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Lo spettro del “papa laico” sulle unioni civili

Il PD farebbe bene a non farsi sfuggire un'occasione per dimostrare che il tempo delle riforme riguarda anche i diritti civili. Bisogna conservare i nervi saldi, mantenere aperto il dialogo fino in fondo con tutti e trasmettere all’opinione pubblica il senso di un impegno che vuole tener conto concretamente di una mutata sensibilità nel Paese verso questi aspetti della vita delle persone. In questo modo i democratici dimostreranno di non guardare nostalgicamente al passato e di voler reinventare una tradizione culturale, fondandola sul dialogo orizzontale e circolare con l'insieme della società

gramsci

Le opinioni espresse da Camillo Ruini, Giuseppe Vacca ed Ernesto Galli della Loggia sulle manifestazioni che si sono svolte in occasione dell’avvio del dibattito parlamentare sulla proposta di legge “Cirinnà”, riguardante le unioni civili, vanno lette in parallelo. Esprimono il pensiero di quegli intellettuali che ancora si riconoscono nelle tradizioni culturali più significative del Novecento, quelle che hanno impresso un particolare carattere alla modernizzazione del nostro Paese. Tali intellettuali, anziché porsi il problema di comprendere le mutazioni socio-culturali, ideali e dei costumi degli italiani, si pongono per principio su posizioni di difesa e conservazione dell’esistente. Alcuni in modo esplicito e diretto. Altri in modo più distaccato, ma sempre pronti ad offrire un sostegno a chi resiste al cambiamento.

Si tratta della tradizione cattolica, di quella marxista-gramsciana e di quella liberale, che nel nostro Paese, hanno tutt’e tre un carattere comune: la contaminazione con l’idealismo crociano. Sono tradizioni storiciste. Per esse la storia ha di per sé poteri automatici, per cui tutti i problemi sono storici e storicamente vengono risolti. Sono culture che non hanno mai accettato l’indagine sociologica come strumento di lettura della realtà. Non partono mai dai fatti concreti, dai problemi grandi o spiccioli che le persone vivono quotidianamente. Non hanno alcuna idea della previsione storica futura perché semplicemente la rinnegano. Come rinnegano le scienze sociali che costituiscono l’unico strumento di autoascolto che una società moderna ha per diventare consapevole di se stessa. Non a caso le élite che si riconoscono in queste culture sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione come truppe di occupazione in terra straniera.

Ruini parla di modernità al plurale e ritiene che tra queste molteplici modernità ci sia una lotta sorda per la conquista dell’egemonia culturale.  Egli crede che tra chi vuole che si garantisca alla coppia omosessuale un trattamento omogeneo a quello previsto per la coppia eterosessuale e chi invece difende l’attuale condizione di discriminazione sia una partita ancora tutta aperta; e che un compromesso si possa raggiungere a condizione che la controparte arretri e rinunci ad alcuni punti essenziali. Il suo schema mentale è la guerra di posizione. Ci sono persone che versano in una condizione di sofferenza? Che importa. Prima vengono i principi intangibili. E poi si vedrà se proprio è necessario.

Vacca ha firmato nel 2012 un manifesto con Mario Tronti, Pietro Barcellona e Paolo Sorbi che esordisce così: “La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia”. Si tratta di un documento con cui i quattro intellettuali marxisti aderiscono alle tesi ratzingeriane circa il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Vacca condivide con Ruini l’esistenza di più modernità e attacca quella che in tutto il mondo lega la sinistra democratica all’affermazione dei diritti individuali, definendola “spontaneista” e “subalterna al nichilismo”. Dice di avere nostalgia delle grandi visioni. E pur essendo ateo, si acconcia a subire il fascino di quella espressa da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI perché rappresenterebbe un grande ancoraggio nell’emergenza antropologica che attanaglierebbe il pianeta.

Della Loggia critica quello che definisce “prescrittivismo giuridicista” adoperato dai sostenitori della legge quando fanno discendere i diritti che essi affermano dalla democrazia liberale, alias “la libertà”. Egli sostiene che le nuove rivendicazioni di diritti civili non avrebbero nulla a che fare coi principi della democrazia e della libertà e dovrebbero essere proposti per quello che sono: come richieste su cui far convergere maggioranze parlamentari, le quali, a loro volta, potranno trasformare tali istanze in normative qualora valutino l’iniziativa legislativa politicamente conveniente per vincere le elezioni. Anche lui condivide con Ruini e Vacca che sulle unioni civili non si stia svolgendo un confronto tra conservatori e progressisti ma semplicemente tra visioni diverse nel guardare taluni aspetti della vita delle persone e delle comunità; visioni che sarebbero, in ogni caso, tutte ancorate agli stessi principi della democrazia liberale e della libertà. E verso cui atteggiarsi con olimpica indifferenza. Egli volutamente dimentica che il disegno di legge all’esame del Senato nasce da una spinta della Corte Costituzionale, che in più riprese ha fortemente invitato il legislatore a porre rimedio a una discriminazione e a una sottrazione di diritti verso le coppie omosessuali. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 138/2010, si è addirittura riservata la possibilità di intervenire – nell’inerzia del legislatore – ad assicurare protezione in specifiche situazioni. I diritti vanno riconosciuti, dice la Corte costituzionale; e con la sentenza n. 170/2014 afferma senza mezzi termini che il legislatore deve intervenire “con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti”.

Della Loggia tace sul fatto che nel luglio 2015 la Corte europea dei diritti umani ha dichiarato con forza che l’Italia deve introdurre il riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso. I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per la violazione dei diritti di tre coppie omosessuali. La Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo, quello sul “diritto al rispetto della vita familiare e privata”. La Corte, inoltre, sottolinea che tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa c’è la tendenza a riconoscere i matrimoni omosessuali, con 24 su 47 Stati che hanno adottato una legislazione in tal senso, e ha ricordato che la Corte Costituzionale italiana ha invitato ripetutamente a creare una protezione legale anche in Italia.

Come fa una coscienza liberale a rimanere indifferente dinanzi a questi autorevoli pronunciamenti di autorità sovranazionali?

Non è una novità. In Italia, da quando si discute di controllo delle nascite, di divorzio, di aborto e di altri temi che investono le scelte individuali di vita delle persone c’è questo precipuo modo di porsi delle principali culture ideologiche del Paese, del tutto impermeabili alle nuove sensibilità. Forse questa refrattarietà si può retrodatare al momento dell’ingresso delle donne nella politica con la conquista dei diritti elettorali. Le resistenze si potettero superare solo quando – a Togliatti e De Gasperi – apparvero chiari i vantaggi che il riconoscimento dei nuovi diritti poteva produrre nel rapporto tra classe dirigente e opinione pubblica.

Ma nel PCI si dovrà attendere l’VIII congresso del 1956 per riconoscere alla lotta per l’emancipazione femminile la stessa importanza della battaglia per la democrazia e per il socialismo con una visione non strettamente paritaria, cioè di mera identificazione con l’uomo, bensì riconoscendo alle donne una specifica condizione sociale. Da allora assumono rilievo nella sinistra la politica dei servizi sociali come strumento di crescita individuale delle donne e problemi come il controllo delle nascite, l’introduzione del divieto di licenziamento per matrimonio, l’abolizione del coefficiente Serpieri in agricoltura, secondo cui l’unità lavorativa femminile valeva il 60% di quella maschile, e la rivendicazione della pensione alle casalinghe che prelude la conquista delle pensioni sociali. Ed è significativo che questa politica riformista delle donne è aspramente attaccata dalla “sinistra” del Pci che la definisce nel migliore dei casi una politica “socialdemocratica”; un epiteto che tra i comunisti non era affatto un complimento.

Fino a quando queste culture sono state in grado di assorbire e controllare aspettative e rivendicazioni delle donne, si sono mostrate aperte e sensibili. Quando invece l’iniziativa delle donne si è spostata su altri piani, come la sessualità, e la ricollocazione del rapporto uomo-donna è diventata una nuova dimensione della politica, queste culture si sono di nuovo chiuse in se stesse. Un conto è affrontare la diversa condizione della donna come mera questione sociale, un altro conto è assumere un’istanza di liberazione. Una tale prospettiva mette in discussione i cardini fondamentali del rapporto tra classe dirigente e opinione pubblica, andando a toccare il nervo scoperto del “potere”.

 Ma, a dispetto delle resistenze frapposte dalle élite, l’idea di liberazione e di affermazione di nuovi diritti individuali si radica comunque nei convincimenti culturali e nel costume degli strati più ampi della società italiana. Non a caso nel 1974 la vittoria del NO al referendum sul divorzio sorprende tutti.

Ora si ritiene a torto che quell’onda lunga abbia esaurito il suo dispiegarsi. A dimostrarlo sarebbe la sconfitta subita al referendum sulla procreazione assistita. Ma si tratta di un errore di valutazione perché i referendum sul divorzio e sull’aborto si svolsero quando già le leggi funzionavano da qualche tempo e dunque era facile esprimere valutazioni concrete sulle norme. È stata, in realtà, una leggerezza raccogliere subito le firme per la consultazione sulla procreazione assistita. Inoltre, per il divorzio e per l’aborto si evitò lo scontro sui principi e non si cedette mai a chi voleva dare un taglio laicista. Alla luce di queste considerazioni appaiono in tutta evidenza i limiti della campagna per il SÌ del 2005.

Il PD farebbe bene a non farsi sfuggire questa occasione per dimostrare che il tempo delle riforme, apertosi con il governo Renzi, riguarda anche i diritti civili. Bisogna conservare i nervi saldi,  mantenere aperto il dialogo fino in fondo con tutti e trasmettere all’opinione pubblica il senso di un impegno che vuole tener conto concretamente di una mutata sensibilità nel Paese verso questi aspetti della vita delle persone. In questo modo i democratici dimostreranno di non guardare nostalgicamente al passato e di voler reinventare una tradizione culturale, fondandola sul dialogo orizzontale e circolare con l’insieme della società. Cosa che le élite del Novecento non hanno mai saputo fare perché non era nelle corde, non solo dei papi, bensì anche del “papa laico”, come una volta Antonio Gramsci, incautamente, ebbe a definire Croce.

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