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Un’anti-risorsa da trasformare in risorsa

Siamo da sempre portati a dimenticare che, all’interno del peculiare paesaggio verticale italiano, esiste un’anti-risorsa costituita dai terremoti. Come accrescere la consapevolezza di questo problema per mitigare gli effetti del rischio sismico

Terremoto, foto di Amatrice scattata da bordo dell'eliambulanza

Mentre il dolore per la perdita di tante vite umane, a seguito del terrificante sisma del 24 agosto, ci assale e ci fa ammutolire e la macchina della solidarietà, spontaneamente messasi in moto, sta mostrando la parte migliore dell’Italia, è bene fare qualche riflessione di carattere storico-culturale. Quando parliamo del territorio del nostro paese, spesso facciamo riferimento a quella grande risorsa costituita dai suoi caratteri ambientali, ma ci dimentichiamo che, all’interno di quel particolare paesaggio, esiste un’anti-risorsa costituita dai terremoti, di cui vi è ancora una debole consapevolezza.

Emilio Sereni distingue il paesaggio agrario italiano, definendolo “verticale”, rispetto alla “orizzontalità” che domina nei paesaggi europei, segnati dall’estesa presenza delle pianure. Su circa 30 milioni di ettari del territorio nazionale, la montagna rappresenta il 35, 2 per cento  e la collina il 41,6 con acclività abitualmente superiori al 25 per cento.  E le conseguenze rischiose di una conformazione altimetrica siffatta si sommano all’ulteriore fattore naturale di rischio rappresentato dalla sismicità dell’intero territorio nazionale, con l’esclusione della Sardegna.  

Benché i disastri sismici abbiano da secoli distrutto vite umane e abitazioni, reti di scambi e di produzione, patrimoni architettonici e artistici, non sono ancora chiaramente individuabili gli atteggiamenti di risposta a questo problema. Ad ogni risorsa corrisponde un’anti-risorsa da considerare con la medesima attenzione nel tentativo di coglierne qualche opportunità.  

Certo, non saranno i caratteri sismici a modificarsi perché, nella scala del tempo scandita dalla storia umana in anni e secoli, tali caratteri possono essere assunti come “stabili”, appartenendo a una scala geologica, i cui mutamenti si misurano in milioni di anni.

Potrà dunque cambiare solo l’approccio umano a questo problema ambientale. E questo mutamento culturale e di mentalità, per sciogliere l’ipoteca sismica, costituisce un’ulteriore sfida dell’Italia nei prossimi decenni, una sfida che va ad incidere nei suoi caratteri più profondi.

Adattarsi ai terremoti

Un forte terremoto diventa un disastro non solo quando va oltre la media dei valori misurati in quel sistema geofisico, ma anche quando supera la capacità degli uomini di assorbirlo. Infatti, una società può avere storicamente sviluppato strategie finalizzate a ridurre l’impatto di un terremoto distruttivo. Ma può anche non aver elaborato alcuna difesa, o averla coltivata in modo inadeguato.

Quale che sia la risposta che una società ha elaborato per mitigare gli effetti dei terremoti, c’è prima o poi un terremoto che “collauda” quelle scelte. Solo osservando nel lungo periodo tale risposta in senso edilizio, culturale ed economico, si può rilevarne l’efficacia.

Ci si adatta ai terremoti distruttivi con azioni molto concrete: qualità della riparazione dei danni nelle fasi di ricostruzione, efficacia della macchina amministrativa che deve intervenire, costruzione di un sapere diffuso in grado di razionalizzare il terremoto e di stimolare forme di adattamento.

La risposta ai futuri terremoti è quindi formata da un complesso di elementi che determinano il livello di sicurezza che una società è in grado di darsi per garantire la propria incolumità. La ricostruzione delle abitazioni distrutte da un sisma costituisce un problema di rilevante portata amministrativa, economica e sociale. Si può dire che è stato sempre così. L’eccezionalità dell’evento sismico, infatti, genera una mobilitazione che finisce spesso con lo scompaginare gli equilibri politici e sociali tradizionali, spingendo così a una ridefinizione dei rapporti di potere tra i diversi attori sociali.

È noto, ad esempio, come il sisma del 1980 rappresentò in Campania un’occasione eccezionale per il decollo delle organizzazioni camorristiche; e, seppure in contesti e con dinamiche profondamente differenti, anche nei secoli precedenti i terremoti ebbero conseguenze che andavano ben oltre i pur rilevanti danni materiali. Di più: la catastrofe, per le emergenze che crea, per la forte spinta alla ricostruzione, si presenta come il terreno ideale di elaborazione e sperimentazione di nuove formule e nuove soluzioni, come normative speciali o la creazione di nuove istituzioni e organismi. Ad esempio, a seguito del rovinoso terremoto che, nell’agosto 1851, aveva devastato tutta l’area del Vulture in Basilicata, Ferdinando II dispose la creazione a Melfi di una Cassa di Prestanze Agrarie e Commerciali, dotata di un capitale di 40 mila ducati, e dell’Istituto Agrario di Santa Maria di Valleverde con annesso podere-modello, nel tentativo di dare una risposta duratura alle esigenze delle popolazioni colpite dal sisma.

La ricostruzione delle aree terremotate è un tema generalmente sottovalutato dalla cultura del nostro paese e trascurato dalla ricerca storiografica. Si sono approfondite le dinamiche dei sismi, le modalità con cui sono avvenuti i soccorsi, ma non si sono studiati a fondo i problemi della ricostruzione. Gli stessi mezzi d’informazione se ne occupano solo quando si manifestano in modo eclatante gestioni irregolari o illegali. Altrimenti si tace.

La sindrome del terremotato

In tutte le regioni vi sono paesi abbandonati. L’antropologo Vito Teti ne ha individuati una trentina solo in Calabria e ce li descrive in un bellissimo taccuino di viaggio, dal titolo “Il senso dei luoghi”. Gli spostamenti di intere popolazioni da un luogo ad un altro ha modificato non solo la toponomastica, ma anche il paesaggio culturale, la viabilità, gli assi economici locali. La storia dei terremoti non è solo storia di costi economici e di reti insediative rimodellate. Essa contiene anche gli altissimi costi umani sostenuti dalle popolazioni colpite. E non si tratta solo di perdita di vite umane, ma anche di consuetudini quotidiane e di identità culturali, oltre ai disagi sociali e psicologici dovuti allo sradicamento, alla dispersione di affetti, ai legami interrotti. Si può dire che intere generazioni del nostro paese abbiano dovuto convivere con patrimoni edilizi inagibili, precari, o in via di demolizione o in via di lentissime e quasi sempre inadeguate ricostruzioni. Déodat de Dolomieu, nel suo Mémoire del terremoto del 1783, parla del “terrore melanconico, e di una tristezza che raccapriccia”: la melanconia di chi osserva i resti delle antiche città del passato si combina, come nota François Lenormant, con la dolente immagine degli individui colpiti dal flagello, “tetri, taciturni, fiacchi, e come colpiti da una specie di stupore continuo”.

L’imprevidenza come carattere degli italiani?

Allora vi è da porsi una domanda: “Può una storia sociale così particolare non avere inciso sull’abito mentale della popolazione italiana? In altre parole, quel certo disorientamento progettuale che sembra caratterizzare la nostra società può avere a che fare con la lunga precarietà abitativa causata dai disastri sismici? Un disorientamento da far dire a Carlo Cattaneo: “Preparare le cose e prevederle non è certo il sentimento più forte degli italiani”. Anche quel tipico paesaggio culturale, fatto di ruderi, rovine e abbandoni, ma anche di ricostruzioni mancate o parziali, quella crescita urbanistica disordinata di paesi e città, sempre in attesa di piani regolatori e di interventi pubblici, quel senso di “brutto” che ti prende allo stomaco soprattutto quando attraversi i luoghi che ami di più, sembrano i segni della difficoltà a portare a termine progetti invischiati in conflitti di competenze e di potere, in quel tormentato rapporto tra interessi privati, risorse disponibili e bene pubblico che pervade in modo permanente e drammatico la storia d’Italia.

Centralismo e perdita di saperi costruttivi

Eppure la lunga sequenza di terremoti distruttivi ha fatto sì che nel tempo si delineassero anche delle risposte costruttive in relazione alle culture abitative preesistenti. Si tratta di quei saperi costruttivi non scritti, che mancano nei trattati e nelle accademie, ma sono evidenti nell’edilizia storica minore. Già questa è una risorsa che andrebbe valorizzata ed utilizzata, andando a ricercare all’interno di quegli antichi linguaggi costruttivi la “regola” che ne garantiva la sicurezza. Ma dove sono ora quegli antichi saperi?

La spinta alla ricostruzione diretta e centralista da parte dello Stato, dalla prima legislazione speciale varata a seguito del terremoto di Messina fino ai giorni nostri, si è espressa in normative che hanno completamente ignorato l’esistenza dei saperi costruttivi locali, accumulati in secoli di convivenza coi terremoti, ed hanno imposto regole di intervento uniformi e basate solo sul cemento armato. Il risultato è stato quello di sfiduciare i mestieri edilizi delle popolazioni locali, che utilizzavano tecniche e materiali tradizionali, come pietre, murature e legno.

In questi decenni, la pubblica amministrazione, spesso praticando anche forme deleterie di assistenzialismo, non solo si è fatta carico, come era giusto, di rendere disponibili le risorse finanziarie e di prevedere il controllo sul loro uso, ma si è assunta addirittura l’onere della progettazione e della realizzazione delle ricostruzioni pubbliche e private.

Soprattutto nel Mezzogiorno, i risultati sono stati costosi e deludenti: si pensi al Belice, ma dopo anche alla Basilicata e all’Irpinia. Quante “cattedrali nel deserto” e quanto paesaggio culturale perduto? Non c’è una sola masseria o casa colonica ricostruita nelle campagne meridionali che conservi i caratteri storici di quella distrutta. Per non parlare dei paesi e di quelle aree industriali rimaste vuote e non riqualificate per altri usi.

Eppure sarebbe stata del tutto diversa la situazione se si fosse dato ascolto a grandi tecnici come Manlio Rossi-Doria. Il professore di Portici accolse l’invito del Ministro del Bilancio, Giorgio La Malfa, a elaborare un’analisi dei danni in previsione dell’opera di ricostruzione e, subito dopo qualche giorno dal sisma, si trasferì in Irpinia. Il testo della memoria era già pronto entro un mese e fu pubblicato da Einaudi. Lo studioso suggeriva un piano di recupero dei paesi della montagna e della collina, ribattezzati “presepi” da Francesco Compagna, dove si trovava l’epicentro del sisma. I presepi potevano essere salvati se inseriti entro un disegno organico di pianificazione territoriale. Fu invece scelta una strada diversa, con la conseguenza di cancellare numerosi borghi rurali che potevano essere recuperati. Commentò Rossi-Doria: “Apprezzato a parole, sono rimasto ancora una volta – come ai tempi della riforma agraria – sconfitto nei fatti”.

La responsabilità individuale

Oggi che fare? Bisognerà puntare sulla responsabilità delle singole persone e delle popolazioni locali se si vorranno utilizzare meglio le risorse pubbliche e garantire una più efficace tutela degli edifici, delle infrastrutture e del patrimonio storico.

La sempre più ridotta disponibilità di risorse statali pone anche un altro problema: il livello di conservazione e di manutenzione della proprietà edilizia privata non potrà più essere addebitato interamente alla comunità nazionale.

Come regolare costantemente i controlli sulla sicurezza? Come puntare sulla responsabilità individuale come motore delle decisioni? Come liberare il patrimonio edilizio dall’abusivismo? Come incentivare il sistema delle assicurazioni? Come favorire il recupero e l’accumulo dei saperi costruttivi locali, mediante la ricerca e la formazione? Sono tutte domande a cui la società italiana deve rispondere adesso se vuole sciogliere l’ipoteca sismica che oggi pesa sulla propria economia. Si tratta di trasformare in risorsa quella che finora ha costituito esclusivamente un’anti-risorsa. Senza attendere fatalisticamente una nuova emergenza.

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