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Le ragioni del NO

Al Referendum costituzionale del 20 settembre 2020 voterò NO alla riduzione del numero dei parlamentari essenzialmente per tre ragioni

Camera

La prima ragione del NO riguarda l’obiettivo della legge costituzionale che viene sottoposta a referendum.

Si tratta, infatti, di conseguire un puro e semplice “taglio lineare” ai numeri della rappresentanza politica. Una revisione così circoscritta (“chirurgica” è stata definita) non ci dice nulla di un qualche disegno complessivo che i proponenti intendono perseguire. Del resto, nessuna forza politica ha nel suo programma una proposta aggiornata di riforma del Parlamento che riguardi il bicameralismo paritario e il rapporto voto-rappresentanza-partiti.

Dunque, quando alcuni sostenitori del SÌ affermano che questa legge è solo un piccolo tassello in vista di ulteriori e condivise riforme costituzionali, stanno chiedendo agli elettori di firmare una cambiale in bianco. Nessuno sa cosa questo “taglio” vorrebbe precedere o anticipare.

Già per questo motivo la legge va bocciata.

Ma c’è di più! Anziché preludere al superamento del bicameralismo paritario, questa legge lo stabilizza e lo irrigidisce ulteriormente. E dunque una eventuale e malaugurata affermazione del SÌ avrebbe il significato di una legittimazione popolare del bicameralismo paritario, che è il difetto principale da correggere.

In questo senso ci troviamo dinanzi ad una legge non solo inutile e incompleta, ma anche pericolosa. Nel senso cioè che, una volta confermata dagli elettori, difficilmente si potrà ritoccare per introdurre una vera e propria riforma del Parlamento.

La seconda ragione del NO è che la riduzione del numero dei parlamentari non contribuirebbe affatto ad un più ordinato esercizio della funzione rappresentativa che ciascun parlamentare dovrebbe svolgere.

Anzi, dovendo operare in un Parlamento a numeri ridotti, egli avrebbe difficoltà anche nella sua semplice gestione quotidiana delle funzioni.

La riduzione del numero dei rappresentanti poteva anche avere un senso nella precedente società industriale, quando la rappresentanza era organizzata dai partiti con le peculiari forme di socialità e le modalità proprie di quella fase tecnologica.

La rivoluzione digitale ha, nel frattempo, accresciuto enormemente le richieste, le attese, le esigenze di cui noi cittadini investiamo l’ordinamento democratico.

I social hanno aumentato in maniera vertiginosa le nostre facoltà individuali, hanno spinto in avanti le nostre soggettività, hanno ridefinito le nostre relazioni con il mondo. E perciò ci hanno reso esigenti come mai eravamo stati rispetto alla politica. Non solo, abbiamo anche incominciato ad indirizzare verso la politica sempre nuove domande di riconoscimento.

La completa trasformazione delle forme di socialità e delle tecniche con cui ci relazioniamo con il mondo esige, dunque, un mutamento altrettanto radicale anche nelle istituzioni della politica.

Le attività con cui gli eletti dovranno esplicare le funzioni di rappresentanza, si moltiplicheranno e si personalizzeranno con ciascun rappresentato. E sarà proprio da tale evoluzione che nasceranno le nuove forme organizzative della politica destinate a sostituire i vecchi partiti.

I partiti digitali hanno avuto una fase iniziale di forte espansione ed ora stanno attraversando una fase di difficoltà. E questo per diversi motivi. Tra quelli più importanti ce ne sono due: 1) il potere assoluto delle élite dirigenti che non riconosce alcuna sovranità agli iscritti e ai sostenitori; 2) l’illusione che le piattaforme online possano sostituire il radicamento nel territorio.

Da questa riflessione emergono due problemi: 1) l’esigenza di disciplinare la democrazia interna e la trasparenza dei partiti ai sensi dell’art. 49 della Costituzione; 2) la necessità di garantire ai collegi e alle circoscrizioni elettorali quelle dimensioni minime che permettano una piena e continuativa interazione tra eletti e cittadini.

Pertanto, il “taglio” dei parlamentari ridurrebbe le concrete possibilità di adeguare al nuovo contesto tecnologico la relazione tra funzione di rappresentanza e crescente soggettività politica di quei cittadini che sempre più rivendicano un riconoscimento pubblico del proprio attivismo.

La terza ragione del NO riguarda l’argomento del risparmio dei costi della politica, con cui solitamente viene giustificato il “taglio” dei parlamentari.

Ebbene, tale argomento è innanzitutto demagogico in ragione dei limitati risparmi. Ma è anche fortemente inadeguato a rispondere ad un più che giustificato atteggiamento di ripulsa nei confronti di meccanismi della rappresentanza del tutto obsoleti.

Meno seggi non significa automaticamente migliore rappresentanza, ma sicuramente meno rappresentanza. E questo soprattutto nelle aree interne del Paese, dove il fenomeno dello svuotamento demografico è figlio anche della sindrome della delegittimazione democratica.

Nel favorire questo moto di delegittimazione della rappresentanza, sicuramente ha un peso la qualità del ceto politico. Ma incide notevolmente anche l’impotenza delle attuali forme della politica nel rappresentare in Parlamento le istanze di questi territori.

Nessuno vuole vivere in luoghi dove, accanto a tanti svantaggi, c’è anche un deficit di democrazia. E il “taglio” dei parlamentari contribuirebbe ad accrescere la crisi demografica del nostro Appennino. Mentre garantire un numero sufficiente di rappresentanti nelle aree interne è sicuramente un investimento per un loro rilancio.

Queste sono le ragioni che mi spingono a votare NO in occasione del Referendum costituzionale del 20 settembre prossimo.

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