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Le quattro cose che ho imparato dalla storia dell’olio da olive

“L’Atlante degli oli italiani” di Luigi Caricato - edito da Mondadori - non è semplicemente una guida per orientarci nel vasto e multiforme patrimonio di olive e di oli presenti nelle diverse regioni italiane.  È innanzitutto una storia degli italiani raccontata attraverso l’olivicoltura. Uno strumento prezioso per scoprire le nostre radici culturali in quanto individui e in quanto comunità e orientarci meglio verso il futuro.

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Il pregio maggiore dell’Atlante degli oli italiani è che l’autore racconta, con un linguaggio chiaro e semplice ma sempre scientificamente accurato, il fatto e l’antefatto dell’olivicoltura italiana.

Il fatto

Il fatto è l’olivicoltura così come la intendiamo oggi, quella destinata alla produzione su vasta scala dell’olio per impieghi alimentari. Luigi ci spiega che è una vicenda della contemporaneità, una vicenda che inizia alla fine dell’Ottocento, non già in Italia ma negli Stati Uniti d’America. E ci racconta come in quel paese l’olio da olive fosse non solo ignorato ma perfino rifiutato sul piano culturale e antropologico. In California si coltivava l’olivo per produrre olio da destinare ai migranti europei perché gli americani ne erano intimoriti. E non c’è da stupirsi. Anche noi europei avevamo impiegato oltre tre secoli per apprezzare nella nostra cucina i pomodori, le melanzane e i peperoni che ci aveva portato Cristoforo Colombo dalle Americhe. Per lungo tempo avevamo impiegato queste cultivar solo come piante ornamentali.

Poi, un po’ alla volta, sono i migranti italiani che, imponendo nelle iniziative economiche e culturali la pasta e la pizza come elementi identitari della cucina italiana, aggiungono l’olio come legame del tutto. E così l’olio –  sull’onda degli scambi internazionali promossi dagli americani – incomincia a viaggiare nel mondo con la pizza e la pasta. L’olio da olive viene in questo modo associato all’identità italiana e diventa parte costitutiva di questa identità.

L’autore fa insomma derivare il successo internazionale dell’olio da olive da una doppia spinta: il modello americano dei grandi numeri, applicato a prodotti completamente acquisiti dalla cultura alimentare italiana e imitati nelle loro caratteristiche essenziali, e il “saper fare” degli italiani all’estero capaci d’imporre l’Italia nei segni distintivi dei prodotti. Si crea così una domanda internazionale che viene solo in parte soddisfatta da un’offerta organizzata in Italia. Le “famiglie dell’olio” che avviano le attività nel nostro paese crescono un po’ alla volta e l’autore le elenca in modo sintetico. Si tratta di storie tutte da scrivere, un capitolo importante della vicenda del capitalismo italiano che nessuno conosce.

Ma questa è la prima parte del fatto. La seconda parte si compie nel secondo dopoguerra.  Fino a quel momento il successo internazionale dell’olio da olive dipende solo da una conoscenza generica della nostra tradizione alimentare diffusa dalle comunità italiane all’estero. Nel dopoguerra si aggiunge un riconoscimento scientifico dello stretto legame dell’olio con altri prodotti del Mediterraneo e della sua importanza nel definire uno stile alimentare particolare. Anche questa volta è un americano il vero protagonista, Ancel Keys, capofila di un’indagine epidemiologica, che scopre la dieta mediterranea e le peculiarità salutistiche dell’olio da olive. Una rivoluzione nella conoscenza scientifica che investe le abitudini alimentari non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa.

A questo proposito occorre precisare che la cultura alimentare fondata sul nesso tra cibo e salute non è una peculiarità esclusiva del Mediterraneo. Anche le grandi cucine orientali ne sono pervase. Tuttavia, mancano studi comparati per coglierne i punti di contatto e le differenze. Sarebbero utilissimi per favorire gli scambi, i quali, prima ancora di essere commerciali, sono culturali.

L’antefatto

Ma c’è un antefatto che bisogna conoscere e che ancora non è stato indagato a fondo. Senza quell’antefatto il fatto non si spiega. E nell’”Atlante degli oli italiani” se ne fa una sintesi molto efficace. Il successo dell’olio da olive, le sue potenzialità, ma anche le contraddizioni, come le offerte che si trovano al supermercato “prendi tre paghi due” o le derive autarchiche che potrebbero portare ad un declino della produzione olivicola e olearia nazionale, si possono spiegare se si approfondisce l’antefatto. Una storia affascinante per comprendere come si costruisce il valore simbolico dell’olivo e dell’olio dalla notte dei tempi fino all’ottocento, come la costruzione di questo valore interagisce con il mondo del mito e delle religioni e con la nascita dell’agricoltura, come l’olivo e l’olio non hanno a che fare solo con il cibo ma soprattutto coi legami comunitari e con un insieme di economie che confluiscono nella cultura del benessere del corpo e dello spirito.

Pochi sanno che fin dalle origini l’olio da olive è stato impiegato in una molteplicità di usi. La sfera alimentare si mantiene sempre secondaria. Gli impieghi prevalenti sono nell’illuminazione e nell’industria laniera. Gli scambi commerciali avvengono lungo il Mediterraneo. Ma anche in luoghi dove non c’è mai stata una tradizione olivicola si trovano i segni di una produzione olearia, come a Milano. La corsa all’olio nella storia è come quella all’oro o all’odierno petrolio. Il periodo aureo in cui si accumula la conoscenza delle tecniche di estrazione è quello dell’antica Roma. Sulla base di questa scienza che viene ad accumularsi, i romani diffondono la coltivazione dell’olivo dappertutto, spesso sfidando l’impossibile. Introducono le denominazioni merceologiche, distinguono i vari gradi della qualità. Pretendono il rispetto delle regole da parte dei popoli su cui esercitano il dominio. L’autore mette in risalto la duttilità dei romani nel favorire la diffusione della coltura dappertutto. Con la caduta dell’Impero romano anche l’olivicoltura subisce un tracollo ma non un declino. Sono i monaci a tenere in vita la tradizione per illuminare i monasteri e le chiese. Con l’arrivo dei dominatori del Nord Europa si apre un conflitto culturale, ideologico tra produttori di grassi animali, o comunque di grassi vegetali diversi dall’oliva, e produttori di olio da olive. La guerra ideologica si fa con l’uso di pesanti tassazioni, con leggi repressive e punitive. L’autore si diverte a cogliere diverse analogie con le “guerre” odierne.  È intorno al 1300 la svolta, quando intere province, come il Salento, si ricoprono di piante d’oliva. Frutto di politiche pubbliche di governanti illuminati. Sono i ricchi mercanti della Serenissima a rilanciare gli scambi commerciali ad ampio raggio come al tempo dei romani. Poi di nuovo la crisi, intorno al Seicento, sotto la dominazione spagnola. Non se ne conosce la causa. L’autore ipotizza che a monte del calo produttivo in Italia vi siano scelte governative tese ad avvantaggiare la produzione spagnola. Tra Otto e Novecento c’è di nuovo l’affermazione della produzione. Il resto è cronaca, attualità. Un antefatto importante, la cui conoscenza può indurci a cambiare comportamenti, a liberarci di pregiudizi, a individuare nuove opportunità e a creare innovazione sociale .

Il succo della storia

Dal libro di Luigi Caricato ho estrapolato quattro cose importanti che ognuno può andare a cercare nel testo. La prima cosa è che l’olivo e il succo del suo frutto sono alla base di una pluralità di filiere produttive che hanno tutte una loro dignità. Una pluralità di impieghi permette di diversificare i mercati, graduare la qualità degli oli anche in base alla destinazione, trasferire il prodotto dalla filiera alimentare ad altre filiere quando dovesse servire, ricondurre l’olivagione alla sua funzione originaria di caratterizzazione di un paesaggio agrario e di primo anello di una molteplicità di filiere che danno vita a peculiari modelli sociali.

La seconda cosa è che l’olivo e l’olio sono simboli di pace e non possono essere utilizzati come armi da guerra per discriminare altri condimenti che connotano diverse culture alimentari, compresa quella mediterranea. Proprio perché il nostro olio da olive ha subito nel passato lo stigma di altre culture, è un errore madornale utilizzarlo oggi per stigmatizzare altri prodotti che hanno un analogo impiego. C’è un principio etico da rispettare, una fedeltà che dobbiamo all’olio prima ancora che a noi stessi.

La terza cosa è che la cultura dell’olio da olive è l’esito di una sedimentazione di culture realizzata con una forte apertura al diverso e con una disponibilità incondizionata a interagire tra culture differenti. Utilizzare l’olivo e l’olio per perseguire visioni autarchiche e neonazionaliste è il peggior torto che noi possiamo fare a questa tradizione. Soprattutto oggi che l’Italia è diventata multietnica.

La quarta cosa è che l’olivo e l’olio si sono potuti sviluppare solo laddove non esisteva una contrapposizione tra città e campagne e solo laddove l’attività di coltivazione delle piante si è saputa integrare con le attività a valle, artigianali, industriali e commerciali. Bisogna studiare meglio due modelli sociali a rete che caratterizzavano le aree di maggiore produzione: il modello mezzadrile nel Centro Italia e quello colonico nel Mezzogiorno. Una loro reinvenzione in chiave moderna può essere molto più efficace di qualsiasi strumento associativo attecchito in altre realtà europee per altri prodotti ma non nel mondo dell’olio. L’idea che gli agricoltori italiani siano individualisti e restii all’innovazione è un pregiudizio di cui liberarci. Che le politiche pubbliche abbiano fatto prendere agli imprenditori agricoli cattive abitudini è vero. Ma che l’individualismo sia un carattere originario del mondo rurale è falso. Per “fare sistema” partendo dai territori e guardando al mondo, ci sono modelli sociali che affondano le loro radici nella nostra storia e che vanno recuperati. Si tratta di depurarli degli aspetti inaccettabili e rigenerarli in quegli aspetti più vividi che ne hanno garantito il successo per un lungo periodo.

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