabili, il fiumicello viene chiamato vadda della radice.

La vecchia quercia deve avermi adottato. E il motivo credo d’intuirlo. Le foglie che spuntano dalle mie braccia sono sì lanceolate e di colore verde scuro nella pagina superiore come sono quelle dell’alloro; ma la pagina inferiore delle foglie è grigio argento. Come quelle dell’ulivo. I rami di quercia e di ulivo fanno parte dell’emblema della nostra Repubblica, insieme alla stella e alla ruota dentata. Fu il professore di ornato all’Istituto di Belle Arti di Roma Paolo Paschetto a disegnarlo.  Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale. Il ramo di quercia che chiude a destra l’emblema, incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi, poi, sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio arboreo. La ruota dentata d’acciaio, simbolo dell’attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta Costituzionale: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». La stella è uno degli oggetti più antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla personificazione dell’Italia, sul cui capo essa splende raggiante.

Sono diventato ulivo

Mi sono dunque trasformato in un grande albero che sembra avere le sembianze di un vecchio oleastro, quasi come quelli che Eracle Dattilo portò a Olimpia.

“Non inquietarti” sussurra la quercia madre con tono benevolo.

“Ma non posso muovermi. Non potrò più camminare”.

“Non è importante deambulare – tenta di rassicurarmi – ma ogni tanto ci sono degli smottamenti ed è piacevole trovarsi in una posizione diversa. E poi arrivano anche i terremoti. E allora sì che si balla in allegria”.

Taccio. Rifletto su quanto mi sta accadendo. Con stupore guardo la strascina ‘a ddoi, il viottolo che serve per tirarsi dietro le fascine, come se per la prima volta osservassi questo tratto perimetrale del bosco. Non avevo invocato nessuno per ottenere tale trasformazione, ma quanto mi sta accadendo non mi turba. Anzi, m’incuriosisce e m’intriga. Mi rammarico solo di non aver studiato a sufficienza gli elementi essenziali della vita di una pianta. Mi sento ignorante. Come farò a respirare e a sopravvivere? Mi viene in mente Henry David Thoreau, autore dello scritto autobiografico Walden ovvero la vita nei boschi e del saggio Disobbedienza civile. Il primo è il resoconto di due anni, due mesi e due giorni della vita dell’autore in cui egli cerca un rapporto intimo con la natura. Si legge come un testamento – rivolto a noi che veniamo dopo cinque generazioni – per farci comprendere la condizione umana.  È considerato il vangelo dei movimenti ecologisti. «Sono andato nel bosco – si legge in questo testo – perché desideravo vivere consapevolmente, affrontare solo i fatti essenziali della vita e vedere se non potevo imparare ciò che aveva da insegnarmi e non scoprire, invece, in punto di morte, che non avevo vissuto. Non desideravo vivere ciò che non era vita, vivere è così bello. Né desideravo praticare la rassegnazione, a meno che fosse assolutamente necessaria. Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, vivere così fortemente e in maniera così spartana da spazzar via tutto ciò che non fosse vita…». A Walden Thoreau aveva scoperto un’etica con una qualità solida: la natura è per l’uomo un perenne oggetto di esplorazione, una dimora, un rifugio. Vivendo nei boschi in solitudine e in modo indipendente dalla vita sociale organizzata, si era convinto che la sopravvivenza del mondo stava nella natura selvaggia.

L’altra opera di Thoreau è considerata una prima teorizzazione –  dopo l’Apologia di Socrate, l’Antigone e il Vindiciae contra tyrannos (1573) –  della resistenza non violenta volta a non collaborare con il governo quando, come quello americano, impone leggi ingiuste,  permette lo schiavismo e aggredisce il Messico.

Gandhi, in un articolo del 1921, dirà che «Thoreau forse non era un vero campione della nonviolenza». Ma aggiungerà che lo scritto di Thoreau sulla disobbedienza civile è «un’opera magistrale». E prima Tolstoj e, al suo seguito, Gandhi e, più vicino a noi, Martin Luther King hanno trovato ne La disobbedienza civile un armamentario di argomentazioni teoriche e morali per un modo nuovo di lottare e di esercitare l’azione politica.

E come i movimenti ecologisti hanno visto e vedono in Walden l’ideale (o mito?) di una vita che torna a una natura che, diversamente dalla società, non è avvelenata, così La disobbedienza civile è stata e resta fonte di ispirazione dei movimenti di resistenza nonviolenta. È «in modo civile, cioè nonviolento» che chi ha abbracciato l’ideale della disobbedienza civile si pone al di fuori della legge, esponendosi alle sanzioni previste e accettando i guai che ne seguono. Il resistente nonviolento rifiuta di obbedire alla legge che in coscienza reputa ingiusta. Il suo rifiuto è immediato; egli non aspetterà che ingiustizie e violenze seguitino a fare le loro vittime in attesa che si formino maggioranze forse un giorno capaci di fare le riforme.

La pluralità delle culture ecologiste

“A cosa pensi?” mi chiede la vecchia quercia.

“Penso a Thoreau e alle sue idee anticipatrici. Se mi fossi impadronito di una cultura ecologista e pacifista così come la praticano gli amici del WWF o di Greenpeace, forse ora saprei meglio cavarmela nella mia nuova condizione di albero. Non credi?”.

“Stupidaggini!” è la secca risposta della quercia madre al mio dubbio.

“Mi ha affascinato da sempre – continuo – la critica all’idea di progresso e alla concezione ottimista e positiva della storia. Ma tra la posizione dell’American Committee for International Wildlife Protection che giunse nel 1938 a mettere sotto accusa la totalità della civiltà tecnologica, riproponendo come inconciliabile l’opposizione tra natura e cultura, e le idee dei movimenti che in America sostennero il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt intendeva riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste, ho sempre guardato con interesse a questo secondo filone culturale. E ritengo che tale visione sia anche quello più coerente con il principio di responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo”.

La quercia borbotta come una madre che ascolta le fandonie del figlio senza interromperlo. Ma poi non può fare a meno di reagire: “Negli ultimi tempi, sento fare questi discorsi sempre più spesso come se fossero delle novità. Ma non è così. Da sempre gli umani hanno tentato, a loro modo, di coltivare il senso di responsabilità nei nostri confronti. Lo fanno ovviamente – ieri come oggi – per sopravvivere essi stessi e le generazioni successive. L’amore per tutto ciò che è vitale e per tutto ciò che circonda le forme di vita è un sentimento innato negli umani. Come è innata l’attenzione su tutto ciò che ricorda le forme di vita fino ad associarvisi emotivamente”.

“È stato Filippo Lussana – annuisco – nei suoi studi pioneristici delle malattie mentali, nella seconda metà dell’Ottocento, a denominare tale sentimento biofilia. Il termine è stato poi ripreso dallo psicoanalista tedesco Erich Fromm e ulteriormente sviluppato dal sociobiologo di Harvard Edward O. Wilson quando ha sintetizzato, nel volume Il futuro della vita, la sua concezione della biodiversità. In quest’opera lo scienziato-scrittore ci spiega che una componente fondamentale della biofilia è la scelta dell’habitat e che l’umanità ha avuto origine nelle savane e nelle foreste africane. È per questo – egli sostiene – che anche quando le comunità umane hanno inventato l’agricoltura e incominciato a vivere nelle città si sono fatte affascinare sempre dalle savane. Ebbene, questa preferenza per un habitat selvaggio è rimasta negli individui, come una dote ereditaria, un istinto, nonostante essi abbiano provveduto a «edificare la terra» – per usare la stupenda espressione dello scrittore, filosofo, politico e uomo di scienze, Carlo Cattaneo – di case, di canali, di piante, livellandola e arginandola”.

“Un istinto che l’uomo ha avuto da sempre – dice la vecchia quercia con tono canzonatorio  –  e che lo ha indotto a correggersi quando, ad esempio, si rompeva l’equilibrio tra gli assetti ambientali dei bacini montani e collinari con quelli di pianura. Quassù, da tempi immemorabili, le comunità umane ci hanno attaccato con la scure e il fuoco del debbio per far posto alle colture dei seminativi”.

“Avveniva in quei secoli in cui le tante invasioni sofferte dal Regno di Napoli, scacciando le spaventate popolazioni dalle pianure, le facevano rifuggire nelle alture”.

“È vero! Ma quella gente non si rendeva conto che, per conquistare terra coltivabile e anche per avidità e agio di facile spaccio della legna, distruggevano o, comunque, indebolivano  gli assetti ecologici delle montagne, da cui dipendevano strettamente le condizioni idrauliche delle pianure. Acque e torrenti incominciavano a scendere a valle senza alcun controllo, impaludandosi e spandendo la malaria. E abbattendo noi poveri alberi del bosco, colpivano a morte anche la pastorizia perché veniva meno l’alimento spontaneo per le pecore e le capre. Le pianure s’inselvatichivano e soltanto in inverno offrivano pascolo agli animali. Le comunità umane presero a vivere tra le montagne dove prima abitavano gli animali. E quest’ultimi scesero a vivere nelle campagne abbandonate dagli uomini. Le gronde dissodate dei monti si spogliavano di terra vegetale, si squarciavano, dirupavano a falda a falda e divenivano sterili e incapaci di ogni produzione, ad eccezione del musco e della felce. Gli uomini non capivano che, abbattendo noi forsennatamente e creando giganteschi vuoti, turbavano e sconcertavano le ingegnose operazioni della natura intente alla riproduzione. E questo perché le acque, non conservando più alcuna regola in tale sconcerto, rivolgevano la loro azione a distruggere. Quindi per l’opera dell’uomo, che senza giudizio contrariava i benefici disegni della madre comune, si rendeva dannosa e funesta l’influenza dei monti sulla pianura”.

“Fu Afan de Rivera – m’intromisi in quella suggestiva rievocazione dei diboscamenti e dissodamenti delle montagne del Sud – ingegnere capo della Direzione generale di Ponti e Strade, delle Acque e Foreste e della Caccia del governo borbonico, ad accorgersi di quel disastro ambientale. E richiamò l’attenzione sulla necessità di un riordino per rimettere le cose nell’antico stato naturale e restituire alla pastorizia e all’agricoltura le terre che a ciascuna di esse meglio si appartengono. Alla sua lezione si ispireranno successivamente i grandi tecnici che si occuperanno di bonifiche e irrigazioni nel Mezzogiorno. Ma già in altre epoche storiche si era intervenuti per correggere quello che l’uomo aveva distorto. Lo sapeva bene il giurista ed economista milanese, Cesare Beccaria, che nei suoi scritti ricordava come la proprietà fosse figlia primogenita e non già madre della società e che, quindi, l’individuo di uno Stato, chiunque egli sia, non può avere dei suoi boschi che l’uso. Lo sapeva bene l’agronomo forestale novarese Giuseppe Gautieri che nella sua opera Dell’influsso de’ boschi sullo stato fisico de’ paesi e sulla prosperità delle nazioni sentenziava: «È nemico dello Stato e della Patria colui il quale propone la libertà di disboscare i terreni». Lo sapeva il molisano Vincenzo Cuoco, politico e storico, autore non solo del celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, ma anche dell’opera meno nota Rimboschimento e bonifiche, a cui Afan de Rivera s’ispirò.  Cuoco richiamò il senso che storicamente ha sempre avuto la bonifica: non basta disseccare, il più delle volte bisogna anche piantare sia dove c’è l’acqua e sia dove non c’è. Con grande efficacia scrisse: «Piantare per diminuire l’acqua, piantare per contenerla, piantare per conservarla, piantare per dirigerla. Separare la cura delle bonifiche da quella delle piantagioni è lo stesso che non volere né piantagioni né bonifiche»”.

“Vedo che hai rovistato non inutilmente in quei tanti libracci che avevi negli scaffali di casa – ironizzò la quercia -.  I fatti sono quelli che sai e non puoi che ispirarti ad essi per accettare la tua nuova condizione”.

 Le radici rurali della nostra cultura ambientalista

Aveva ragione lei. Siamo portati un po’ tutti, superficialmente, a ritenere che i filoni culturali ecologisti e ambientalisti si esauriscano in quelli maturati negli ambienti anglosassoni di matrice urbana. A cui oggi si è aggiunto quello della Chiesa cattolica, con l’enciclica di Papa Francesco Laudato sì. Un libro recente (La casa comune è casa di tutti), che ho scritto a quattro mani con Mario Campli, esamina l’arcipelago delle culture impegnate nell’affermare la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo e la responsabilità sociale delle imprese. E descrive anche quelle che si collegano alle culture scientifiche e tecniche agronomiche ed economico-agrarie. In Italia, gli esponenti di queste culture intendevano accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si è manifestata la crisi ecologica tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del secolo scorso. Questi intellettuali furono combattuti, ridimensionati e ostacolati dalle forze dominanti ma erano gli eredi di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche.

La vecchia quercia tace per non interrompere il mio dialogo intimo. Sa che mi tranquillizza. Ma non posso fare a meno di guardarla, ammirare la sua discrezione, cogliere la sottile ironia che si avverte in quel silenzio. Respiro profondamente. E sento un tepore gioioso salire dalle dita dei piedi. Finalmente comprendo pienamente  come ulivi e uomini vivono in simbiosi. Come le loro vite sono legate in un solo futuro. Tanto da far dire a un grande maestro di economia agraria, Manlio Rossi-Doria, «che alberi e filosofia hanno le stesse radici».  Il legame tra l’uomo e l’albero è fondamentale per curare la pesantezza del nostro vivere. E ad unirli è la filosofia intesa come un modo di vivere, un’etica, nel senso letterale della parola, dal greco éthos che vuol dire comportamento, più precisamente lo strano e peculiare modo di vivere di chi cerca la leggerezza e la verità, o potremmo anche dire la felicità. «La filosofia come cura di sé» scrive Andrée Bella nel suo gradevole libro Socrate in giardino.

 La nuova ruralità

“Hai fatto bene a riproporre alla mia riflessione – mi rivolgo con riconoscenza alla vecchia quercia – l’idea che il legame tra uomini e alberi non è un’acquisizione recente, ma affonda nell’antichità. Con questa consapevolezza abbiamo potuto avviare un ripensamento delle nostre idee di sviluppo per rimarginare la frattura ecologica. È così che, negli anni Settanta, intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e nasce così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna. Successivamente, il professore di Portici s’impegna ad elaborare una politica ecologista che tenga insieme tutela dell’ambiente, pianificazione energetica e crescita economica.  In tale clima culturale, nei territori rurali industrializzati e nelle città traboccate nelle campagne circostanti, nascono spontaneamente nuove forme di ruralità. S’interrompe l’esodo dalle campagne e si registra una lenta inversione di tendenza. All’esodo rurale incomincia a subentrare l’esodo urbano. I figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si affermano così stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire. Una nuova agricoltura silenziosamente introduce un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, riemerge un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura di comunità che incrocia inediti filoni culturali e operativi presenti nei servizi sociali e sociosanitari: quelli che guardano con approccio critico e riflessivo al vecchio Stato sociale che si va decomponendo. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali”.

 La company Coldiretti & Petrini

La vecchia quercia del bosco di Tito ascolta sorniona quello che vado dicendo. E, quando finalmente taccio, esclama: “Sono anni che ripeti a campana questa storia della nuova ruralità. Su questo tema hai scritto diversi libri e molti articoli che però pochissime persone hanno letto. Insegni in modo appassionato in tanti corsi di formazione. Anche in un master promosso dall’Università di Roma Tor Vergata. Vai facendo conferenze in giro per l’Italia. Sei uno stupido romantico. E anche un perditempo. Non vedi che tutti si complimentano, ma poi nessuno ti ascolta per davvero?”

“Beh, stai esagerando – mi schermisco -, in questi anni sono nate diverse iniziative a seguito delle attività di animazione a cui ho partecipato”.

“Ancora troppo poche. La fanno da padrona le frottole della Coldiretti e le amenità di Carlin Petrini, che ora si son messi addirittura in società per dirle meglio.  Fino a quando ci saranno loro e i giornali che assorbono acriticamente le veline che diffondono, le nuove agricolture, di cui tu ti affanni a parlare, appariranno come delle banalità. Ma arriverà il momento in cui queste innovazioni si espanderanno. Dovranno passare ancora degli anni. È inutile affannarsi. Il seme che è stato seminato germoglierà e la rivenuta sarà abbondante. Puoi anche smetterla di andare a predicare. Bisogna solo saper attendere”.

Non comprendo dove la quercia madre vuole andare a parare. Mi piace l’uso del termine rivenuta, anziché prodotto o frutto. La parola in ebraico antico è revuà, nome composto dalla radice del verbo venire.  Ed esprime la rinnovata sorpresa di qualcosa che viene dalla terra in risposta all’azione del seminatore. Un’azione che è un chiedere, non un esigere. Nella nostra parola prodotto o frutto c’è l’abitudine a dare per scontato un risultato, a fare della terra un ingranaggio di una catena di produzione.  Per la lingua ebraica, il frutto viene ancora come un dono dal suolo e non dal nostro sfruttamento di essa. Ma sul resto di quel che dice la quercia, resto titubante.

Poi riprendo il mio racconto: “Recentemente c’è un fenomeno nuovo che si va espandendo soprattutto nelle grandi città. Sulle pareti e nelle terrazze degli edifici sono arrivati gli orti.  Racconta Elena Comelli che in cima ad un palazzo di uffici vuoti costruito negli anni Cinquanta per Philips, lungo un canale nel centro dell’Aia, crescono pomodori, zucchine e cetrioli. Qui è nata la più grande fattoria urbana d’Europa: milleduecento metri quadri di verdure coltivate in serra. Al piano di sotto, al posto delle scrivanie e degli schermi di computer, abita un enorme allevamento di pesci. L’obiettivo è di servire novecento famiglie locali, oltre a ristoranti e a una scuola di cucina. Analogo progetto c’è a Basilea. Aree industriali dismesse e spazi urbani per uffici non utilizzati diventano il luogo dove insediare coltivazioni di ortaggi e piante officinali e allevamenti di pesci. La tecnologia contribuisce a rendere l’agricoltura urbana una prospettiva praticabile. L’idroponica è un sistema chiuso basato sulle sinergie tra le coltivazioni di ortaggi senza terra e l’allevamento della tilapia, il pesce preferito per la sua grande adattabilità ad ambienti diversi. Negli spazi condominiali delle città e nelle zone verdi si piantano ulivi. Dalle parcelle di orto si passa a quelle di venti-trenta ulivi per dare la possibilità a chi risiede nel quartiere di farsi l’olio. Gli alberi stanno diventando i grandi protagonisti della sostenibilità delle aree urbane. Nei parchi agricoli urbani ci sono fattorie sociali – come la Cascina Forestina alle porte di Milano –  che curano boschi umidi, ricchi di risorgive e acque palustri, attraversati da fossi e ricolmi di fauna sparsa fra alberi e arbusti, quando non acquattata fra l’erba e i fiori del rigoglioso sottobosco. C’è una domanda crescente di servizi nei quartieri delle città che le imprese agricole potrebbero soddisfare. Ma è una domanda latente che coglie bisogni diffusi da trasformare in domanda esplicita. Una via è quella che vede più assemblee condominiali raccordarsi tra loro,  con un solo amministratore al servizio di una strada, intesa come insieme di abitazioni e infrastrutture costituenti l’unità minima di urbanizzazione. Si tratta di costituire condomini di strada che, in base al principio di sussidiarietà, prendano in affidamento, da proprietari pubblici o privati, il fondo stradale, i marciapiedi e gli spazi aperti di uso comune per curarne la manutenzione e per organizzare la migliore fruizione a vantaggio dei residenti. A tali attività si possono aggiungere una serie di servizi sociali, socio-sanitari ed educativi che le imprese agricole possono offrire a fronte di una domanda che i condomini di strada possono aggregare. Il connotato agricolo di queste forme di terziario civile innovativo che si vanno sperimentando e diffondendo, va ricercato non tanto nella coltivazione e nell’allevamento, bensì nella qualità delle partnership e delle collaborazioni, nella reinvenzione della cultura agricola e rurale locale, nel rilancio in forme moderne delle pratiche solidali e dei beni relazionali propri dei contesti rurali tradizionali, insomma nella rivitalizzazione  della funzione generatrice di comunità. Funzione propria dell’agricoltura che nasce diecimila anni fa, innanzitutto, come agricoltura di servizi (al servizio appunto delle prime comunità sedentarie) prima ancora di connotarsi come attività produttiva. Del resto la parola coltivare in ebraico antico era resa con il termine abad, il cui significato letterale è servire. Coltivare la terra è dunque servire la natura e la comunità”.

“Sei sempre così pesante – m’interrompe la quercia seccata, con il tono irritato di una maestra dei vecchi asili, prima di Maria Montessori – con questi rimandi etimologici. Astrazioni dietro astrazioni, formulate con pedanteria. Non fai mai un esempio concreto delle affermazioni che esprimi in modo apodittico e sempre con quel tono asseverativo”.

 Il legno di città

“Accetto la critica e ti parlerò allora del legno di città, anzi, di un caso concreto di economia civile che pone al centro persone in difficoltà mentre utilizzano il legno degli alberi urbani per realizzare manufatti di pregio. Se ne occupa da anni il mio caro amico Franco Paolinelli, dottore in scienze forestali e paesaggista, in collaborazione con l’Associazione Fiore nel deserto e altre realtà di Roma. «Per garantire la funzionalità e la sicurezza dei cittadini – mi ha spiegato Franco – gli alberi di città devono essere ciclicamente gestiti e rinnovati. Accade, inoltre, frequentemente che siano messi nei posti sbagliati e, diventando grandi, creino inconvenienti. E così diventa necessario sostituirli. Ne derivano tronchi, rami, ceppi di legno, che contengono carbonio». Non ci avevo mai pensato. E alla mia domanda «ma dove va a finire questo materiale che si accumula nelle città?» il mio amico dottore in scienze forestali ha risposto che esso viene considerato un rifiuto e va dunque a finire nelle discariche. Qui rami e piccoli tronchi vengono in parte trasformati in chips, con cui fare legno ricostruito o compost, ma, per lo più, vengono semplicemente lasciati lì a marcire. «In tutti questi casi – mi ha detto Franco – il carbonio torna, più o meno velocemente, libero nell’atmosfera. Se si degrada in carenza di ossigeno potrebbe dar luogo a metano, un gas ad effetto serra molto più elevato della stessa CO2. Riutilizzando questo legno di città non bruciato per farne oggetti di valore, esso diventa, invece, un magazzino duraturo di carbonio. Non va nell’atmosfera per alimentare l’effetto serra. Essendo un materiale biologico multifunzionale, il suo riutilizzo contribuisce alla sostenibilità del pianeta». «Anche gli alberi di Natale – gli ho chiesto incuriosito – diventano legno di città?». «Per gran parte sì. Infatti, dai vivai passano nelle case; e dopo le feste, quelli in vaso, con radici, sono piantati nei giardini; gli altri diventano legno di città. Oggi esistono segherie mobili e tecniche, più o meno sofisticate, per trasformare i tronchi e i rami più grossi in tavole ed altri pezzi utilizzabili. In alcuni casi si può fare anche nel giardino stesso in cui si è dovuto tagliare o potare l’albero. Da questi si possono poi fare elementi di arredo, oggetti d’uso comune, oggetti d’arte, ma anche materiali per attività di laboratorio didattico o terapeutico. La biomassa prodotta dagli alberi può quindi essere distribuita in varie destinazioni, secondo il criterio della maggiore utilità economica, ecologica e sociale». E così divagando, Franco ed io abbiamo un giorno immaginato che si potesse cogliere anche il valore simbolico del legno di città. Infatti, oltre al carbonio, esso ha dentro di sé la storia dei luoghi in cui il suo albero è cresciuto o è stato portato. E ci può quindi ricordare una città, un parco, una situazione storica, un evento particolare. Se l’albero vive a piazza San Pietro, gli utensili che saranno prodotti, riutilizzando i suoi rami a seguito della potatura, potranno fregiarsi della denominazione «legno degli alberi del papa». E si potrà aggiungere la certificazione del carbonio immagazzinato. Nel laboratorio dell’Associazione Fiore del deserto, giovani madri e ragazzi africani in condizioni di svantaggio riciclano il legno di città e realizzano panche, sgabelli, fioriere e cestini per raccogliere la carta. Ciascun oggetto è un pezzo unico, originale in quanto modellato da una materia prima unica che conferisce al manufatto una forma particolare diversa da tutte le altre possibili. Oggetti non seriali nei quali si ritrovano le qualità e le proprietà dei materiali utilizzati e la capacità creativa dell’apprendista artigiano”.

Sento all’improvviso il mugolio di un cane  che si avvicina, anzi sono più d’uno. Li riconosco. Sono i miei amici a quattro zampe che avevo affidato ad alcuni amici umani alloggiati nelle camere alla Casermetta, prima che mi addentrassi nel bosco. La più anziana è Miccia, trovata per strada nove anni fa quando ancora aveva dieci mesi. L’altra è Dolce che sta a casa con noi da tre anni, dopo averne trascorsi cinque in un canile. Alzano il capo e le orecchie. Non so cosa fare per tranquillizzarle. Le chiamo per nome. Ma ho netta l’impressione che non sentano la mia voce. Per la prima volta comprendo fino in fondo il significato dei suoni che emettono con il loro fiato anelante. Interpreto pienamente l’irrequietudine ferma dei loro occhi infantili e incerti. Mi stanno cercando disperatamente, m’invocano, non sanno che fare. Nelle loro movenze si scorge l’impeto della vita, la marea dell’essere, la persistenza di un attendere all’infinito. Provo a muovermi per andare incontro ai miei cani e finalmente accarezzarli, ma non posso farlo. Sono saldamente piantato nella terra profonda.

“Non ti preoccupare – mi grida la vecchia quercia -; se restano nel bosco potrai sempre vederle e sentirle”.

“Non sono più abituate a stare nel bosco e sicuramente finiranno per essere sbranate da animali selvatici in cerca di cibo. No, non posso permetterlo. Devo vedere come fare per proteggerle”.

“Sapevo che gli umani amassero in modo straziante i propri cani. Ma il tuo è un caso patologico. Vedrai che le tue amiche sapranno cavarsela da sole con coraggio o, al limite, scapperanno via dinanzi al pericolo”.

“Nei cani non esiste il coraggio – ribatto – se lo intendiamo come capacità di affrontare un pericolo conoscendone le possibili conseguenze pericolose e anche mortali e quindi affrontandolo in modo cosciente e razionale. Il fatto è che gli animali non hanno il concetto del pericolo e della morte come gli uomini. Hanno solo un istinto di autodifesa e di conservazione. Fuggono dal pericolo per salvare la propria incolumità o la propria vita. Ma qui dove fuggono e come si salvano?”.

“Rassomigli ai tuoi cani – mi canzona la vecchia quercia – e ormai non sai più fare a meno di loro”.

Non ascolto più il vecchio albero che avrebbe voluto adottarmi in onore dell’emblema della nostra Repubblica. La preoccupazione e l’ansia per i miei cani mi assalgono e incomincio a scuotermi sempre più violentemente. I mugolii di Miccia e Dolce si fanno sempre più intensi. Mi sveglio di soprassalto dal letto e mi siedo. Mi stanno leccando le mani intensamente. Mi rendo conto che stavo solo sognando e mi rassereno. Loro mi guardano felici.

(In Olio Officina Almanacco 2018, n. 6)

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