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PENSARE ROMA. Contributo al dibattito

Chi vive nella Capitale abita territori privi d’identità a cui si può dare un futuro solo aprendo una vera e propria fase costituente per andare al voto, nelle prossime elezioni amministrative, con un nuovo assetto istituzionale

torpignattara

Le trasformazioni avvenute

I cittadini romani scontano da qualche decennio una grave perdita d’identità perché vivono in territori che una volta costituivano una città, denominata Roma, sedimento di una storia plurimillenaria. Ma questa città – intesa come insieme ordinato di funzioni di varia origine e indole, politiche, economiche, sociali, culturali, religiose, amministrative, sanitarie, ecc., riunite in un solo luogo – non esiste più. È stata disintegrata dai cambiamenti avvenuti negli ultimi quarant’anni. E ora a noi che abitiamo questi territori privi d’identità tocca aprire una vera e propria fase costituente e andare al voto, nelle prossime elezioni amministrative, con un nuovo assetto istituzionale. Un terreno più avanzato di iniziativa si apre, dunque, anche per quella parte di società civile che vuole contribuire a rigenerare la città, elaborando nuove idee e formando nuove leve per costruire una vera classe dirigente.

Da tempo non c’è più – e forse nell’area romana non c’è mai stata – una metropoli fordista da organizzare intorno a funzioni specializzate come la catena di montaggio di una grande fabbrica e ad un riequilibrio tra centro e periferie. Quel modello di sviluppo a cui corrisponde uno specifico modello di welfare oggi non è più attuale e si dovrebbe studiare solo in ambito storico. Non c’è più la distinzione netta tra la città formale che costituisce il centro e, poi, una città parallela edificata per lo più in maniera casuale, schizofrenica, difforme, quasi un ammasso confuso come una marmellata. Non c’è più il centro inteso come il luogo della legalità, dell’ordine, della relazionalità e della cultura. E di conseguenza è svanita la periferia percepita come un magma orientato verso il centro per assumerne l’immagine e somigliargli. Non esiste più il centro inteso come la residenza delle classi agiate. E di conseguenza si è dissolta la periferia idealizzata come il luogo dove si affollano le classi subalterne, vogliose di emanciparsi e scardinare il recinto, il confine, la divisione.

Nel 1970 Franco Ferrarotti pubblicò un libro ritenuto dissacrante fin nel titolo: Roma da capitale a periferia. Nel momento in cui si celebrava il centenario della “Breccia di Porta Pia” e la proclamazione della Capitale del nuovo Regno, il libro documentava il deperimento dell’idea e della realtà della Capitale, l’involuzione e lo scivolamento verso una posizione periferica, economicamente emarginata e politicamente, dal punto di vista europeo, insignificante. Non era una dissacrazione. Era un giudizio di fatto, legato ad una stagione cupa, quella di una falsa modernizzazione, di una modernizzazione tradita. Un caso di processo intenso di urbanizzazione senza industrializzazione e di una terziarizzazione spuria di tipo clientelare, usata dai partiti per garantirsi il consenso. Un caso di crescita demografica fortemente alimentata dall’immigrazione del resto del paese, sia come apporto diretto, sia come apporto indiretto dovuto ai figli degli immigrati.

Al 1980 la popolazione residente nata fuori di Roma era 1 milione e 350 mila persone, mentre quella romana per nascita era di 1 milione e 600 mila e tra questa la maggioranza era data da figli di immigrati più o meno recenti. Un disagio enorme si era accumulato nel periodo del boom economico per l’arrivo impetuoso di immigrati senza che la città avesse la possibilità di offrire un lavoro a tutti. Di qui la contraddittorietà e il dinamismo che legarono, in quegli anni cruciali, i quartieri alti di Roma ai ghetti di miseria: tanti ragazzotti che servivano nei bar del centro, tanti “cascherini” delle botteghe, tante donne che facevano la pulizia di notte negli uffici venivano dalle baraccopoli. Anche la burocrazia romana si diversificava: una parte rimaneva legalista e garantista, tendenzialmente conservatrice; l’altra era dinamica e funzionale, autentico braccio esecutivo dei grandi interessi economici dominanti. C’erano immigrati che erano stati contadini scappati dalle campagne ammodernate della riforma agraria e, dunque, non più in grado di dare lavoro a tante braccia. E c’erano immigrati di lusso, collegati con la terziarizzazione della città. Le classi differenziali nelle scuole confermavano duramente e sistematicamente le divisioni classiste, nonostante il carattere di massa assunto dalla scolarizzazione. La miseria e la degradazione urbana crescevano con il crescere a dismisura della città. C’era una funzionalità nel meccanismo di crescita che in quegli anni sfatò il mito di una urbanizzazione di per sé buona e armonica. Era solo la paradossale coesistenza tra sottosviluppo cronico e iper-sviluppo consumistico. All’origine delle baraccopoli romane vi era dunque uno scarto oggettivo fra le esigenze del flusso di immigrati e la capacità della struttura economico- produttiva di farvi fronte. Uno scarto aggravato tragicamente dalla politica dei gruppi economici e politici dominanti che si era risolta in una resa incondizionata allo sviluppo spontaneo della situazione di fatto in base alle convenienze predatorie degli interessi prevalenti.

Né città né campagna

Oggi la situazione non è più questa. La “cintura rossa”, a suo tempo costituita da circa 70 mila operai dell’edilizia, non esiste più. È stata distrutta dalla nuova immigrazione extra-comunitaria e dalle innovazioni tecnologiche e produttive delle grandi imprese edili, che hanno soppiantato e spinto fuori mercato i “palazzinari”, grandi e piccoli, con la divisione del lavoro, la specializzazione delle mansioni produttive, i nuovi materiali e le nuove tecniche del processo produttivo. Il ghetto edile non c’è più. Non ci sono più le baracche dove si dovrebbero trovare gli attrezzi agricoli elementari: oggi vi dormono , un tanto a letto, gli extra-comunitari. Nei quartieri periferici c’è una riduzione significativa di quella che resta la caratteristica fondamentale di tutte le periferie, cioè l’esclusione sociale e la discriminazione classista. Centro e periferie non sono più realtà insanabilmente divise, estranee l’una all’altra, come città e anticittà.

Ogni discorso sulla periferia del futuro non può più partire da un’idea generica di periferia che si contrappone al centro. Questa realtà a Roma non esiste più. Non c’è più campagna e non c’è più città ma un continuum urbano-rurale. Quarant’anni fa, con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti, si ipotizzava, per il 2003, una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti. Roma ha registrato invece una diminuzione della popolazione residente e conta circa due milioni ottocentomila abitanti. Si è verificato un controesodo dal centro verso l’esterno, dentro e fuori il grande raccordo anulare. C’è stato un afflusso di fasce consistenti di ceto medio con redditi medio-alti che ha provocato un abusivismo di lusso e che può vivere e svilupparsi a porta a porta con l’abusivismo dei disperati. Nello stesso tempo, l’intera area metropolitana è diventata meta di un’ulteriore ondata di immigrazione dalle zone più periferiche del paese, nonché dal Sud del mondo, dedita in primo luogo ai lavori nocivi per la salute, scarsamente remunerati e di poco prestigio, rifiutati dai lavoratori indigeni. I nuovi arrivati dalle aree rurali più interne, insieme agli immigrati di altri Paesi, sono andati ad abitare in quelle estese porzioni di territorio in cui – già dagli anni ’70 − convivono permanentemente sia i caratteri tipici dell’urbanità, come la prevalenza dell’edificato sull’open space, che i caratteri tipici delle aree rurali, come la presenza di attività non solo agricole che si collegano al patrimonio culturale e paesaggistico dei luoghi di riferimento. In questi territori si sono addensate negli ultimi quarant’anni non solo le “villettopoli” di famiglie benestanti, ma anche le abitazioni di persone che rifuggivano l’impazzimento delle città e hanno ricercato in nuove attività agricole e rurali una chance per dare un senso alla propria esistenza. A cui si sono aggiunte recentemente le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri. Questi sono attualmente i ceti sociali coinvolti in quel fenomeno descritto per la prima volta nel 1976 da Gerard Bauer e Jean-Michel Roux con un neologismo non troppo elegante ma perspicuo: “rurbanizzazione”, vale a dire la congiunzione di rus, campagna, e urbs, città. Ciò significa che la periferia non è più periferica e che il centro non ha da decentrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte.

Nel nuovo volto assunto dalle comunità-territori, la differenza la fa l’intimità della relazione, la reciprocità, la genuinità dei rapporti tra le persone, indipendentemente se sono fisici o virtuali. È questo il germe di “ruralità” che si è sedimentato nel tempo e oggi lievita, in molteplici forme, stimoli e nuovi bisogni, nelle campagne urbanizzate di Roma. Si producono, pertanto, nuove differenziazioni territoriali che hanno a che fare con il capitale sociale, i livelli e le forme di apprendimento, le relazioni interpersonali, lo scambio tra le persone e i gruppi, il rapporto tra conoscenza tecnico-scientifica e saperi esperienziali, la coerenza tra modello di società e forme della rappresentanza. C’è dappertutto una ricerca spontanea di nuove strade che si manifesta in una pluralità di iniziative che pochissimi studiano e mettono in rete.

 Bisognerebbe riscoprire lo stile del costruire, tipicamente mediterraneo, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. Scrive Carlo Cattaneo: “La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Quando le ignare tribù germaniche videro all’ombra dell’aquile romane edificarsi i ponti, le vie, le mura, e con poco dissimile fatica tramutarsi in vigneti le vergini riviere del Reno e della Mosella, esse abbracciarono tutte quelle opere con un solo nome. Sì, un popolo deve edificare i suoi campi, come le sue città”.

Roma dovrebbe essere ripensata concependo i territori urbani come ecosistemi e come comunità epistemiche che elaborano concezioni condivise dell’alimentazione, della salute, della cultura, della sicurezza, del rapporto da intrattenere con il verde, e “costruiscono-coltivano” filiere produttive, modalità di abitare e forme di mobilità sostenibili. E questo può avvenire perché non è più la capitale che rischia di andare a tramutarsi in periferia. È una periferia che faticosamente, ma caparbiamente, cerca di farsi capitale.

L’immigrazione extra-comunitaria

La prima ondata delle immigrazioni extra-comunitarie, quella degli immigrati che dall’Africa e dal Medio Oriente, dalle Filippine e dallo Sri-Lanka, da soli e con evidente spirito d’avventura e di sacrificio, hanno sfidato le incertezze di paesi stranieri e di nuove, sconosciute culture, si è esaurita da un pezzo. È iniziata da tempo la seconda ondata. Ai pionieri si sono unite le famiglie. Le mogli e i figli richiedono misure più complesse del mero lavoro: non solo l’abitazione, ma la scuola, le cure mediche, e quindi l’ospedale, i luoghi non solo di riunione ma anche di culto.

La prima generazione punta sui mezzi elementari di sopravvivenza, va al sodo, cerca di adattarsi, di dimenticare le radici – ciò che è peraltro impossibile – di cambiare addirittura il nome, come atto di suprema gratitudine al Paese ospitante, anche se poi sovente accade che l’immigrato, rinunciando alla propria cultura, non venga accettato dalla cultura del Paese ospitante, e si trovi così nel limbo di un deserto privo di valori certi, a mezza parete, sospeso fra una cultura e l’altra. I figli, però non tardano a vedere negli atteggiamenti del padre una sorta di tradimento della cultura d’origine, tornano spasmodicamente a ricercare e a rivalutare le proprie radici, scorgono nell’atteggiamento del padre solo un ricatto da parte del paese ricco, un ricatto da lavarsi col sangue e col fuoco.

La seconda e la terza generazione vedono i padri ricattati per fame dal paese ospitante, lamentano la loro cultura originaria nei corsi scolastici, si sentono discriminati nell’abitazione, nel lavoro. Non basta un passaporto o qualsiasi altro documento giuridico a fare un cittadino in senso pieno. Riscoprono le loro antiche radici, la loro lingua, la cultura tradita dai padri. E questo atteggiamento fa emergere i limiti del concetto di integrazione, inteso come assimilazione e omologazione.

Le nuove generazioni di immigrati extracomunitari  aprono esercizi commerciali, promuovono nuove imprese nel comparto ristorativo-alberghiero, rilanciano attività artigianali e mestieri che gli italiani avevano dismesso. C’è un pullulare di imprenditoria migrante nel settore delle start-up. E intorno a queste attività nascono nuovi servizi sociali e finanziari, reti spontanee di mutuo aiuto. In molte realtà sono gli immigrati, più dei connazionali, a costituire la punta innovativa di una riorganizzazione spontanea delle comunità-territorio, in cui nuovi modelli di welfare vengono adattati alla società in trasformazione. Il tutto avviene senza un disegno urbanistico  ma in stretta correlazione coi livelli di accessibilità ai territori.

Lo sviluppo di queste economie costituirebbe un’opportunità formidabile se le comunità-territori guardassero alla globalizzazione con occhi diversi senza rinchiudersi in sé stesse. Bisognerebbe accompagnarle ad acquisire la capacità di auto-rappresentarsi e di costruire la propria immagine. Ma tale capacità presuppone una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territori del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa.

Di qui l’importanza di studiare e conoscere scientificamente i contesti in cui fioriscono le vite delle persone e dei gruppi mediante approcci interdisciplinari e un’attività permanente di ricerca-azione finalizzata a promuovere percorsi partecipativi progettuali per lo sviluppo locale. Le storie di vita, le memorie delle persone e dei beni strumentali, architettonici, archeologici e paesaggistico-ambientali sono elementi indispensabili per fare in modo che gli individui e i gruppi si approprino delle loro radici e di un’identità consapevole e capace di aprirsi ad altre identità.

I contesti vanno vissuti da persone che comprendano i processi e i meccanismi con cui questi si producono. Le comunità-territori contemporanee devono servire prioritariamente a siffatto scopo. Solo con un forte senso di sé e stabilendo regole democratiche condivise per il proprio funzionamento nei percorsi partecipativi dal basso, le comunità-territori possono svolgere una funzione propulsiva, alimentando valori da immettere nelle istituzioni e nel mercato. Per farlo devono essere comunità che non pongono in alternativa l’appartenenza identitaria e l’universalismo dei diritti. L’individualismo si corregge con un nuovo comunitarismo che non mette in discussione i diritti individuali. Altrimenti, coniugandosi in modo distorto con le culture identitarie, l’individualismo porta inevitabilmente alla violenza e alla sopraffazione.

Le nuove povertà

Nelle nascenti comunità-territori di Roma sono presenti anche  nuove forme di povertà. Fino a poco tempo fa, essere povero voleva dire essere disoccupato. Oggi la condizione di povertà coincide con la mancanza di prospettive per superare la povertà stessa, con orizzonti che progressivamente si chiudono sempre di più. Fino a poco tempo fa, la povertà era sentita come un onere collettivo, come un fronte su cui convergeva l’impegno civile e politico. Oggi è sempre più facile che la reazione comune sia invece quella di lasciare solo l’insegnante o l’artigiano che si è impoverito, la madre con un figlio minore dopo la separazione da un coniuge violento, il cinquantenne che ha perso il lavoro e che non è riuscito a integrarsi, l’ex detenuto che non trova un’occupazione perché nessuno lo vuole, l’anziano che non ha la possibilità di mantenere un badante, l’immigrato irregolare. Oggi la reazione prevalente è quella di adottare comportamenti e politiche tesi a difendere i privilegi di chi è integrato nel sistema e ne accetta le regole. In termini di scelte concrete, questo ha comportato la opzione di far arretrare la linea di protezione del welfare, accentuando la solitudine e la marginalizzazione di chi si trova a vivere fuori dagli schemi, sempre più “senza rete”.

Se si vanno a scorrere alcune storie di vita raccolte negli ultimi anni sui marciapiedi di Roma, raramente le nuove povertà sono determinate da un evento traumatico che altera all’improvviso un equilibrio. Spesso si tratta dell’aggravamento complessivo di una condizione individuale o familiare dovuta a fallimenti nelle strategie esistenziali che si cumulano nel tempo. C’è un confine che delimita lo stato di povertà con quello di indigenza e viene definito “linea della povertà”. Chi sta al di sopra ha mezzi sufficienti per vivere degnamente; ma solo in via eccezionale può soddisfare spese straordinarie o consumi non strettamente necessari al sostentamento. Il nuovo povero è colui che vive costantemente con la paura di non farcela e di scendere al di sotto della linea della povertà. L’indigente è, invece, colui che vive in una condizione di bisogno non occasionale, ma continuativo nel tempo. Egli e la sua famiglia devono operare continue transazioni fra beni, pur necessari, ma che non possono essere acquisiti tutti insieme. Al di sotto dell’indigenza, troviamo la miseria. In questo caso, l’espediente diviene il mezzo quotidiano di sussistenza. Le prospettive di vita si restringono drammaticamente. Se ancora c’è, il nucleo familiare va rapidamente verso la disgregazione. La miseria si autoriproduce e diviene una condizione o stile di vita. Ci sono poveri cui non importa di essere poveri. Accettano la povertà. La scelgono come modo di vita. Rinunciano all’Iva e al codice fiscale. Non ricevono bollette né per la luce né per il gas, permesso di circolazione, tanto meno per radio e TV. E da vittime, le persone che versano in una condizione di miseria vengono fatte passare per responsabili. La loro è una condizione “senza rete”, di privazione e di emarginazione, che tanto più colpisce quanto più coincide con la vita per strada, un luogo che invece tutti frequentiamo ogni giorno, pieno di vita, di rumore, di luci, di consumi, di socialità.

La vita per strada è una vita che si svolge al di fuori del sistema e non riesce a comunicare con le reti dei servizi sociali locali. In Italia, per avere assistenza, bisogna richiederla. L’utente potenziale del servizio sociale è considerato un individuo razionale, volterriano, e non un individuo che ha un profondo senso di sé e nasconde la propria condizione perché ne prova vergogna e così non intende avvalersi di un proprio diritto. Quando si oltrepassa la soglia dell’incapacità-riluttanza a provvedere a se stessi si attenta direttamente alla propria vita. Ma non per questo, quell’individuo non ha diritto di essere aiutato. Se è così, allora non si può mettere sullo stesso piano un cittadino che richiede l’allaccio di un’utenza qualsiasi (acqua, elettricità, gas, telefono, ecc.) con un cittadino che invece richiede, quando è in grado di farlo, una prestazione di tipo socio-assistenziale, come se le due tipologie di servizio fossero immediatamente equiparabili. Non si comprende che non esiste più una modalità univoca per definire povertà e bisogno. Riemerge, invece, nella contemporaneità, una categoria propria del mondo rurale che Ernesto De Martino definiva “crisi della presenza”. Essa veniva reintegrata ritualmente attraverso pratiche collettive che ponevano il soggetto al centro di un ambito relazionale concluso e culturalmente condiviso. L’individuo era parte di un tutto. Oggi, a una progressiva individualizzazione, corrisponde un processo di desocializzazione. Solo le pratiche comunitarie sono in grado di offrire alle povertà estreme una gestione collettiva della crisi della presenza.

Per una nuova governance

Se non c’è più la città, spazzata via dalla fine del modello fordista, non ha senso tenersi l’amministrazione capitolina. Eppure alle ultime elezioni amministrative si è continuato ancora ad affermare che lo sviluppo di piccole e medie imprese, delle reti commerciali di vicinato, delle botteghe storiche, dell’artigianato artistico, delle startup innovative possa essere programmato e gestito a livello cittadino. Si è continuato ancora a ritenere che le reti che legano cultura (patrimonio archeologico e artistico diffuso, creatività, ecc.), impresa, turismo, sharing economy, gestione dei beni comuni e degli strumenti della filiera corta legata al cibo si possano costruire a livello metropolitano. Si è continuato a considerare le politiche attive del lavoro e i suoi strumenti operativi come qualcosa da gestire lontano dalle comunità-territori e dagli enti locali di prossimità. Si è continuato a parlare di cultura come elemento strategico in sistemi produttivi competitivi e attrattivi, ritenendo che possa vivere di vita propria all’esterno delle comunità-territori e senza alcun collegamento attivo con esse.

Non si può fare sviluppo locale senza effettivi enti di prossimità e senza affrontare la crisi di fiducia tra le istituzioni – che mettono le risorse e l’indirizzo programmatico, i mezzi e la prospettiva – e la società locale. Pur tra limiti e contraddizioni, le risorse e l’indirizzo programmatico ci sono. Esiste Europa 2030 con gli obiettivi per la lotta ai cambiamenti climatici e per l’energia. Si è appena avviata la programmazione dei fondi strutturali e d’investimento europei 2014-2020. La Regione Lazio ha firmato il patto di leale collaborazione con il governo per 1,4 miliardi di euro per opere pubbliche. Ci sono risorse nazionali che vanno alla progettualità dei territori urbani. È la società locale a non essere pronta.

La società locale va intesa come bene relazionale e capitale sociale, ovvero come interazione stabile e vivificante tra comunità, società civile ed ente locale di prossimità. Se la intendiamo come rete stabile di relazioni che può alimentare cooperazione e fiducia, vediamo che la società locale è l’unica in grado di riaccendere le tensioni al cambiamento e di riorganizzarsi per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo.

Lo sviluppo locale va però inteso come lo intendeva Giorgio Ceriani Sebregondi – di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita – è autosviluppo della società, in tutte le sue dimensioni e articolazioni, capace di autosostenersi in un’economia di mercato aperto. In sostanza, lo sviluppo locale si fonda sulle motivazioni interne alla società e sulla saldatura tra le motivazioni interne e le opportunità offerte dall’esterno. Non è semplicemente crescita economica ma costituisce un salto di civiltà. È, infatti, l’esito della combinazione dei cambiamenti mentali e sociali di una popolazione, che la rendono atta a far crescere in modo cumulativo e permanente il suo prodotto reale globale.  Lo sviluppo locale è, inoltre, l’esito di un incontro costruttivo tra istituzioni e comunità interessate, fondato sulla chiara visione federalista dei rapporti tra i diversi enti che compongono la Repubblica, sulla corretta applicazione del principio di sussidiarietà e sulla creazione di istituti innovativi di democrazia diretta, di natura comunitaria, che promuovano e permettano l’incontro e il dialogo tra istituzioni e società locale (fondazioni di partecipazione, condomini di strada, ecc.).  Sia la sussidiarietà orizzontale (le istituzioni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale), sia la sussidiarietà verticale (le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Città metropolitane, Regioni e Stato) si fondano entrambe sul riconoscimento reciproco – tra i diversi attori sociali e istituzionali dello sviluppo della società – che tutti operino per il bene comune e nell’interesse generale. Ma ciò presuppone che lo status di attore dello sviluppo della società di cui si fa parte implichi non solo il diritto inviolabile ad attivarsi per il bene comune, ma anche il dovere inderogabile di solidarietà e reciprocità nel conseguire l’interesse generale.

Lo sviluppo locale è la condizione irrinunciabile perché ognuno sia messo davvero in condizione di giocare le proprie carte; di avere le stesse opportunità di istruzione, di cura della salute, di comunicazione, di auto-creazione del lavoro, rispetto a chi è nato in contesti migliori. E di partecipare alle pubbliche decisioni come cittadino. Come prescrive l’art. 3 della Costituzionale. Non è una forzatura ritenere che la lotta alle diseguaglianze passa innanzitutto per lo sviluppo locale nella nuova condizione in cui si presenta la contemporaneità: economia della conoscenza e sfide dell’innovazione sociale.

Se lo sviluppo locale è la via da percorrere, bisogna allora lavorare alacremente su tre fronti:

1)  acquisire una chiara e convinta visione federalista e sussidiaria delle relazioni verticali (interistituzioni) e orizzontali (istituzioni/società);

2) favorire una disponibilità a creare istituti innovativi di democrazia diretta di stampo neo-comunitario (dal “condominio di strada” alle fondazioni di partecipazione, dalle cooperative di comunità ai demani civici);

3) riconoscersi reciprocamente e laicamente come soggetti che operano nell’interesse generale, sulla base di regole condivise, superando una dialettica sociale fondata sull’antagonismo e sulla delegittimazione dell’interlocutore.

Bisognerebbe partire da una riprogettazione dei Municipi per farne dei veri e propri enti locali, superando le ambiguità del loro assetto attuale. I cittadini romani hanno dovuto sopportare per anni la beffa di circoscrizioni decentrate del Campidoglio camuffate per autonomie locali inesistenti. Presidenti, assessori e consiglieri municipali eletti ma privi di poteri effettivi: semplice ceto politico – per lo più di scarso livello – sostitutivo di funzioni di intermediazione un tempo esercitate dalle sezioni di partito. Anche questa situazione patologica ha accelerato la crisi politica della città e ha alimentato le degenerazioni mafiose nel rapporto tra politica e società.

Solo Municipi che diventano Comuni potranno, insieme ai Comuni della cintura romana, costituire per via federativa un nuovo ente, Roma Capitale Metropolitana, a cui una legge dello Stato dovrebbe finalmente dare un ordinamento adeguato ad una capitale effettiva e non di facciata. Occorrerebbe allora prefigurare un percorso in tre tappe:

  • conferire ai Municipi di Roma la capacità di autogoverno come Comuni autonomi (dare ai cittadini un centro dove esprimere il proprio protagonismo non pro forma, ma effettivamente; dove trovare l’impulso alle attività economiche e allo sviluppo locale);
  • costruire un “patto federativo costituente” tra i futuri Comuni interni al vecchio perimetro di Roma e i Comuni e le Comunità contigui che interagiscono con essi da diversi versanti (abitativi, occupazionali, infrastrutturali, ambientali, ecc.) e che devono affrontare i medesimi problemi risolvibili solo in una dimensione di “area vasta capitolina e metropolitana”;
  • riconoscere la nuova aggregazione istituzionale con una legge dello Stato che indichi anche l’ordinamento (poteri e competenze proprie di una Capitale).

Mafia capitale ha avuto gioco facile ad infiltrarsi nel tessuto civile, economico, politico ed istituzionale di Roma perché le nostre comunità-territori non hanno una governance. La Città Metropolitana in funzione dal primo gennaio 2015 ha uno statuto che, di fatto, conferma l’assetto della vecchia Provincia. Si è trattato di una vera e propria operazione gattopardesca che rispondeva esclusivamente alla logica di lasciare le cose come stavano e di non rompere gli equilibri di potere consolidati. Si potrebbe ben dire che le mafie questo chiedevano e sono state accontentate. L’importante e storica occasione dello statuto “costituente” è stata sprecata. Adesso tocca ricominciare partendo dalla vera e propria paralisi istituzionale che si è creata, suscitando innanzitutto una consapevolezza nei cittadini che il diritto primordiale di noi tutti è quello dell’autogoverno.

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