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Sinodo amazzonico ed ecologia integrale

Se la casa è comune, la cura per essa dovrà essere responsabilità comune di tutti. Per questo è necessario il dovere e il rischio del dialogo fino in fondo

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Introduzione

“Amazzonia: Nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale” è stato il tema affrontato a Roma, tra il 6 e il 27 ottobre 2019, dall’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione pan-amazzonica. Questa comprende territori di 9 paesi: Bolivia, Colombia, Perù, Brasile, Ecuador, Guyana Francese, Suriname, Venezuela e Guyana: un vasta area con una popolazione stimata di 33.600.000 abitanti, di cui 2,5 milioni sono indigeni. Questo spazio, coperto da un gigantesco manto forestale, è composto dal bacino del Rio delle Amazzoni e da tutti i suoi affluenti ed è caratterizzato da una realtà multietnica e multiculturale. Non abbiamo a che fare con una regione selvaggia e incontaminata, come molti credono, ma modellata dagli uomini e dalle donne per almeno 11 mila anni attraverso la creazione di giardini forestali e di terreni arricchiti artificialmente, denominati terra petra, derivante dalla contrazione dell’espressione portoghese terra petra do índio, terra nera degli indios.

Sul finire dell’estate di quest’anno, grande risalto ha avuto nei media e nei social l’allarme per le sorti della foresta amazzonica con un rimbalzo di dati drammatici: «sono scoppiati 41.858 incendi: l’89% in più rispetto al 2018. In Brasile da gennaio a luglio 2019 la deforestazione ha colpito un’area di 3.700 km quadrati». In quest’area del pianeta si sta consumando una crisi ecologica sicuramente grave che, tuttavia, va ricondotta nelle sue giuste dimensioni. Come ha scritto il Guardian – non certo un caposaldo del negazionismo in ambito climatico – la foresta amazzonica produce meno del sei per cento dell’ossigeno necessario alla Terra. Non solo: uno dei massimi studiosi mondiali di Amazzonia e nome di punta del panel di esperti dell’Onu che studia i cambiamenti climatici, lo scienziato Dan Nepstad, ha spiegato a Forbes che «la foresta produce molto ossigeno, ma altrettanto ne producono i campi coltivati e i pascoli». Il mondo non si sta deforestando, anzi: nella sola Europa c’è molto più verde rispetto a un secolo fa. Allo stesso modo, ha chiarito ancora Nepstad, «l’allarme sul numero degli incendi di questa estate in Amazzonia è fortemente esagerato, essendo di poco superiore alla media degli ultimi dieci anni». Anche la Nasa lo ha confermato: il numero degli incendi dell’estate scorsa è in linea con la media degli ultimi quindici anni. Se si prende poi la sola zona del Rio delle Amazzoni, quella cioè prettamente brasiliana, il numero di incendi registrato quest’anno è inferiore a quello contabilizzato in sei degli ultimi dieci anni.

L’Assemblea era stata convocata da papa Francesco il 15 ottobre 2017 con l’obiettivo di «trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, in particolare le persone indigene, spesso dimenticate e senza la prospettiva di un futuro sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di fondamentale importanza per il nostro pianeta». Per affrontare il tema, si era previsto un approfondimento sull’ecologia integrale in Amazzonia, riprendendo e sviluppando riflessioni e indicazioni contenute nell’enciclica di papa Francesco Laudato si’ del 24 maggio 2015 e pubblicata il 18 giugno successivo. Il documento finale del Sinodo è stato approvato il 26 ottobre 2019. Esso non ha valore decisionale ma serve al Papa per redigere la sua esortazione post-sinodale.

Non ho la pretesa di affrontare in questo articolo tutti gli aspetti toccati dal Sinodo, ma esclusivamente quelli attinenti al tema dell’ecologia integrale per una prima sommaria valutazione delle ricadute che l’iniziativa di una chiesa locale, ma molto vicina a papa Francesco, ha nel dibattito sui problemi ambientali a livello mondiale.

 

I partecipanti

Oltre al Pontefice, al card. Cláudio Hummes, Presidente della Rete ecclesiale pan-amazzonica e Relatore generale del Sinodo, e ai responsabili dei principali Dicasteri della Curia romana, hanno partecipato all’Assemblea 184 prelati e missionari delle chiese locali; 55 uditori e uditrici, in rappresentanza delle popolazioni indigene, istituti religiosi e organismi laici che operano con le comunità amazzoniche, tra cui Carlo Petrini, fondatore di Slow Food; 6 delegati di altre chiese cristiane; 12 invitati speciali: Ki-moon Ban, ex-Segretario Generale delle Nazioni Unite (Corea); René Castro-Salazar, Assistente del Direttore Generale della FAO per il Dipartimento Clima, Biodiversità, Terra e Acqua (Stati Uniti d’America); José Gregorio Díaz Mirabal, Presidente del Congresso delle Organizzazioni Indigene Amazzoniche (Venezuela); Jean-Pierre Dutilleux, Cofondatore e Presidente onorario dell’Associazione Forêt Vierge di Francia, promotore degli indigeni Kayapò (Francia); Josianne Gauthier, Segretaria Generale della CIDSE, Alleanza Cattolica Internazionale di Agenzie di Sviluppo (Canada); P. Miguel Heinz, s.v.d., Presidente di Adveniat (Germania); Luis Libermann, Fondatore della Cattedra del Dialogo e della Cultura dell’incontro, Neuquén, imprenditore del mondo dell’acqua (Argentina); Carlos Alfonso Nobre, scienziato, Premio Nobel per la Pace 2007, Membro della Commissione per le Scienze ambientali del Consiglio nazionale per lo sviluppo scientifico e tecnologico (Brasile); Jeffrey D. Sachs, Professore di Sviluppo sostenibile presso il Centro per lo Sviluppo sostenibile della Columbia University (Stati Uniti d’America); Hans J. Schellnhuber, Professore di Fisica teorica e Direttore Emerito dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico (Germania); Mons. Pirmin Spiegel, Direttore Generale di Misereor (Germania); Victoria Lucia Tauli-Corpuz, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene (Filippine).

Un Sinodo ancora una volta a grande prevalenza di uomini: le donne erano infatti solo 35 e non hanno votato. Non a caso suor Birgit Weiler della Congregazione delle suore missionarie mediche, collaboratrice nella Pastorale per la cura del creato della Commissione Episcopale di Azione Sociale della Conferenza Episcopale del Perù, nel suo intervento in Assemblea ha dovuto sottolineare con fermezza: «Basta machismo, quando si vuole davvero andare verso una Chiesa sinodale, allora bisogna decidere insieme. Il che vuole dire avere più donne in posizione di leadership. Anche le donne devono poter votare al Sinodo dei vescovi». E ha continuato: «Non c’è nessun motivo per cui ciò non sia possibile. Già l’ultimo Sinodo ha stabilito che non è necessaria l’ordinazione al sacerdozio per votare: se si partecipa all’intero processo sinodale, si partecipa anche alla responsabilità delle decisioni prese».

Ma ad essere residuali non erano solo le donne: anche la comunità scientifica ha avuto un ruolo marginale. La commissione per l’elaborazione del documento finale era, infatti, composta esclusivamente da cardinali e vescovi. Non ne facevano parte nemmeno Nobre, Sachs e Schellnhuber, unici scienziati invitati al Sinodo. E non hanno partecipato a nessuna delle iniziative sinodali perfino il Presidente dell’Accademia pontificia delle scienze, Joachim Von Braun, economista agrario e dello sviluppo, direttore del Centro per la ricerca sullo Sviluppo presso l’Università di Bonn, considerato un esperto internazionale sui problemi di fame e malnutrizione, e il Presidente dell’Accademia pontificia delle scienze sociali, Stefano Zamagni, professore di Economia politica all’Università di Bologna.

Papa Francesco ha, invece, chiamato a far parte della commissione che ha steso il testo conclusivo del Sinodo il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e teologo domenicano. Il quale, a un giornalista che lo ha intervistato nell’intervallo tra una sessione e un’altra dell’Assemblea, ha così risposto: «In questi giorni sto rileggendo il profeta Geremia. Continuava a dire: andiamo diritti verso il disastro, convertitevi, cambiate vita, c’è ancora tempo. Ma non gli hanno creduto». Il richiamo biblico del porporato lasciava intravedere profezie di sventura. E lo stesso Schönborn ha immediatamente chiarito da che parte arrivavano: «Ciò che mi colpisce è che il grido più drammatico sia venuto dagli esperti». «E cosa vi hanno detto, eminenza?» ha incalzato il giornalista. «Nell’ultimo degli interventi in aula, il grande climatologo Hans Schellnhuber ha detto, semplicemente: “L’evidenza scientifica è che la distruzione della foresta amazzonica è la distruzione del mondo”. Così, secco. E questa chiamata drammatica è ciò che questo Sinodo vuole e deve dire a tutto il mondo, anzitutto al mondo industrializzato, ricco».

La posizione espressa dallo studioso di Bonn e sintetizzata nell’intervista del cardinale di Vienna è stata recepita quasi letteralmente nelle conclusioni del Sinodo: «È scientificamente provato che la scomparsa del bioma amazzonico avrà un impatto catastrofico per l’intero pianeta!». E ancora: «Attualmente [l’Amazzonia] è la seconda area più vulnerabile al mondo in relazione ai cambiamenti climatici dovuti all’azione diretta dell’uomo». Da un’attenta lettura del testo conclusivo si comprende che anche i contributi degli altri due scienziati, Nobre e Sachs, sono stati recepiti: «Gli esperti ricordano che utilizzando la scienza e le tecnologie avanzate per un’innovativa bioeconomia delle foreste in piedi e dei fiumi scorrevoli, è possibile aiutare a salvare la foresta tropicale, proteggere gli ecosistemi amazzonici e le popolazioni indigene e tradizionali». E con queste scarne affermazioni molto generali finisce qui il contributo della scienza. Alcun cenno è stato riservato al grave problema che vede «la popolazione del Globo continuare la propria crescita al ritmo dei decenni scorsi, un ritmo prossimo al raddoppio cinquantennale», benché «sussista una pluralità di dati, in parte considerevole concordanti, sostanzialmente omogenei nel dimostrare che la terra da cui l’umanità ricava alimenti si sta contraendo ad un ritmo comparabile, seppure inverso, a quello della crescita demografica» (A. Saltini, Quanti uomini può alimentare la terra?, in I Tempi della Terra, rivista on line, n. 3,  ottobre 2019).

 

L’ecologia integrale come antidoto alla crisi della foresta amazzonica

Un intero capitolo (il IV) del documento finale è dedicato a quello che è stato definito “approccio spirituale all’ecologia integrale”: «Il nostro pianeta è un dono di Dio, ma sappiamo anche che viviamo l’urgenza di agire di fronte a una crisi socio-ambientale senza precedenti. Abbiamo bisogno di una conversione ecologica per rispondere in modo appropriato. Pertanto, come Chiesa amazzonica, di fronte alla crescente aggressione contro il nostro bioma minacciato di scomparire con enormi conseguenze per il pianeta, siamo sulla buona strada ispirati dalla proposta di ecologia integrale. Riconosciamo le ferite causate dall’essere umano nel nostro territorio, vogliamo imparare dai nostri fratelli e sorelle dei popoli originari, in un dialogo di conoscenza, la sfida di dare nuove risposte alla ricerca di modelli di sviluppo equo e solidale. Vogliamo prenderci cura della nostra “casa comune” in Amazzonia e per questo proporre nuovi percorsi» (§ 65).

Un percorso è quello già indicato dall’enciclica Laudato si’: «Un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare sia il pianto della terra che il grido del povero» (§ 49). Ai fini di un’ecologia integrale viene auspicata una diversa regolazione delle attività agricole ed estrattive. L’idea è quella di convertire gradualmente tali attività da una logica predatoria ad una logica conservativa al fine non solo di evitare un dissennato sfruttamento della foresta, ma soprattutto di garantire la tutela dei diritti umani.

L’altro percorso è indicato nel documento finale del Sinodo e riguarda l’individuazione di «nuovi modelli di sviluppo equo, solidale e sostenibile che prevedano la partecipazione delle popolazioni indigene organizzate, di altre comunità amazzoniche e delle diverse istituzioni scientifiche che stanno già proponendo modelli di utilizzazione della foresta permanente» (§ 71). A tal fine «la Chiesa incoraggia la comunità internazionale a fornire nuove risorse economiche […] anche rafforzando gli strumenti già sviluppati dalla convenzione quadro sui cambiamenti climatici» (§ 68).

Il tema dell’ecologia integrale e di una specifica spiritualità dell’ecologia integrale viene strettamente legato, nella riflessione del Sinodo, a quello di «una profonda conversione personale, sociale e strutturale» che sarebbe richiesta dalla necessità di tutelare la vita dell’Amazzonia e dei suoi abitanti. La «conversione ecologica» per la «tutela del creato» è nel documento fortemente intrecciata con la «conversione culturale» per la «protezione delle minoranze indigene» e con la «conversione sociale» per la «giustizia sociale» che sarebbe insidiata da «un’economia che distrugge e uccide». Il tutto viene poi considerato inseparabile dalla «conversione pastorale» per affrontare la «sfida dell’evangelizzazione», senza la quale non ci sarebbero le altre “conversioni”. Significativa a questo proposito è l’affermazione contenuta nel documento: «L’uomo da solo non ha la forza di evitare la distruzione del pianeta». E inseparabile è l’insieme delle “conversioni” da quella “sinodale” che riguarda l’organizzazione della Chiesa (a cui si legano le questioni del diaconato delle donne e del celibato dei preti). Una «conversione in cui l’Amazzonia è un test case di tutto il pianeta» (Prof. Schellnhuber citato dal card. Schönborn). Una «conversione che comincia con il pensare e si realizza nell’agire» (Card. Schönborn).

Nel documento conclusivo viene proposto di «definire il peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro gli altri, la comunità e l’ambiente» (§ 82) e di «creare ministeri speciali per la cura della ‘casa comune’ e la promozione dell’ecologia integrale a livello parrocchiale e in ogni giurisdizione ecclesiastica, che hanno tra l’altro funzioni di cura del territorio e delle acque, nonché promozione dell’enciclica Laudato si’» (§ 82).

Si propone, inoltre, di «riparare il debito ecologico che i paesi hanno nei confronti dell’Amazzonia» (§ 83) con «la creazione di un fondo globale per coprire parte dei bilanci delle comunità presenti in Amazzonia che promuovono il loro sviluppo integrale e autosostenibile» (§ 83).

Si chiede, altresì, di «adottare abitudini responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e saperi, proteggendo la terra e cambiando la nostra cultura volta al consumo eccessivo e alla produzione illimitata di rifiuti solidi, mediante lo stimolo al riuso e al riciclo; impegnarci a ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e l’uso della plastica, cambiando le nostre abitudini alimentari (consumo eccessivo di carne e pesce / crostacei) con stili di vita più sobri; a piantare alberi e a ricercare alternative sostenibili in agricoltura, energia e mobilità che rispettino i diritti della natura e delle persone; a promuovere l’educazione all’ecologia integrale a tutti i livelli; a favorire nuovi modelli economici e iniziative che promuovano una qualità di vita sostenibile» (§ 84).

Infine, nel quadro della «conversione culturale» vanno evidenziati alcuni impegni assunti dalla Chiesa nel campo della sanità e dell’istruzione che si connettono strettamente al tema dello sviluppo: «promuovere l’educazione sanitaria preventiva e offrire assistenza sanitaria nei luoghi in cui l’assistenza statale non arriva;  favorire iniziative di integrazione a beneficio della salute dell’Amazzonia; promuovere la socializzazione delle conoscenze ancestrali nel campo della medicina tradizionale tipica di ogni cultura; creare una rete di scuole di istruzione bilingue per l’Amazzonia (simile a Fe y Alegría) che articola proposte educative che rispondano alle esigenze delle comunità, rispettando, valorizzando e integrando l’identità culturale e linguistica; sostenere e favorire le esperienze educative dell’istruzione bilingue interculturale che già esistono nelle giurisdizioni ecclesiastiche dell’Amazzonia e coinvolgere le università cattoliche a lavorare e impegnarsi in reti; cercare nuove forme di educazione convenzionale e non convenzionale, come l’educazione a distanza, in base alle esigenze di luoghi, tempi e persone» (§§ 58-64).
“La casa comune è casa di tutti” in Amazzonia e nel pianeta

Il documento approvato dal Sinodo è costellato di riferimenti all’enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune che commentai con Mario Campli nell’ e-book intitolato La casa comune è casa di tutti (Informat Edizioni 2016). A quel lavoro attingerò per argomentare alcuni rilievi critici sul pensiero ecologista della Chiesa cattolica. Un pensiero elaborato sotto il pontificato di Francesco con l’intento di accrescere la consapevolezza – a cominciare dai membri della chiesa cattolica e dai cristiani tutti – dei rischi ambientali e planetari e ricercare e realizzare percorsi comuni e soluzioni condivise.

Quando s’incomincia a leggere Laudato si’  s’avverte un’immediata sensazione di fiducia nell’uomo e nella sua capacità di produrre un cambiamento; una fiducia accompagnata dall’idea condivisibile che qualsiasi persona – ovunque abiti il pianeta – possa assumersi la sua quota di responsabilità nell’affrontare la crisi sociale ed ecologica, contribuendo a promuovere uno «sviluppo sostenibile e integrale». Questa impressione positiva alimenta la speranza di un confronto aperto ad ogni apporto, partendo ognuno dalla consapevolezza e dal riconoscimento che la casa è comune perché è di tutti. Tuttavia, andando avanti con la lettura del testo pontificio ci s’imbatte in una citazione da Catechesi del 17 gennaio 2001 che mette seriamente in dubbio la sensazione iniziale: «Se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina». E allora sorge spontanea in chi legge la domanda: «Solo un  Dio ci potrà salvare?». Insomma, da una parte si vuole promuovere un’alleanza e una contaminazione culturale con l’umanità intera, dall’altra si fanno affermazioni che sembrano contraddire tale esito: «L’essere umano non è pienamente autonomo. La sua libertà si ammala quando si consegna alle forze cieche dell’inconscio, dei bisogni immediati, dell’egoismo, della violenza brutale. In tal senso, è nudo ed esposto di fronte al suo stesso potere che continua a crescere, senza avere gli strumenti per controllarlo. Può disporre di meccanismi superficiali, ma possiamo affermare che gli mancano un’etica adeguatamente solida, una cultura e una spiritualità che realmente gli diano un limite e lo contengano entro un lucido dominio di sé» (Laudato si’, Cap. 3, § 105).

Un disagio analogo si avverte da un altro profilo. L’enciclica riconosce «che si sono sviluppate diverse visioni e linee di pensiero in merito alla situazione e alle possibili soluzioni» (Cap. 1, § 60). Mancano, tuttavia, una disamina delle diverse visioni e una differenziazione delle posizioni in campo. Non si fa alcun tentativo di distinguere gli interlocutori. Si definiscono genericamente le due tesi agli antipodi: «Da un estremo, alcuni sostengono ad ogni costo il mito del progresso e affermano che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Dall’altro estremo, altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, può essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui conviene ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento» (Cap. 1, § 60). Fra questi estremi «la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali» (Cap. 1, § 60).

Queste ambivalenze continuano nel testo. L’enciclica infatti afferma: «La Chiesa Cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione» (Cap. 2, § 63). Appena dopo, ad inizio del successivo  paragrafo, il papa, usando un verbo in prima persona, scrive e precisa: «D’altra parte, anche se questa enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare sin dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili» (Cap. 2, § 64). Questo brano va letto in sinossi con un passo di un’altra enciclica recente (più volte citata da Francesco). A conclusione della Caritas in veritate, Benedetto XVI afferma: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (§ 78). Cos’altro c’è da aggiungere? Si può ritenere questo incipit una forma di “dialogo”? Non lo credo. E la Caritas in veritate  continua: «Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale» (§ 78). Si provi a riscrivere questa affermazione  volgendola al negativo: «Se (non) pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli,  (non) saremo (ne)anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale». Ora è di una chiarezza estrema, che dovrebbe far riflettere. Questo approccio, infatti, contraddice l’altro di cui all’affermazione: «Se il solo fatto di essere umani muove le persone a prendersi cura dell’ambiente del quale sono parte» (Laudato Si’, Cap. 2, § 64).

Questi passaggi contraddittori delle due encicliche meritano un’attenta e anche delicata riflessione. Annunciare “Cristo – il Signore è risorto”, è il cuore della fede e dell’Evangelo. Il teologo Romano Guardini (citato in Laudato si’) ha insegnato che «il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino – cioè una persona storica» (L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, 1949). E un altro teologo, questa volta protestante, Dietrich Bonhoeffer, ci ha lasciato un insegnamento che vale la pena ricordare: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Proprio questo noi riconosciamo – al cospetto di Dio! Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi, è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo in ogni momento. (…) Gesù rivendica per sé e per il regno di Dio l’intera vita umana in tutte le sue manifestazioni, ecco il tema che mi interessa: la rivendicazione da parte di Gesù Cristo del mondo divenuto adulto» (Resistenza e resa –Lettere e appunti dal carcere, Bompiani, 1969). Non essendo, qui, in questione il cuore dell’annuncio evangelico, ma soltanto la proposta di un dialogo per un possibile e utile contributo alla famiglia umana sulla “cura della casa comune”, quelle sottolineature ci pongono di fronte ad alcuni interrogativi e ad una questione di fondo.

Quali interrogativi? Eccoli: il dialogo è sostanziale o soltanto metodologico? Forse che la forza scaturente dall’essere umani delle persone non è in grado di offrire sufficienti o adeguate “motivazioni alte” alla cura della casa comune? Ci viene forse detto (“subito all’inizio”) che è ora di  prendere atto che la ragione della scarsa efficacia del contrasto alle dinamiche distruttive della “casa comune” sta non tanto nella carenza delle analisi e delle tecnologie appropriate per ridurre e tenere sotto controllo i processi anti-ecologici, quanto nella carenza di “motivazioni alte” e di “convinzioni di fede”?

Sono interrogativi che rimandano all’esigenza di ridefinire la concezione della laicità sia per i credenti che per i non credenti e i diversamente credenti. Una laicità intesa come capacità di dialogo e collaborazione di visioni plurali che convivono nella società. E in tale pluralismo collocare le fedi e le religioni. Ne ho scritto in La laicità al tempo di Francesco e Sadiq Khan (mio sito web personale, 3 luglio 2016).

La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella sola ragione, che del resto, nella fede cristiana, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista e la retorica infruttuosa sui principi non negoziabili.

La seconda speculare condizione è che i non credenti, a loro volta, imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, etsi Deus daretur, come se Dio ci fosse. Devono cioè imparare a considerare il diritto come una conquista storica che non rinuncia a pensarsi come condizione di possibilità della libertà stessa. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi a egoismo individualistico.

Oggi viviamo in società multiculturali e multideali complesse. Le appartenenze e le identità sono diventate molteplici e di natura diversa: territoriali, sociali, generazionali, sessuali, professionali, scientifiche, etniche, religiose, ideali, culturali. Attengono non solo a visioni del mondo ma anche, semplicemente, a specifici stili di vita e a modi distinti di relazionarsi, produrre e consumare. E tali antiche e nuove identità e appartenenze si sovrappongono nello stesso individuo e negli stessi gruppi, costituendo identità e appartenenze plurime.

Un’educazione alla laicità e una sua pratica costante potrebbero permettere il confronto tra le diverse appartenenze e identità, il loro riconoscimento e la loro convivenza. Potrebbero orientare le appartenenze e le identità verso il superamento delle proprie chiusure e intransigenze e aprirle alla comprensione reciproca e alla cooperazione universale. Potrebbero abbattere i pregiudizi, gli stereotipi, i privilegi e le rendite di posizione, economiche e finanziarie, e affermare le pari opportunità e le eguaglianze sostanziali. Potrebbero smascherare il conformismo e la menzogna e fare emergere la libertà e la sincerità. Potrebbero contenere le paure, l’incertezza e il disagio e stimolare il coraggio, l’intraprendenza, il saper fare e l’operosità.

La laicità non si contrappone all’identità ma la incivilisce e la fa evolvere nel cambiamento continuo globale. La laicità è sinonimo di dinamismo, cambiamento e solidarietà. L’identità che resiste all’azione incivilente della laicità è sinonimo di conservazione, stagnazione ed egoismo. Più le pratiche laiche si affermeranno e più cresceranno l’apertura al diverso, l’inclusione sociale, l’interazione culturale, la vitalità sociale ed economica delle persone e delle comunità, le pari opportunità, e meglio potranno essere soddisfatti i nuovi bisogni. Meno le pratiche laiche si espanderanno e più si ergeranno i muri, si emargineranno gli ultimi, diventeranno esplosive le diseguaglianze.

 

L’ecologia integrale e il rapporto scienza e democrazia

Una rielaborazione del concetto di laicità permetterebbe di affrontare correttamente il problema del rapporto tra scienza e società e tra scienza e democrazia e di dare una giusta collocazione a questi temi nella elaborazione di un pensiero ecologico integrale. A tale riguardo l’enciclica Laudato si’ richiama quanto affermato da Giovanni Paolo II nel Discorso ai rappresentanti della scienza, della cultura e degli alti studi nell’Università delle Nazioni Unite (Hiroshima, 25 febbraio 1981): «La scienza e la tecnologia sono un prodotto meraviglioso della creatività umana che è un dono di Dio». E Francesco aggiunge: «La tecnoscienza, ben orientata, è in grado non solo di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano, a partire dagli oggetti di uso domestico fino ai grandi mezzi di trasporto, ai ponti, agli edifici, agli spazi pubblici. È anche capace di produrre il bello e di far compiere all’essere umano, immerso nel mondo materiale, il ‘salto’ nell’ambito della bellezza» (Cap. 3, § 103). Per il papa non si tratta, dunque, di mettere sotto accusa la scienza ma di prendere coscienza «di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica» (Cap. 3, § 109).

Sia l’enciclica che il documento finale del Sinodo pan-amazzonico manifestano un approccio ambivalente nella valutazione di questo decisivo elemento della contemporaneità, sovrapponendo termini distinti che hanno significati e sostanza diversi: la tecnica non va, infatti, confusa con la tecnologia e ambedue vanno tenute distinte dalla scienza. La tecnica è l’insieme delle attività di costruzione di strumenti e mezzi per svolgere specifiche funzioni. Frutto di un impegno congiunto di pratica empirica e d’invenzione creativa, la tecnica nasce nel paleolitico ed è una forma di conoscenza che è sempre stata presente in ogni comunità umana. La tecnologia è, invece, un settore di ricerca multidisciplinare con oggetto lo sviluppo e l’applicazione di strumenti tecnici, ossia di quanto è applicabile alla soluzione di problemi pratici, all’ottimizzazione di procedure, alla presa di decisioni, alla scelta di strategie finalizzate a dati obiettivi, sulla base di conoscenze scientifiche. La scienza è, infine, l’insieme delle discipline fondate essenzialmente sull’osservazione, l’esperienza, il calcolo, o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, e che si avvalgono di linguaggi formalizzati. Confondere o sovrapporre scienza, tecnologia e tecnica non permette di individuare – cosa che è sempre necessaria e utile – i punti critici del sistema della conoscenza nell’attuale rivoluzione tecnologica. È come voler prendere le distanze da tutto quello che ha a che fare con la conoscenza senza discernere e individuare soluzioni credibili e percorsi fattibili per creare nuovi equilibri.

Oggi siamo in presenza di una potenza della tecnologia che cresce in modo esponenziale perché si alimenta del legame con il mercato. Una potenza che influisce notevolmente sui modi di vita delle persone.  Ma pensare di bloccare lo sviluppo tecnologico è una follia perché la vita civile del pianeta ne uscirebbe disintegrata. Esso va, invece, fortemente ancorato a principi etici condivisi e al metodo democratico. Uno degli aspetti fondamentali dell’educazione alla cittadinanza democratica dovrebbe essere la formazione di un modo di pensare aperto allo sviluppo scientifico e tecnologico. Si tratta di acquisire quelle conoscenze che permettono di giovarci delle opportunità di tale sviluppo ed elaborare, nel contempo, un approccio critico consapevole sui rischi che esso comporta. Tutti dovremmo fare buon uso del metodo scientifico galileiano per qualunque attività sociale e saper giudicare – applicando tale metodo – tutte le informazioni che riceviamo. «Acquisire una mentalità aperta alla conoscenza scientifica è esercitare un diritto alla democrazia: un bene che ci si deve conquistare ogni giorno, senza credere che ci venga regalato» (R. Defez, Trova il Metodo avrai un tesoro, in La Stampa, 30 ottobre 2019, p. 30). Inoltre, «una democrazia deve poter contare su esperti competenti e indipendenti in grado di supportare i decisori politici in tema di innovazione e ricerca in ambito scientifico e tecnologico» (E. Cattaneo, Il sapere ci salva, in La Stampa, 25 settembre 2019, Supplemento TuttoScienze).

Su questi aspetti il pensiero cattolico riguardante l’ecologia integrale appare sorprendentemente debole.

Significherà qualcosa che la parola “democrazia” non compaia mai nei documenti ufficiali della Chiesa di papa Francesco?  Ha un qualche senso che la S. Sede non aderisca ancora alla Suprema Corte di giustizia europea, né al tribunale penale internazionale dell’Aja? E che non abbia ancora sottoscritto la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”? È solo un caso che il Sinodo pan-amazzonico abbia del tutto ignorato che nel 2018 solo il 48 per cento dei cittadini latino-americani si sia dichiarato favorevole alla democrazia (dati Latinobarometro)?

 

Il dovere e il rischio del dialogo fino in fondo

I testi che illustrano le idee sull’ecologia integrale propugnate dall’attuale pontificato danno uno spazio notevole alla critica del sistema capitalistico con motivazioni sicuramente condivisibili ma con un’impostazione onnicomprensiva e “olistica”. Questa impedisce di distinguere comportamenti, modelli, motivazioni etiche che differenziano in modo rilevante imprese e raggruppamenti di imprese. Soprattutto non permette di far emergere, nell’arcipelago dei filoni culturali impegnati nell’affermare la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo, quelli che, ad esempio, si collegano alle culture scientifiche e tecniche agronomiche ed economico-agrarie che intendevano, già tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso,  accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si è manifestata la crisi ecologica. Gli esponenti di quelle culture furono combattuti, ridimensionati e ostacolati dalle forze dominanti, ma erano gli eredi di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Chi vuole approfondire può leggere l’e-book che ho scritto con Mario Campli,  La casa comune è casa di tutti, cit.: la Parte II è dedicata al pensiero ecologista laico e all’evoluzione dei movimenti ecologisti, mentre la Parte III affronta sinteticamente il tema di come in Italia le culture scientifiche e tecniche agronomiche ed economico-agrarie si sono poste dinanzi alla crisi ecologica.

È dunque una rappresentazione falsa della realtà quella che attribuisce soltanto alle culture ecologiste e ai movimenti ambientalisti, sorti negli ultimi decenni, l’impegno per affermare un punto di vista critico dei processi di sviluppo e approcci imprenditoriali innovativi, capaci di prevenire i disastri ambientali. A tale riguardo, la Chiesa di Francesco ignora completamente un’articolazione della società civile più larga e fa riferimento in modo generico, a volte a un indistinto «movimento ecologico mondiale» che avrebbe «già fatto un lungo percorso, arricchito dallo sforzo di molte organizzazioni della società civile» e altre volte a «diversi movimenti ecologisti, fra i quali non mancano le lotte ideologiche». Mi sembra, questo approccio, un modo per catturare la simpatia (syn-patheia, affinità, attrazione irresistibile e occulta) di generazioni e culture e, persino, ceti sociali, che non aiuta, però, a delineare una strategia forte e risolutiva per la cura della casa comune.

L’altro elemento fortemente debole nella riflessione bergogliana sui temi ecologici è quello relativo agli assetti istituzionali sovranazionali per attuare politiche pubbliche capaci di incidere sui fenomeni planetari. Un aspetto ben messo in evidenza da Michele Salvati. Scrive, infatti, il politologo in modo sottoscrivibile: «Contrastare le tendenze spontanee al profitto da parte degli imprenditori e al benessere individuale da parte dei consumatori esige un grado di legittimità e una fiducia nella lungimiranza delle decisioni dell’autorità – da ultimo di una capacità di coercizione – che oggi sono difficilmente raggiunte anche in comunità piccole, molto colte e coese: anche in queste il conflitto è inevitabile. Ancor più è inevitabile nelle centinaia di stati in cui è frammentata l’autorità politica a livello mondiale (…): superando i confini tra stato e stato il grado di fiducia nelle decisioni dall’autorità politica cala drasticamente. E drasticamente aumenta il grado di coercizione ed egemonia che gli stati più grandi e potenti debbono esercitare se vogliono raggiungere decisioni vincolanti per tutti (…). Così stando le cose, si entra nel campo della Realpolitik, un campo totalmente alieno dalle esortazioni di Francesco» (“Per un capitalismo consapevole”, fondoambiente.it, 23 novembre 2015).

Partendo da problemi di siffatta complessità e da un pensiero – come quello maturato da papa Bergoglio – che può rappresentare certamente una spinta ulteriore a questo cammino di popoli, stati, movimenti e persone – appassionante e coinvolgente – va fortemente auspicata una valorizzazione di tutte le culture e tutte le convinzioni, le fedi e le religioni. Tuttavia, la base di tale percorso dovrebbe essere: la casa è comune e la sua cura è responsabilità comune di tutti.

L’approccio fondamentale dovrebbe essere quello di assumere fino in fondo la visione globale dei problemi ambientali e coinvolgere l’insieme dei cittadini, per ridefinire continuamente il rapporto tra scienza, tecnologie, economia, territori, società e comunità e animando questo coinvolgimento con una permanente educazione all’interazione dei saperi. Da questa angolatura, il pensiero sociale della Chiesa sembra conservare la tradizionale apertura manifestata nei decenni scorsi, sebbene, come si è visto, con il pontificato di Francesco, tale impostazione registri difficoltà e contraddizioni. Solo se queste saranno rapidamente superate, il cattolicesimo potrà continuare ad essere di stimolo ad un confronto su questioni decisive che riguardano il futuro dell’umanità. A patto che tutti (compresa la chiesa di Roma) accettino, fino in fondo, l’invito all’ascolto reciproco, confrontandosi, tutti, con il dovere e il rischio del dialogo fino in fondo. «Siamo persuasi di una fondamentale unità della famiglia umana sulla Terra (…). Facciamo appello ad ogni abitante di questo pianeta. La Terra non può essere cambiata in meglio finché non cambia la consapevolezza degli individui (…). Insieme possiamo spostare le montagne! Senza la disponibilità a correre dei rischi e a fare dei sacrifici, non ci potrà essere alcun sostanziale cambiamento della situazione». Sono le parole di un grande teologo, Hans Kung, promotore e infaticabile lavoratore – in tappe progressive e tutte coinvolgenti degli Organismi internazionali  che non andrebbero disperse – per una “Nuova Etica Globale”. Egli continua: «Sarebbe ridicolo voler mettere un’etica mondiale al posto della Torà, del Discorso della montagna, del Corano, della Bhgavadgita, dei Discorsi di Budda e dei detti di Confucio. L’etica mondiale è un elementare consenso di fondo su alcuni valori vincolanti, criteri irrevocabili e atteggiamenti di fondo personali, affermati da tutte le tradizioni religiose ed etiche dell’umanità» (Scontro di civiltà ed etica globale, Conferenza di Amsterdam, 1996).  In una azione concertata per la cura della casa comune, non possono essere dimenticate le tappe di un percorso di grande interesse: 1) Commissione internazionale sul Governo globale (sicurezza globale – interdipendenza economica – diritto internazionale – riforma dell’ONU) 1995; 2) Commissione mondiale per la Cultura e lo Sviluppo – Our Creative Diversity in collaborazione con ONU e UNESCO – 1995; 3) Dichiarazione dell’InterAction Council – In Search of global Ethical Standard – Vancouver 22 maggio 1996 (Commissione formata da ex presidenti e primi ministri, quali: il tedesco Helmut Schmidt, il canadese Pierre Trudeau, il messicano Miguel de la Madrid). In tutte queste tappe il teologo Hans Kung fu protagonista con il suo pensiero libero e profondo.

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