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La solidarietà non basta più senza la fraternità civile

La fraternità deve irrompere nelle relazioni umane e motivare ogni scambio tra le persone, al di là del tornaconto personale e del mutuo vantaggio, se vogliamo mercati autenticamente e pienamente umani, crescita economica e benessere sociale

fratelli

Per un lungo periodo abbiamo ritenuto sufficiente mantenere vivo un atteggiamento solidale, cioè di attiva e gratuita attenzione al disagio di chi ha bisogno di un aiuto. Dovremmo prendere atto che la solidarietà non basta più per migliorare l’esistenza delle persone e creare buona vita.

Quando i rivoluzionari francesi annunciarono il trittico del loro nuovo umanesimo (liberté, egalité, fraternité) ci volevano dire più cose. Innanzitutto che quei tre principi dovevano essere coniugati insieme e che quindi non si poteva accettare una fraternità senza libertà e senza eguaglianza. Al tempo stesso ci volevano dire una cosa che abbiamo presto, troppo presto, dimenticato nella modernità: che non si poteva e doveva concepire una società libera e di eguali senza fraternità.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789  sancisce all’articolo 1 che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e all’articolo 4 che “l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti”.

Ma la libertà di ciascuno di noi non è solo limitata da quella altrui, è anche costruita grazie a quella degli altri. Per essere libero di vivere devo poter comprare del pane e mi serve anche un panettiere che lo produca. Questa evidenza, troppo trascurata, s’impone ancora in modo più impellente con la globalizzazione e con la crescita dell’interdipendenza degli uomini in un pianeta di dimensioni limitate. E poiché la libertà di ognuno si costruisce grazie a quella altrui, ogni persona deve partecipare alla costruzione della libertà degli altri (Kourilsky P.,2012).

Se si accetta sul piano etico l’esistenza di un legame inscindibile tra diritti e doveri, si può ritenere che il diritto alle libertà individuali ha come corrispettivo il dovere di fraternità, cioè l’attenzione consapevole di un individuo nei confronti delle libertà individuali dell’altro, con l’intenzione altrettanto consapevole di difenderle e accrescerle. In tale ottica, la fraternità si potrebbe definire come il dovere della libertà.

Sia le libertà individuali che la fraternità acquisiscono il loro pieno valore e la loro piena utilità solo se associati ad una introspezione personale da parte dell’individuo. Con la riflessione l’individuo autodetermina, in modo pragmatico, sia i limiti delle proprie libertà individuali che i limiti del dovere di fraternità che gli è proprio, bilanciandoli.

Da tale equilibrio nasce la responsabilità, la cui natura ed entità ciascun individuo autodetermina liberamente, confrontandole coi punti di vista degli altri. E dal confronto continuo e sistematico tra le persone e i gruppi sulla natura e l’entità della responsabilità che gli individui assumono personalmente scaturisce un probabile sistema di riduzione delle ingiustizie e delle disuguaglianze in modo pragmatico, cioè fondato sull’analisi delle situazioni di fatto.

Il dovere di fraternità è, dunque, accompagnato sempre da un percorso razionale di introspezione individuale e collettivo e – senza necessariamente attendersi atti di reciprocità e senza far leva sui sentimenti e sulle emozioni – produce beni relazionali, responsabilità individuale e giustizia sociale.

Gli equivoci della fraternità

La cultura contemporanea tende ad ignorare la fraternità: non solo non l’associa alla categoria di virtù ma la considera del tutto estranea al mondo dell’economia e del mercato. Tra le cause profonde di tale rimozione andrebbero approfondite quelle che attengono agli elementi di ambiguità e contraddizione che il concetto di fraternità ha espresso storicamente.

Volutamente non si fa qui riferimento alla dimensione religiosa della fraternità introdotta dal cristianesimo, in quanto, a ragione della sua particolare complessità, esula dall’economia del presente scritto. Tale dimensione si è manifestata solo potenzialmente aperta e includente ogni uomo e ogni donna perché, in realtà, l’incarnazione storica, politica e civile del cristianesimo è rimasta molto simile alle forme gerarchico-sacrali pre-cristiane e non si è alimentata della novità evangelica.

La letteratura femminista ha dimostrato in modo abbastanza plausibile che la fraternità scaturita dalla Rivoluzione francese fosse una solidarietà maschile per tenere sotto scacco l’altro sesso. Non a caso, mentre l’opera A Vindication of the Rights of Man di Mary Wollstonecraft venne accolta con grande favore dagli intellettuali (maschi) suoi contemporanei, lo scritto successivo A Vindication of the Rights of Woman (1792) venne invece preso come un’eccentricità inaccettabile. La scrittrice aveva, infatti, sfidato una definizione del contratto sociale in cui gli “uguali” erano solo gli esseri umani di sesso maschile.

Un destino simile toccò ad Olympia de Gouges quando pubblicò Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791). In sostanza, il termine fraternité dei rivoluzionari francesi era riservato ai maschi; e ciò non solo dal punto di vista linguistico, mancando ogni riferimento alla sorellanza, bensì soprattutto politico (Pateman C., 1988).

Ma c’era di più. Quella fraternità non era riferita neppure a tutti i maschi ma a quelli che appartenevano ad una determinata nazione o classe sociale: era una fraternità particolaristica, concepita come legame di appartenenza ad una parte della società contro un’altra parte che andava combattuta ed eliminata. E a lungo, in molti Paesi, si è riferita ai possidenti, agli istruiti, agli appartenenti ad una data etnia con un determinato colore della pelle. Una condizione che produceva un approccio particolaristico, uguale e contrario, al concetto di fraternità da parte di coloro che non erano possidenti, istruiti o appartenenti al gruppo etnico politicamente dominante.

E’ forse per questi limiti di fondo che il principio di fraternità, un termine equivoco e pericoloso,  non ha avuto un’adeguata attenzione nella teoria democratica e in quella economica.

La fraternità nella teoria della giustizia

La teoria democratica e quella economica si fondano sull’idea di mutuo vantaggio che rende razionale per una persona impegnarsi mutuamente in un contratto sociale con determinate regole del gioco.

John Rawls ha considerato la fraternità nella sua opera principale Una teoria della giustizia ma associandola al suo secondo principio di giustizia o “principio di differenza”, che è una regola di razionalità individuale: è razionale prevedere per l’ultimo della società il miglior trattamento (misurato in termini di beni primari) perché, una volta caduto il “velo d’ignoranza”, quell’ultimo potrei essere proprio io (Rawls J., 1991).

Rawls scrive: “Il principio di differenza offre un’interpretazione del principio di fraternità. In rapporto al principio di libertà e di eguaglianza, l’idea di fraternità ha avuto un posto minore nella teoria democratica. E’ ritenuto essere un principio meno specificatamente politico, non definendo nessuno dei diritti democratici, ma piuttosto alcuni atteggiamenti mentali e forme di condotta senza i quali perderemmo di vista i valori espressi da quei diritti. (…) Il principio di differenza, però, sembra corrispondere ad un naturale significato di fraternità: cioè l’idea di non voler desiderare maggiori vantaggi tranne che ciò sia a beneficio di coloro che stanno peggio”.

Il filosofo affronta, tuttavia, il tema della fraternità ancora nell’alveo del mutuo vantaggio. Secondo il principio di differenza di Rawls le disuguaglianze sociali sono giustificate se danno il massimo vantaggio ai membri meno avvantaggiati della società (detto anche principio del “maximin”).  Usando le sue parole, “le ineguaglianze sociali ed economiche vanno  governate per far sì che esse procurino il maggiore beneficio atteso per chi è più svantaggiato”.

Come si può notare, l’idea di fraternità non ci ritorna come “bene di legame”, come un nuovo modo di intendere una “comunità di destino” di persone libere ed eguali, come dovere complementare dei diritti individuali che la persona assolve senza attendersi un atto di reciprocità.

Una visione del mercato come spazio di scambi economici non mossi esclusivamente dall’interesse personale e dal mutuo vantaggio era già stata concepita dall’Illuminismo napoletano e, in particolare, da Antonio Genovesi che affermava una tesi di sorprendente attualità: lo spirito del commercio produce pace e benessere quando è espressione di socialità, creatività, innovazione e di virtù sociali come il mutuo aiuto e la fraternità; diventa invece “gran fonte delle guerre” quando si allea con lo spirito dell’avidità e con quello di potere che produce la volontà di dominio e di sopraffazione dei popoli (Bruni L., 2012).

Secondo questa visione l’homo oeconomicus è molto più complicato di un semplice massimizzatore di interessi personali, e le norme sociali, i sentimenti, le emozioni, le credenze entrano pesantemente in gioco nelle scelte, anche quelle più puramente economiche.

Per il filosofo ed economista napoletano il mercato non è un gioco a somma zero, come il poker o la guerra, cioè interazioni sociali dove le vincite alla fine del gioco debbono essere uguali alle perdite. Il mercato è vita, non solo è mutuo vantaggio e reciprocità ma è mutua assistenza; e gli esseri umani prima che cercare interessi e guadagni, sono cercatori di stima, di approvazione sociale, di relazioni. Se il mercato è fondato sul mutuo aiuto, allora sì che è possibile leggerlo come un brano di vita in comune, come un momento della società civile.

Tuttavia, è con Amartya Sen che il mutuo vantaggio viene esplicitamente ritenuto non sufficiente per promuovere una società più giusta. Nella sua opera L’idea di giustizia, il premio Nobel per l’economia parte da una critica puntuale al filone del pensiero illuminista che pone al centro della riflessione politica ed etica il contratto sociale (Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e, in epoca contemporanea, Rawls) e la cui massima ambizione è definire il modo e i contenuti di accordi perfettamente giusti, anziché chiarire come le diverse pratiche di giustizia debbano essere confrontate e valutate (Sen A. 2010).

A questa “prospettiva trascendentale”, Sen contrappone la propria idea di giustizia, che prende le mosse dall’altro filone della tradizione illuminista (rappresentato, sia pur con diversi accenti, da Smith, Condorcet, Bentham, Mill e Marx), centrato sulle strutture sociali esistenti e sulla discussione pubblica condotta all’insegna della razionalità come strumento privilegiato per la riduzione delle più palesi ingiustizie.

Per Sen la domanda più importante è la seguente: “Come è possibile promuovere la giustizia?”, e non invece: “Come si presenterebbero delle istituzioni perfettamente giuste?”. E nel ricercare le modalità concrete per promuovere la giustizia, lo studioso analizza le varie caratteristiche che un’idea di giustizia dovrebbe avere.

L’idea di “prossimità” nella parabola del samaritano

Per fuoriuscire dalla dimensione nazionale e affrontare i problemi della giustizia nella dimensione globale, Sen riflette sulla necessità di una diversa idea di prossimità, che sia imparziale e non legata al “vicino”.

Si tratta, infatti, di superare l’idea di mutuo vantaggio, che non spiega molte azioni che le persone compiono. Noi siamo legati gli uni agli altri da tanti fattori: la letteratura, la musica, le arti, il teatro, la religione, le cure sanitarie, la politica, l’informazione e altro ancora. E tali elementi legano le persone ovunque esse si trovino nel mondo senza che vi sia necessariamente una strumentalità nella relazione.

Sia l’idea di equità che quella di imparzialità hanno bisogno di una nuova idea di prossimità non legata alla vicinanza geografica. Ed è in questo ambito che Sen prende come testo di riferimento – da un versante prettamente filosofico – la parabola evangelica del samaritano per fondare un’idea di prossimità nella teoria democratica.

Normalmente la prossimità – come del resto la fraternità – è stata intesa come prossimità geografica, etnica, affettiva, culturale: si deve amare il nostro prossimo, e  quindi si ama di più il prossimo rispetto al meno prossimo. Ma questa idea di prossimità cozza  con il bisogno di imparzialità e universalità necessaria ad una corretta visione della giustizia, che deve estendersi ben oltre i confini geografici, etnici, di vicinato.

Nel racconto evangelico il prossimo dell’uomo imbattutosi nei briganti sarà alla fine il samaritano, e non il levita o il sacerdote, due persone espressioni di prossimità legate alla vicinanza, alla religione, all’etnia. Il samaritano diventa prossimo, per Gesù, perché si prende cura di quell’uomo vittima, e quel samaritano è un prossimo nuovo poiché va oltre tutte le altre classiche prossimità (i samaritani erano un popolo diverso e nemico di Israele), oltre ovviamente l’idea di mutuo vantaggio.

Gesù chiede allo scriba di rispondere su chi fosse stato in quel contesto il prossimo dell’uomo ferito, e questi risponde: colui che lo ha aiutato.  E quello era esattamente ciò che Gesù voleva dire. Il dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi.

Tranne alcuni autori (Giordani I., 1966), la maggior parte dei commenti al samaritano del Vangelo di Luca trae dalla parabola una generica indicazione morale per la sollecitudine universale, senza soffermarsi sulla critica che questa esprime alla prossimità circoscritta, che è il cuore del racconto.

Addirittura, nella teoria economica, la parabola è stata strumentalizzata per affermare concetti del tutto opposti, come il “Dilemma del samaritano”, teoria elaborata da James Buchanan, con cui si sostiene che il modo migliore per aiutare chi ha bisogno è la mutua indifferenza. Solo l’aiuto indiretto della filantropia e dello Stato sociale sarebbe efficace, mentre quello diretto e personale del cittadino produrrebbe effetti perversi per il bene comune.

Probabilmente anche all’uso improprio della metafora fatta nella scienza economica ha voluto rispondere l’economista Sen nel ripristinare la corretta lettura del samaritano di Luca.

Non una fraternità generica ma civile

La prossimità è dunque relazionalità non strumentale e aperta alla gratuità; essa dischiude nuove virtù, a partire dalla fraternità civile, intesa cioè in senso universale ed equo (non particolaristico) e in ogni ambito della vita delle persone.

La fraternità civile è un bene che nasce e si alimenta nella società civile e costituisce il presupposto per il corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche e del mercato a salvaguardia di una democrazia liberale e non dispotica.

Perché la fraternità diventi una vera e propria categoria civile – che possa cioè comprendere tutte le attività umane e dunque anche le relazioni economiche – occorre, tuttavia, non solo superare la visione degli antichi che assimilavano la fraternità ai legami di sangue e di suolo, ma andare oltre la stessa visione giacobina che connetteva la fraternità alla dimensione nazionale e in generale ad una visione non universalistica.

La fraternità non è solo quella naturale o di sangue; non è nemmeno solo quella politica che abbraccia la sfera della rappresentanza, da una parte, e del governo, dall’altra; è anche civile.

La fraternità civile – intesa come sfera del dono e della gratuità e come dovere della libertà – non va, tuttavia, tenuta separata dal mercato – inteso come ambito del mutuo vantaggio e del contratto – se si vuole una relazione di mercato, al tempo stesso, mutuamente vantaggiosa e genuinamente sociale.

A ben vedere, tale esito permette anche di affrontare in modo più adeguato il problema del rapporto tra Stato e mercato. Quanto più complessa è la società, tanto meno pesante dovrebbe essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche: sia quella dello Stato che quella delle transazioni monetarie, anonime e strumentali. Si tratta di ridare spazio alla mano fraternizzante delle relazioni di reciprocità e gratuità e di produrre una decrescita della sfera politica e di quella economica.

La funzione della sfera politica (Stato) e di quella economica (mercato) erano (dovevano essere) preminenti quando lo scambio economico era concepito ideologicamente, sia nella versione liberale che in quella socialista e quella cattolica, come spazio dove vigeva necessariamente la legge del più forte e dove il movente era racchiuso esclusivamente nell’interesse personale e nel mutuo vantaggio, non riconoscendo il valore positivo di esperienze comunitarie autoalimentate dalla società civile.

Ma se la convivenza umana e tutte le forme di scambio tra le persone si giovano della fraternità civile, non è più necessaria, per conseguire una buona vita, una preminenza della politica e delle istituzioni pubbliche. Ovviamente affermare che la politica e la sfera pubblica non debbano essere considerate preminenti non significa affatto negare che le loro funzioni restino insostituibili.

Nelle grandi ideologie dell’Ottocento e del Novecento la fraternità aveva una reputazione marginale non solo per i suoi connotati di equivocità e pericolosità, ma anche perché la vita sociale veniva inquadrata nella dialettica tra lo Stato interventista e un mercato necessariamente spinto dall’interesse utilitaristico. E in tale contesto il convincimento più diffuso è stato, pertanto, che alle necessità delle persone avrebbero dovuto provvedere le politiche pubbliche di solidarietà.

La solidarietà nella Costituzione

La parola “solidarietà” è contenuta nell’articolo 2 della Costituzione italiana che recita: “La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

In questo articolo sono riconosciuti i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. E nel medesimo articolo sono prescritti i doveri di solidarietà, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile.

Nell’Assemblea costituente, l’aggiunta del correlativo concetto, accanto ai diritti inviolabili dell’uomo, dei doveri inderogabili di solidarietà, è dovuta al presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, il quale disse: “I proponenti hanno aderito alla mia tenace insistenza perché in questo articolo si mettano insieme, come lati inscindibili, come due aspetti dei quali uno non può sceverare dall’altro, i diritti e i doveri. Concetto tipicamente mazziniano, che si era già affacciato nella Rivoluzione francese e ormai è accolto da tutti, è ormai assiomatico” (Falzone F., Palermo F., Cosentino F., 1991).

La collocazione del principio di solidarietà in tale contesto non è privo di significato. Esso è inserito in connessione con il principio personalista: lo sviluppo di ogni singola persona è il fine ultimo dell’organizzazione sociale. E tuttavia l’attuazione di tale principio va ottenuta non solo mediante i diritti dell’individuo, considerato in quanto singola persona o formazione sociale, ma anche mediante i doveri di solidarietà, dei quali la Repubblica… richiede l’adempimento. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.

Va, inoltre, considerata la qualificazione che connota la solidarietà nella Costituzione. Non è solo politica e sociale ma anche economica. E anche questa caratterizzazione non è priva di conseguenze nell’assetto sociale del Paese. Nell’economia di mercato, qual è quella esistente in Italia, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale.

Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile al “principio di restituzione” o “principio filantropico”, che vige negli Stati Uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza.

In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va conseguito mediante ordinamenti e regole. L’idea che la sorregge è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società (istituzioni, società civile e singoli cittadini) rispettare e sostenere tali diritti.

Concretamente, nel secondo Dopoguerra, i doveri di solidarietà sono stati assunti completamente nelle politiche pubbliche attraverso molteplici forme, ma sempre in una logica statalista:

1) i pubblici poteri che si fanno essi stessi produttori di beni e servizi mediante attività economiche non dissimili da quelle dei privati (partecipazioni statali, nazionalizzazioni, consorzi bancari, ecc.); 2) le riforme socio-economiche come l’agricoltura, l’istruzione e la sanità che sono gestite essenzialmente da enti pubblici (enti di riforma, aziende sanitarie locali, distretti scolastici, ecc.);

3) i servizi sociali che vengono pensati di tipo centralistico e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri;

4) il riequilibrio territoriale che viene affidato alla Cassa per il Mezzogiorno;

5) il regionalismo che viene attuato come articolazione dello Stato unitario per ridistribuire le provvidenze pubbliche.

Fino al 1992 il 51 per cento dell’industria manifatturiera e il 61 per cento del settore bancario e assicurativo erano statali. La solidarietà era garantita dall’economia mista in cui il settore pubblico era prevalente. Il welfare è stato pensato di tipo risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri. Per sopperire alla carenza di mercato lo Stato avrebbe dovuto provvedere alle necessità dei cittadini decidendo centralmente gli interventi. La Cassa per il Mezzogiorno e gli enti di riforma agraria erano le agenzie per redistribuire la terra, costruire le grandi opere infrastrutturali e promuovere l’industrializzazione nelle aree con difficoltà di sviluppo. Le stesse Regioni erano ideate come articolazioni dello Stato centrale per redistribuire provvidenze pubbliche.

A questo disegno centralistico e burocratizzato sono state purtroppo sacrificate, negli anni Cinquanta e Sessanta, tutte quelle esperienze di sviluppo dal basso, promosse da personalità come Adriano Olivetti, Manlio Rossi-Doria, Giorgio Ceriani Segrebondi, Danilo Dolci, che si richiamavano all’approccio dello studio di comunità e che si fondavano sulla valorizzazione di competenze plurime (economisti, antropologhi, sociologi, urbanisti, statistici, educatori, medici, ecc.) e sul coinvolgimento della società civile locale (Gemelli G., 2003).

Nonostante questi gravi limiti, si è trattato dell’esperimento di economia mista (pubblico-privata), tra i più estesi del mondo occidentale, che all’indomani della guerra ha permesso una rapida ricostruzione del Paese e un principio – benché parziale – di modernizzazione delle sue strutture fondamentali.

Ma la commistione pubblico-privata ha fatto sì che a partire dagli anni Settanta tale sistema si è avviato verso un’inarrestabile degenerazione, i cui segni più evidenti sono stati la crisi del sistema politico e i livelli vertiginosi raggiunti dal debito pubblico. E ciò ha richiesto interventi energici volti a separare l’economia dall’autorità pubblica.

Con la globalizzazione, la costruzione dell’Unione europea, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato i doveri di solidarietà si sono frantumate e non ci sono più le condizioni per ripristinarle.

La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico e tale stato di cose si è adesso aggravato con la recente crisi economica e finanziaria.

La crisi e il welfare

All’origine della crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo ci sono due grandi faglie: le forti disuguaglianze sociali e gli squilibri tra le diverse aree del mondo. La prima è stata prodotta dal pensiero neoconservatore che ha inteso replicare alla crisi del modello socialdemocratico con il paradigma delle disuguaglianze. La seconda è il derivato dei nuovi rapporti che si sono stabiliti nella globalizzazione e, in particolare, nel mondo “postamericano”, segnato dalla crescita degli altri, di quelli che non sono America e Occidente.

La crisi ha fatto emergere anche un altro elemento essenziale: la strutturale mancanza di chiarezza riguardo al rapporto che deve intercorrere tra creditori e debitori; ossia, per essere più precisi e concreti, fra chi deve prestare i soldi e chi deve spendere i soldi prestati; cioè, in ultima analisi, tra finanza ed economia reale. E questa incomprensione teorica e pratica dipende da una concezione distorta della finanza affermatasi con la nascita del capitalismo e degli Stati nazionali: la rappresentazione della moneta e del credito come merci.

Per uscire dalla crisi si dovrebbe, pertanto, riformare anche l’assetto del sistema finanziario in modo tale che non si faccia più mercato della moneta e del credito e le relazioni fra debitori e creditori siano costruite per giungere a fine nel pagamento, lasciando spazio alla produzione e alla circolazione delle merci. Si tratta, in sostanza, di ristabilire il significato etimologico del termine finanza, che deriva dalle voci francesi finer (pagare alla fine) e fin (fine). Insomma una finanza che possa essere davvero a servizio dell’economia di mercato.

Alcune proposte per una riforma del sistema finanziario sono da tempo sul tavolo, come ad esempio l’idea di tassare le transazioni finanziarie. Gli economisti più avveduti, dopo lo scoppio della crisi mondiale, hanno contribuito a dissolvere le critiche che in passato erano state mosse a questa proposta. (Vedi l’appello dei 1000 economisti mondiali: http://www.guardian.co.uk/business/2011/apr/13/robin-hood-tax-economists-letter).

Altri studiosi hanno rilanciato l’idea di costituire un sistema di clearing per i commerci internazionali, sulla scorta dei principi enunciati da John Maynard Keynes a Bretton Woods nel 1944 e che in quell’occasione non furono presi in considerazione (Amato M., Fantacci L., 2009).

Insomma, le proposte per attuare riforme che possano aggredire le cause della crisi in profondità e attuare una cura efficace del male che ci affligge ci sono. Ma le spinte a mantenere lo stato di cose esistente sono potenti e la politica appare in grave difficoltà a creare senso comune intorno ad una prospettiva di reale cambiamento.

Finora si sono individuate soltanto soluzioni tecnocratiche di breve respiro utili a posporre i problemi  e non ad eliminarli alla radice. Le pezze alla crisi diventano la causa di nuove bolle, innescando le condizioni per successive crisi. E’ quello che avviene da quando scoppiò la crisi del 1929. Non avendo risolto alla radice il problema, oggi la grande crisi si è ripresentata in dimensioni ancora più ampie di quella di 80 anni fa.

Sicché i debiti privati divenuti insostenibili sono stati trasformati in debiti pubblici che a loro volta sono diventati insostenibili. Con la conseguenza estremamente pericolosa ed iniqua che la finanza si è ripresa, gli Stati si sono indeboliti e coloro che dovrebbero fare le riforme sono sotto scacco da parte di coloro che le riforme dovrebbero subirle. E’ come se un benefattore facesse una gigantesca trasfusione di sangue ad un malato in fin di vita per salvarlo, e questo poi, per tutta riconoscenza, si rivoltasse contro il suo salvatore indebolito dalla trasfusione e lo pugnalasse.

Com’è avvenuto già in passato, il sistema economico e finanziario tenderà in ogni caso ad assestarsi e a trovare un suo “instabile” equilibrio. Ma la nuova situazione sarà il frutto di un opaco compromesso tra politica e finanza e non l’esito di un disegno trasparente e condiviso democraticamente. La tendenza è, infatti, quella di continuare a nascondere le cause strutturali della crisi e a impedire che si formi una consapevolezza sul cambiamento culturale che sarebbe necessario produrre per uscirne.

Nell’opacità di tale processo si colloca anche l’evoluzione del modello di welfare. Il modello attuale era stato costruito nell’ambito di un rapporto tra Stati e sistema finanziario che prevedeva la possibilità di un indebitamento pubblico illimitato. Ma con la crisi fiscale  questa situazione si è modificata dagli anni Settanta in poi in modo irreversibile. Ora il Fiscal Compact definito a Bruxelles tra i Paesi dell’Unione Europea ci ha indotto a scrivere nella Costituzione l’obbligo di pareggiare i conti pubblici.

In futuro il welfare dovrà, pertanto, fare i conti con le effettive disponibilità degli Stati e tali disponibilità dipenderanno in gran misura dal rapporto che si stabilirà tra il potere politico e il potere finanziario. Comunque vada a finire la partita, il tempo delle vacche grasse e della spesa pubblica illimitata resterà definitivamente alle nostre spalle e bisognerà pensare necessariamente ad un welfare sostenibile.

Quel che resta delle vecchie politiche di solidarietà

Con la caduta del Muro di Berlino e la creazione della zona euro l’Italia si è vista costretta a disfarsi dell’economia mista edificata nel Dopoguerra, il vecchio modello di welfare si è disgregato totalmente e all’assetto regionalista è subentrato quello federalista che ha indebolito la funzione solidale dello Stato.

Sicché, anche una buona legge come la 328/2000 sull’organizzazione territoriale dei servizi sociali è rimasta sulla carta e il principio di sussidiarietà orizzontale, che nel 2001 è entrato finalmente nella riforma del Titolo V della Costituzione, non si è potuto applicare.

Se non si ridisegna complessivamente il welfare, tali novità continueranno a non produrre alcun effetto perché sono incompatibili, come si è visto, coi caratteri della solidarietà costruita nel Dopoguerra.

Oggi le residue politiche di solidarietà continuano a portare le impronte del modello con cui sono state edificate: sono infatti spersonalizzate, centralistiche e burocratizzate. Al centro non ci sono le persone intese come singoli individui con bisogni differenziati, gli uni diversi dagli altri, bensì categorie indistinte: disabili, immigrati, non autosufficienti, ecc.

Inoltre, in queste politiche si annette scarsa importanza alle relazioni e alle formazioni sociali, che si costruiscono sulla base di un impulso valoriale non egoistico.

Emerge, dunque, una solidarietà fredda, impersonale, meramente formale e in più anche residuale perchè priva dell’impalcatura di organiche politiche nazionali attuate nella prima Repubblica ed ora non più riproponibili.

Riconoscere il valore della fraternità civile nelle politiche di solidarietà

Una riforma delle politiche di solidarietà ha come prerequisito quello di riconoscere la fraternità civile che si manifesta non solo nei singoli individui ma soprattutto nelle formazioni sociali.

Scrive Alexis de Tocqueville in un libro diventato un classico del pensiero politico dell’Ottocento: “I sentimenti e le idee si rinnovano, il cuore si ingrandisce e lo spirito umano si sviluppa solo grazie all’azione reciproca degli uomini gli uni sugli altri. Questa azione è quasi nulla nei paesi democratici; bisogna dunque crearla artificialmente e questo si può fare solo per mezzo delle associazioni”. “E’ facile prevedere – continua il pensatore francese – che si avvicina un tempo in cui l’uomo singolo sarà sempre meno in grado di produrre da solo le cose più comuni e necessarie alla vita. Quindi le funzioni del potere sociale si accresceranno continuamente e saranno rese sempre più vaste dal suo stesso sforzo. Più il governo si metterà al posto delle associazioni e più i singoli, perdendo l’idea di associarsi, sentiranno il bisogno che esso venga in loro aiuto: queste cause e questi effetti si riprodurranno continuamente”. E dopo aver avvertito che “presso i popoli democratici tutti i cittadini sono indipendenti e deboli, non possono quasi nulla da soli e nessuno di loro può obbligare gli altri a prestargli aiuto”, lo studioso conclude: “se non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono tutti nell’impotenza” (de Tocqueville Alexis, 1994).

C’è dunque un nesso molto stretto tra la fraternità civile, lo spirito associativo e la capacità della società civile di badare direttamente ai propri bisogni costruendo legami sociali.

Lo stesso pensatore politico francese in un saggio del 1835, intitolato Memoria sul pauperismo, scrive che “ci sono due specie di beneficenza: una, che porta ogni individuo ad alleviare, secondo i suoi mezzi, i mali che si trovano alla sua portata (…); l’altra, meno istintiva e più ragionata, meno entusiasta e spesso più potente, porta la società stessa ad occuparsi delle disgrazie dei suoi membri ed a provvedere sistematicamente ad alleviare i loro dolori” (de Tocqueville A., 1998).

La lezione tocquevilliana ci fa cogliere un punto nodale: alla base dello spirito associativo che anima la società civile quando ritiene di doversi occupare direttamente – e in modo “meno istintivo e più ragionato” – dei problemi che affliggono la collettività, ci devono essere rapporti tra le persone fondate sul mutuo aiuto (…se  i cittadini non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono tutti nell’impotenza).

Non è, dunque, sufficiente sviluppare rapporti di amicizia tra le persone perché se tali relazioni s’impostano solo sul vantaggio reciproco e non sul mutuo aiuto sono destinate ad estinguersi. Se viceversa l’amicizia si alimenta di fiducia e di responsabilità – intesa come capacità di rispondere ai bisogni e alle richieste dell’altro – si accresce il senso di fraternità. Quando le relazioni si formalizzano e non sono più fraterne tendono a svanire nella loro essenza più profonda.

Per poter rilanciare le relazioni interpersonali e costruire formazioni sociali capaci di creare solidarietà, occorre mettere in pista la fraternità civile, intesa come dovere della libertà, alimentandola di quella capacità di ascolto dei bisogni dell’altro e di quella fiducia disinteressata che produce responsabilità individuale e giustizia sociale.

Per realizzare nuove politiche di solidarietà fondate sulla fraternità civile occorre agire sostanzialmente in due direzioni. La prima è quella di promuovere la capacità della società civile di autorganizzarsi e di alimentare un’economia civile solida e diffusa. La seconda è quella di rivedere profondamente le modalità dell’intervento pubblico per fare in modo che le istituzioni siano al servizio della persona e non viceversa e, soprattutto, non annullino il ruolo delle formazioni sociali, entro cui gli individui sviluppano la propria personalità, imparano ad aiutarsi reciprocamente e praticano la fraternità civile.

Vi è, innanzitutto, l’esigenza che le istituzioni riconoscano la capacità della società civile di realizzare da sé determinate risposte ai bisogni sociali, mediante l’applicazione piena del principio di sussidiarietà.

Occorre, infatti, passare da una sussidiarietà ottriata o concessa ad una sussidiarietà fondata sul riconoscimento della società civile autorganizzata. La mancanza di questa visione corretta della sussidiarietà crea forme dirigistiche nei rapporti tra istituzioni e cittadini che frenano la capacità della società civile di formare reti di economie civili e di cittadinanza attiva.

Alle istituzioni spetta intervenire in modo forte solo in talune materie e in altre deve svolgere pur sempre un duplice, importante ruolo. Da un lato, riconoscere l’autorganizzazione dei soggetti civili in tutti gli ambiti in cui ritengono, in piena indipendenza, di avere interessi legittimi da tutelare. Dall’altro, garantire le regole di esercizio di questa autorganizzazione.

E’ in questo modo che si possono rilanciare le politiche di solidarietà nel nuovo assetto politico-istituzionale, che vede sempre più lo Stato arretrare da una presenza diretta nell’economia e le istituzioni assumere una fisionomia federalistica.

Se il modello delle politiche di solidarietà realizzato nella prima Repubblica poteva fare anche a meno della fraternità, perché si poggiava essenzialmente sul centralismo istituzionale, sull’interventismo statale nell’economia e sulla capacità dei partiti di immettere legami ideologici nella società, oggi che queste condizioni non ci sono più, è diventata una necessità produrre un nuovo collante nelle relazioni sociali: la fraternità civile. Si tratta di una virtù che già esiste nella società ma si finge di non vederla per non doverla riconoscere.

Alcuni osservatori ritengono giustamente che la difficoltà ad aggredire le cause della crisi con riforme efficaci dipenda da due guasti culturali: il primo è l’idea che gli uomini siano mossi unicamente da un interesse miope e non anche dalla “simpatia” verso gli altri e dal dovere morale di rispondere ai bisogni della collettività e delle generazioni future; il secondo è una considerazione delle imprese come soggetti mossi esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione del profitto (Becchetti L., 2012). Questo duplice riduzionismo (il primo antropologico e il secondo riguardante la concezione dell’impresa) impedisce di vedere mappe sociali ed economiche molto più composite di quelle rilevate dai media: la presenza di una vivace economia civile e l’espandersi del fenomeno dei consumATTORI che votano non solo in occasione delle consultazioni elettorali ma anche quando vanno in banca e per negozi.

Se domani ci svegliamo e una quota consistente di noi (diciamo il 50 per cento) decide di “votare con il proprio portafoglio”, ovvero di sostituire atti di consumo e di risparmio tradizionali con atti di consumo e di risparmio socialmente responsabili, il mondo è già cambiato.

E se poi questo mercati civili, cioè autodeterminati da cittadini, diventano il “luogo” dove i consumatori e i risparmiatori si mettono a co-progettare coi soggetti economici e sociali (che producono beni e servizi) attività che pongono al centro la fraternità civile, avremo di fatto l’affermarsi di nuovi modelli di produzione e di consumo sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale, ma anche di nuovi modelli di welfare, in cui produzione di ricchezza ed erogazione di servizi alla persona coincidono, come nel caso dell’agricoltura sociale (Pascale A., 2012).

Insomma, la fraternità civile alimenta consumo e risparmio consapevoli, economie e mercati civili, fenomeni che hanno assunto una valenza del tutto nuova nell’era dei beni comuni.

La tragedia dei beni comuni

Uno dei primi studiosi a introdurre nel dibattito economico internazionale il tema dei commons, ossia dei beni quando sono comuni, è stato un biologo americano in un articolo pubblicato dalla rivista Science (Hardin G., 1968). Egli racconta in questo saggio la storia di una comunità di pastori che portano un numero sempre maggiore di capi di bestiame a un pascolo comune con libero accesso. Se continuano ad agire nel proprio interesse personale senza tener conto delle risorse che utilizzano, essi rischiano che prima o poi tale pascolo si esaurisca e diventi inutilizzabile per tutti. Tale conclusione si basa, tuttavia, sull’ipotesi di un comportamento razionale strumentale, fondato sulla mutua indifferenza e che intende il problema dei beni comuni solo in termini di libero accesso e non di gestione comune. In tal modo, la storia dei pastori ribadisce e giustifica l’idea che l’unica soluzione sia la proprietà privata o la proprietà statale.

Hardin colloca la sua tesi nell’ambito di un ragionamento più ampio che riguarda molti fenomeni collettivi, come la crescita della popolazione e l’erosione delle risorse ambientali, per affermare l’esistenza di situazioni che si possono definire “tragedie” o “scelte tragiche”. Si tratta proprio del significato originario della tragedia greca: situazione nella quale non esiste una soluzione ottima per tutti e da tutte le prospettive da cui la guardiamo, perché ogni scelta comporta dei costi alti. Nel caso dei beni comuni, la situazione è quella di una tensione drammatica tra la libertà degli individui e la distruzione delle risorse comuni come se la moneta con cui  si paga la conquista della libertà (e l’assenza di mediatori gerarchici e sacrali) fosse quella della distruzione delle risorse comuni dalle quali dipende la sopravvivenza delle nostre comunità, delle risorse che ci fanno vivere.

All’interno dell’ampio dibattito internazionale avviato dalle riflessioni di Hardin, si colloca la pubblicazione del libro di uno storico del diritto, Paolo Grossi, che segna una importante riscoperta storiografica e giuridica della common property in Italia (Grossi P., 1977).

Il saggio ricostruisce la storia di un filone di studi che si viene sviluppando durante gli ultimi decenni dell’Ottocento nell’ambito del dibattito sulle origini e le forme della proprietà.

Questo filone si pone in una posizione critica nei confronti del mainstream di una tradizione di pensiero che rifacendosi al diritto romano afferma il carattere naturale della proprietà individuale, fonte di ricchezza, di stabilità sociale e di progresso.

Portando alla luce  l’esistenza di forme comunitarie e collettive di proprietà, questi studi intendono dimostrare la “storicità” e non la “naturalità” dell’individualismo proprietario. Lungi dall’essere isolati nell’ambito delle più avanzate esperienze culturali dell’epoca, tali studi ne sono al contrario pervasi e profondamente contaminati: dalla giurisprudenza comparata di Henry Summer Meine alla sociologia di Frédéric Le Play, dall’attenzione alla storia economica della Scuola storica tedesca allo sguardo positivista di Carlo Cattaneo verso il territorio (il titolo del libro è, d’altra parte, tratto da un suo scritto) e così via.

Dopo aver ripercorso questo dibattito, Paolo Grossi approfondisce nel libro l’esperienza italiana. Le forme di possesso comune delle risorse naturali sono state in Italia, così come in altre parti dell’Europa, in gran parte soppresse nel corso dell’Ottocento da una legislazione volta, invece, ad affermare e generalizzare la proprietà privata. In tale periodo prevale la volontà di eliminare, “liquidare” i beni comuni in tutte le loro forme e manifestazioni, vedendole come delle anomalie rispetto all’ordine giuridico ed economico dato. Il Codice Civile del 1865 risente di questo clima ed evita accuratamente di contemplarli.

Ma già una nuova legislazione, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta del XIX secolo, esprime la necessità di mantenere le forme di possesso comuni laddove per l’altitudine e la natura dei fondi, le terre non possono essere migliorate dal punto di vista agricolo.

E’ il risultato di analisi attente di tali fenomeni effettuate nell’ambito delle grandi inchieste ministeriali sulle campagne italiane da studiosi come Stefano Jacini e Ghino Valenti. L’idea che prevale in tali studi è che la proprietà collettiva non nega il progresso, ma assicura invece forme associative di uso del territorio, essendo essa stessa una sorta di cooperazione. Sono forme d’uso volte a tutelare le comunità attraverso una serie di vincoli, di divieti all’uso di tecniche che possono ridurre la riproducibilità delle risorse, di norme volte a mantenere un rapporto equilibrato tra popolazione e territorio.

E tuttavia, benché tale filone di studi filosofici, storici, agronomici e giuridici sugli assetti agrari collettivi che si sono conservati nel tempo sia giunto fino a noi,  la modernità contemporanea si è costruita sul trinomio proprietà-ricchezza-progresso. Secondo questo sistema di valori, il proprietario è per natura il cittadino modello perché nel rapporto coi suoi beni è inevitabilmente favorevole alla conservazione e all’ordine costituito. Al contrario, ogni ordine sociale e politico che si fonda sulla comunità e sulla proprietà collettiva rompe inevitabilmente questo nesso, e diviene qualcosa di mostruoso che non può essere accettato e deve essere negato.

L’opera di Paolo Grossi fornisce un’interpretazione della storia delle proprietà collettive da una prospettiva nuova e originale: l’intervento diretto a sopprimere tali istituzioni non è l’esito di un processo volto a distruggere un sistema di valori arcaico per affermarne un altro teso a dispiegare forse sociali e politiche progressiste e modernizzatici; è, al contrario, il risultato di un percorso teso ad eliminare quell’armatura istituzionale propria delle common property che si ispirava alla necessità di garantire a coloro che non possedevano nulla, di poter vivere in modo dignitoso la propria povertà e di preservare, a tal fine, le risorse da forme di sfruttamento indiscriminato e devastante.

Lo studioso rovescia, così, il ragionamento di Hardin, dimostrando che la tragedia dei beni comuni dipende non già dalla loro gestione comunitaria ma, viceversa, proprio dalla loro liquidazione e appropriazione individuale. Egli racconta una storia che è stata bandita dai libri di testo utilizzati nelle scuole; una storia in cui le comunità sono state capaci di coordinarsi, limitare la libertà individuale e così non collassare tragicamente. Norme sociali, ordinamenti, regole, tradizioni, usi e consuetudini sono gli strumenti del diritto che le comunità hanno inventato proprio per evitare di autodistruggersi.

In sostanza, Paolo Grossi dimostra che la storia è più complessa di quella raccontata da Hardin  e, in genere, dai modelli teorici.

I caratteri dei beni comuni

A siffatta complessità ci rimandano anche i lavori di una politologa, Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia 2009, e del suo gruppo interdisciplinare. La ricerca avviata da questa studiosa e dai suoi collaboratori ha portato alla definizione di un quadro concettuale coerente e utile all’analisi empirica dei sistemi di risorse collettive denominato Institutional Analysing and Development framework (IAD framework), che ha dotato di un linguaggio comune i ricercatori provenienti da diverse discipline impegnati nello studio dei commons oltre che permettere l’organizzazione di database specifici per tipologie di risorse collettive e l’analisi comparativa delle diverse istituzioni preposte al loro governo (Ostrom E., 2006).

Ma tornando all’esperienza italiana della proprietà collettiva, Paolo Grossi la definisce come un assetto agrario particolare di vita associata che si struttura su una stretta relazione tra certe risorse naturali, certe situazioni geologiche e agronomiche, comunità con certi costumi e singoli attori. Il legame è tra terra, comunità e singoli operatori; un legame in grado di assicurare una lunga durata a queste esperienze.

Alcuni studi dimostrano che è proprio l’esistenza di un patrimonio collettivo a determinare il senso di appartenenza e di identificazione territoriale di una data comunità (Carestiato N., 2007). Una forma di identità che può essere paragonata ad una identità resistenziale, ovvero una identità che si costruisce come reazione e difesa contro elementi esteri sentiti ostili (Castells M., 2003).

Adesso è proprio questo carattere difensivo a rendere a volte difficile attualizzare il sistema delle regole e delle consuetudini al contesto socio-economico contemporaneo. Vi è dunque bisogno di alimentare percorsi partecipativi di autoapprendimento collettivo per adattare le modalità di conservazione e uso delle risorse alle nuove esigenze e alle nuove sensibilità culturali.

Tali processi sono oggi agevolati da un’evoluzione del pensiero etico, politico ed economico che, nel frattempo, ha riscoperto il valore dei beni relazionali nella fioritura dell’esistenza delle persone e la consapevolezza della loro vulnerabilità a causa della debolezza umana. E’ stata la filosofa Martha C. Nussbaum a rivitalizzare, a metà degli anni Ottanta, il pensiero etico e politico di Aristotele avviando la ricerca – inizialmente condotta in sodalizio con Sen e poi discostandosi dal percorso intellettuale dell’economista – sull’approccio delle capacità (Nussbaum M. C., 1996). Un nuovo paradigma teorico utile, come si vedrà più avanti, per valutare lo sviluppo umano e il benessere delle persone e delle collettività.

Sicché i beni comuni, legandoli strettamente ai beni relazionali, diventano beni che le persone utilizzano per promuovere le proprie capacità e scegliere se e come attivarne il funzionamento. Di qui la funzione strategica che i beni comuni possono assolvere, laddove le comunità si autorganizzano, per ridurre la povertà e promuovere la giustizia sociale.

In un recente articolo, Sen sottolinea che quando si affronta oggi il tema dei beni comuni “il problema importante è dato dal fatto che i paesi industrializzati utilizzano una quota sproporzionatamente maggiore di ciò che definiscono i beni collettivi globali (global commons), ovvero il patrimonio di aria, acqua e altre risorse naturali di cui noi tutti, collettivamente, possiamo fruire” (Sen A., 2010).

Il fatto che oggi gli utilizzatori dei beni comuni globali siano miliardi di persone indipendenti le une dalle altre e ciascuna agisca per raggiungere i propri obiettivi individuali rende ardua un’implementazione normativa da parte dei singoli Stati.

L’esperienza italiana delle proprietà collettive può, dunque, soccorrerci perché fa riemergere il ruolo fondamentale della società civile. Per Paolo Grossi il diritto è appunto la società che si autorganizza spontaneamente e si dà un ordine. Lo studioso fa l’esempio concreto di una coda che si forma dinanzi ad uno sportello e di un tizio che propone agli altri una regola da seguire per evitare incidenti e assembramenti. Il progetto organizzativo viene raccolto e la coda si dà un ordine. Il mistero del diritto è tutto qui.

E’ con la Rivoluzione francese che si è incominciato ad identificare il diritto con il potere e dunque con lo Stato, facendogli perdere quella ricchezza e quella corrispondenza con la complessità del reale che prima lo caratterizzavano. Ma in età medievale e in tempi ancor più lontani esistevano ordinamenti osservati, ossia spontaneamente rispettati. Ed ora tali ordinamenti tornano ad essere di grande attualità per poter gestire i beni comuni globali.

La gestione dei beni comuni

La vicenda italiana della gestione delle risorse idriche e del relativo referendum, svoltosi nel 2011, ha fatto riemergere l’interesse per la proprietà collettiva.

Il movimento per i beni comuni non nasce, infatti, come reazione al mercato in favore della restaurazione della potestà dello Stato. Esso al contrario richiama (a volte inconsapevolmente) un retroterra di cultura giuridica e di esperienze civili che vedono nell’autorganizzazione della società la risposta più efficace al problema della tutela e dell’equa ripartizione delle risorse.

A monte vi è l’idea che i beni comuni appartengano originariamente alla collettività – perché conservati e custoditi dalle comunità di generazione in generazione – e siano costantemente riprodotti nel quadro di una cooperazione tra i cittadini che dal potere pubblico non vogliono concessioni, ma pretendono riconoscimento.

Si tratta di far emergere la tensione tra individualità e relazionalità, tra esclusività e inclusività, tra libertà e fraternità, che pervade l’intero sistema giuridico fin dentro alle strutture del mercato, per provare a costruire uno statuto dei beni comuni.

La difficoltà è l’estrema eterogeneità di tali beni, che richiederebbe una classificazione puntuale.

Innanzitutto andrebbero definiti beni comuni i beni materiali come le terre destinate all’agricoltura, la biodiversità, le foreste, l’acqua, l’aria e i beni che hanno un sostrato materiale ma evocano anche scenari più complessi, come il paesaggio e il patrimonio artistico e storico-culturale.

Andrebbero poi definiti beni comuni i beni immateriali investiti da una tendenza fortissima all’appropriazione esclusiva ma di cui si rivendica, di converso, il carattere comune (dalla cultura alla proprietà intellettuale e alla salute per intenderci).

Non ci potrà essere un unico stato giuridico dei beni comuni ma sicuramente ciò che li unisce è il legame profondo tra risorsa (e servizio) e comunità. Una comunità non intesa nel senso premoderno di comunità chiusa e statica ma di comunità riconsiderata dinamicamente come flusso e incrocio di flussi.

La relazionalità è, dunque, l’elemento fondante e ineliminabile di ogni bene comune. Una relazionalità diacronica perché la gestione di un bene comune deve necessariamente tener conto degli interessi delle generazioni future. Una relazionalità che si riconduce, a ben vedere, all’idea di fraternità civile.

I beni comuni si reggono, infatti, sull’idea che gli individui sviluppano la propria personalità e accrescono il proprio benessere sociale utilizzando liberamente determinati beni con modalità di gestione che devono garantire l’equo accesso di tutti.

Si tratta, dunque, di attivare gestioni che si fondano non soltanto sul diritto individuale di utilizzare determinati beni, ma anche sull’attenzione consapevole che ogni individuo coinvolto deve prestare nei confronti della libertà individuale dell’altro di utilizzare quegli stessi beni. Gestioni fondate appunto sul dovere di fraternità civile.

Se oltre alla comunità come libera e aperta associazione degli individui, è anche la fraternità civile l’elemento che caratterizza tutti i beni comuni, si può allora prefigurare un rapporto stretto tra gestione di questi beni ed esercizio dei diritti e dei doveri fondamentali, la cui effettiva realizzazione porta a conformare la stessa istituzione deputata a soddisfarlo.

Attraverso la gestione dei beni comuni, fondata sulla libera e aperta associazione degli individui e sul dovere di fraternità civile, si potrebbe tornare a concretizzare il nesso che i padri costituenti, quando approvarono l’articolo 2 della Carta fondamentale, vollero fissare tra diritti inviolabili, che la Repubblica riconosce, e doveri di solidarietà, dei quali la Repubblica richiede l’adempimento. E l’occasione per ripristinare tale nesso sembra delinearsi nelle strategie che si confrontano per abbattere il debito pubblico al fine di evitare il fallimento.

Beni comuni e strategie di abbattimento del debito pubblico

Il debito pubblico accumulato dal nostro Paese è troppo grande (oltre il 120 per cento del Pil, contro una media dell’area euro che non arriva al 90 per cento), troppo rischioso (può avere l’effetto sistemico di un default),  prevalentemente cattivo (perché si è formato sulla spesa corrente e non già su quella per investimenti).

Indipendentemente dalla crisi economica e finanziaria, dobbiamo dunque abbatterlo se vogliamo evitare il fallimento. E secondo autorevoli esperti potrebbe essere abbattuto adottando una strategia di medio periodo in tre mosse: 1) pareggio di bilancio strutturale in tempi medi e immediata ricostituzione di un significativo avanzo primario, sopra il 3% del Pil; 2) utilizzo (alienazione e valorizzazione) del patrimonio pubblico per una riduzione del volume globale del debito, concentrata nei primi anni dello sforzo di rientro; 3) impiego a riduzione del debito dell’intero gettito di un’imposta patrimoniale straordinaria ad aliquota molto bassa, gravante esclusivamente sui patrimoni del 10% delle famiglie italiane che detengono il 46% della ricchezza patrimoniale (Morando E., Tonini G., 2012).

Assoluta priorità dovrebbe essere riconosciuta alla spending review, che consiste nell’adozione di una particolare modalità di programmazione della spesa pubblica per poterla sottoporre a verifica di utilità e adeguatezza. Ma preliminarmente si dovrebbe abbandonare, nell’ambito della tecnica cosiddetta dei tagli lineari, la distinzione tra spese rimodulabili e non rimodulabili e introdurre il metodo della “previsione di bilancio a base zero” (zero-based budgeting). In sostanza, bisognerebbe cambiare le leggi, perché molte obbligano a effettuare spese che non risultano più utili (ammesso che lo siano mai state) o comunque non più coerenti con le priorità del presente. E occorrerebbe agire sul terreno microeconomico, mutando i complessi ingranaggi della gigantesca macchina della pubblica amministrazione attraverso un vero e proprio piano industriale di ristrutturazione e riorientamento.

Se la società civile si dotasse di strumenti conoscitivi per esercitare un controllo su questi meccanismi, potrebbe suggerire al governo e al Parlamento cosa tagliare e cosa aggiungere nelle politiche pubbliche in base ad una precisa strategia: restringere lo spazio occupato inutilmente dallo Stato e orientare le risorse per allargare la presenza attiva delle formazioni sociali in aree di proprio legittimo interesse.

Per quanto riguarda la seconda mossa, si dovrebbe pervenire ad un meccanismo che finalmente riorienti il patrimonio pubblico verso forme moderne ed efficienti di proprietà collettiva che nel corso dell’Ottocento furono ritenute marginali e soppresse con le leggi napoleoniche e con quelle dei governi liberali.

In sostanza, il patrimonio pubblico andrebbe venduto in blocco, ai valori di mercato,  a una società appositamente costituita, in accordo con regioni e comuni, che lo paga finanziandosi sul mercato dei capitali, attraverso l’emissione di titoli garantiti dal valore del patrimonio acquisito. Tale società dovrebbe essere controllata dal movimento cooperativo e aperta alla partecipazione popolare mediante forme di azionariato diffuso. Si creerebbe così un soggetto collettivo che subentrerebbe alla proprietà pubblica e garantirebbe l’ inserimento nello statuto dell’impresa di  tre vincoli essenziali: la tutela dei beni ambientali, il mantenimento della destinazione d’uso per i beni agricoli e l’inalienabilità.

Forse siffatta soluzione al problema del patrimonio pubblico potrebbe agevolare il superamento di quello che è stato definito il “tabù della patrimoniale”. Si tratta della proposta volta a tassare quel 10% di famiglie più ricche che detiene il 46% del patrimonio privato, gravandolo per tre anni di un’aliquota pari all’1%.  Non si sta parlando del ceto medio che ha la casa di abitazione in proprietà, ma di coloro che possiedono patrimoni superiori al milione e mezzo di euro. Eppure c’è una inspiegabile opposizione generale a questa imposta.

L’avvio di un dibattito a tutto campo nella società civile sul patrimonio pubblico e su quello privato, nonché sulle modalità per riconnettere diritti e doveri, forse aiuterebbe a trovare soluzioni idonee per ridurre il debito pubblico, addossare un maggior peso fiscale ai grandi patrimoni privati e restituire i beni comuni alla proprietà collettiva dei cittadini per fare in modo che li gestiscano per produrre fraternità civile.

L’approccio delle capacità

Produrre fraternità civile per adempiere con maggiore efficacia i doveri di solidarietà in base al dettato costituzionale è pienamente coerente con l’ approccio delle capacità, teorizzato da Nussbaum e Sen nell’ambito della loro costruzione di interventi improntati al rispetto per le persone in carne ed ossa e in grado di rafforzarne le effettive possibilità.

Secondo questa teoria, le capacità sono le “libertà sostanziali di conseguire combinazioni alternative di funzionamenti atti a  realizzarle”; sono l’insieme di opportunità (spesso correlate) di scegliere e agire. In altre parole, esse non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà o opportunità create dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, economico e sociale. Vanno, quindi, distinte le “capacità interne” di una persona (tratti personali, capacità intellettuali ed emotive, lo stato di salute e di tonicità del corpo, gli insegnamenti interiorizzati, le capacità di percezione e di movimento) dalle “capacità combinate” che costituiscono la somma delle capacità interne e delle condizioni socio-politico-economiche in cui possono effettivamente essere scelti i funzionamenti.

Per i due studiosi la società dovrebbe creare sia capacità interne, sia capacità combinate, cioè contesti di scelta in molti ambiti. Tutte le persone hanno diritto a raggiungere una certa soglia di capacità combinate, non nel senso di subire l’imposizione di funzionamenti ma di godere della libertà sostanziale di scegliere e di agire. Questo è ciò che significa trattare ogni persona con uguale rispetto.

In altre parole, la società non dovrebbe imporre determinati funzionamenti, non dovrebbe preoccuparsi di far sì che le persone abbiano una vita sana, conducano attività soddisfacenti, pratichino determinati stili di vita e così via. Le capacità e non i funzionamenti, sono gli obiettivi politici da perseguire, perché soltanto così si garantirebbe lo spazio per l’esercizio della libertà umana. C’è, infatti, un’enorme differenza fra una politica che promuove la salute e quella che promuove capacità sane: quest’ultima, e non la prima, onorerebbe le scelte di stile di vita della persona.

L’approccio delle capacità considera ogni persona come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio, bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno. E’ incentrato sulla scelta o libertà, ritenendo che il bene fondamentale  della società consista nella promozione per le rispettive popolazioni di un insieme di opportunità, o libertà sostanziali, che le persone possono poi mettere in pratica o meno: la scelta rimane comunque la loro.

Quindi l’approccio punta al rispetto del potere di definizione di sé delle persone. Esso è decisamente pluralista rispetto al valore: ritiene che le acquisizioni di capacità centrali delle persone siano differenti per qualità non soltanto per quantità; che non sia possibile ridurle, senza distorsioni, a un’unica scala numerica; e che un aspetto fondamentale della comprensione e della produzione di tali acquisizioni riguardi la natura specifica di ciascuna. Infine, l’approccio si preoccupa dell’ingiustizia sociale e delle disuguaglianze più radicate, in particolare della mancanza di capacità causata da discriminazione ed emarginazione. Esso sollecita le politiche pubbliche ad un compito urgente: migliorare la qualità della vita di ciascuno, definita in base alle sue capacità (Nussbaum M. C., 2012).

L’introduzione del principio di fraternità civile nelle politiche di solidarietà permetterebbe di adattare alla persona ogni intervento pubblico nel pieno rispetto della libertà di scelta di ciascuno. Solo nella relazione interpersonale, fatta di amicizia gratuita e di fiducia, e nella fioritura della società civile che si autorganizza è possibile cogliere i reali bisogni dell’altro e aiutarsi reciprocamente a rendere effettivi i diritti e i doveri.

Alla luce dell’approccio alle capacità appaiono in tutta evidenza i potenziali percorsi che il Terzo settore potrebbe avviare ai fini di un proprio potenziamento, riscattandosi così dalle attuali forme di dipendenza che lo legano alle istituzioni e al sistema politico.

Il Terzo settore e i diversi ethos del mercato

L’espressione Terzo settore nasce da una visione dell’economia e della società secondo la quale il mondo che si occupa della cura e del reinserimento lavorativo, la cooperazione sociale, le Organizzazioni non governative (Ong) e le associazioni non solo non fanno parte dello Stato (e questo appare abbastanza ovvio), ma non sono neanche mercato.

Espressioni sinonime di Terzo settore sono comunemente “economia sociale” o “privato-sociale”. Sicché il Terzo settore viene considerato come un semplice settore dell’economia, un ambito ben delimitato di questa: come c’è il settore dei trasporti, quello del turismo o dell’arte, esiste il settore dove operano coloro che si occupano di cura, di assistenza, di sociale. Anche il volontariato viene fatto rientrare normalmente all’interno dell’economia sociale. Ma, rispetto agli altri settori dell’economia, tutto questo mondo del sociale si autodefinisce Terzo perché appunto si considera in mezzo tra Stato e mercato.

Al fondo di questo modo di percepirsi vi è, dunque, l’idea che il mercato sia qualcosa di diverso rispetto alla realtà classificata come “sociale”. Per siffatta visione dell’economia e della società, la parola “mercato” è sinonimo di interesse personale e l’impresa è un ente che non può non mirare alla massimizzazione di profitti. E’ solo come conseguenza di ciò, che soggetti mossi da altre passioni (sociali, relazionali, ideali, simboliche) non possono generare imprese né, tantomeno, essere soggetti di mercato. Ed è a causa di tale presunta impossibilità che tali organizzazioni vengono anche chiamate “non profit”, mentre vengono considerate normali le organizzazioni che invece hanno il profitto come scopo della propria attività.

Secondo questa visione dell’impresa e del mercato, lo scopo dell’impresa è massimizzare il profitto, e tutto il resto è mezzo o vincolo: l’obiettivo è la massimizzazione del profitto, e sottostare a certi vincoli sociali (legislativi, fiscali, civili, ecc.) è un costo da pagare per raggiungere l’obiettivo del profitto. Da questa prospettiva, non ci sarebbe dunque nulla di intrinseco nelle imprese for profit: reputazione, responsabilità sociale, attenzione all’ambiente, ecc. non vengono cercati perché hanno valore in se stessi, ma perché sono orientati a un profitto di medio o lungo periodo.

Ma oggi questa visione sta mostrando tutta la sua parzialità con l’ingresso nella scena economica di nuovi soggetti: imprese tradizionali che prestano attenzione agli aspetti sociali e soggetti della società civile, come le associazioni con chiara vocazione sociale, che avvertono l’esigenza di diventare impresa, di confrontarsi cioè con le tipiche dinamiche di mercato.

Due mondi considerati distanti tra loro incominciano a integrare le proprie rispettive culture partendo dal recupero del significato più proprio della parola “interesse”: interesse è certamente quello che m’interessa, ma è anche ciò che interessa agli altri, e ciò che sta tra di noi (inter-esse) e ci consente di incontrarci nello scambio.

La teoria economica ritiene che vi sia un’opposizione naturale tra mercato e società (Stuart Mill J., 1976). In realtà, tra il concepire la vita lavorativa come sacrificio e come vocazione e l’intendere il lavoro e il mercato come mutua indifferenza, esiste una terza possibilità: quella di leggere e vivere il mercato come un momento della vita civile, come gli altri luoghi del vivere.

Per tale ethos del mercato non si tratta di “importare” elementi di socialità dentro il mercato: il mercato è, infatti, un pezzo di vita in comune, civile o incivile a seconda di come lo immaginiamo e poi viviamo; a seconda delle nostre intenzioni, sentimenti, azioni.

Siamo certamente più contenti quando troviamo nei nostri partner di mercato un “di più” di motivazioni, ma è ugualmente possibile fare un’esperienza di fraternità civile quando operiamo con gli altri in certi momenti e con certe persone all’interno di un’azione congiunta, dove siamo corretti, non opportunistici e sviluppiamo un rapporto di amicizia disinteressato (Bruni L., 2010).

Dalla Responsabilità sociale d’impresa all’impresa civile

Anche in passato ci sono state imprese che costruivano le case ai propri dipendenti e le scuole ai figli degli operai oppure s’interessavano delle colonie estive. Adriano Olivetti ad Ivrea promuoveva addirittura stalle sociali e cooperative agricole di conduzione tra gli operai della propria azienda per fare in modo che non cambiassero residenza e restassero nei piccoli comuni d’origine come operai-contadini.

C’è una differenza di fondo tra la modalità di interpretare la responsabilità sociale da parte della grande impresa fordista nella prima fase della rivoluzione industriale e quella che si sta manifestando adesso con la terziarizzazione dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica. Prima il processo partiva prevalentemente dall’alto; era l’imprenditore che, se e quando voleva, elargiva paternalisticamente ai suoi operai servizi che andavano al di là del salario. Oggi il processo è essenzialmente dal basso: la Responsabilità sociale d’impresa (Rsi) è la risposta a una pressione che parte dalla società civile e arriva alle imprese, indipendentemente dagli operai delle imprese stesse.

La questione ambientale è stata senza dubbio il detonatore del processo. Ma ora la Rsi riguarda aree crescenti del sociale, dai diritti alla democrazia e alla giustizia sociale.

L’agricoltura sociale non è altro che una delle modalità con cui questo fenomeno si sta sviluppando anche tra le imprese agricole tradizionali. Ma la nascita e la diffusione dei Gruppi d’acquisto solidale (Gas) segnalano una novità di fondo anche nei modelli di consumo, che mettono in discussione le vecchie logiche competitive delle imprese e premono perché da una competizione di tipo posizionale esse adottino una concorrenza cooperativa.

Del resto, la parola competition è un anglolatinismo che deriva dal termine “cum-petere” (incontrarsi, crescere insieme). Ancora una volta è la realtà a incaricarsi, nel sue dinamiche spontanee, di restituire il senso originario alle parole, che spesso pronunciamo senza conoscerne il significato più intimo.

Sta, dunque, avvenendo qualcosa che va a modificare nel profondo il modo di intendere il rapporto tra “economico” e “civile” e che il Terzo settore dovrebbe saper leggere e valorizzare come una grande opportunità per uscire dalla crisi economica e finanziaria e per creare nuovi modelli di welfare. Da una parte emerge un nuovo protagonismo della società civile e, dall’altra, il mondo delle imprese entra in attività tipicamente sociali senza, tuttavia, abbandonare le tradizionali attività di produzione di beni e servizi.

In tale nuovo contesto, per queste imprese la Rsi non è semplicemente un modo qualsiasi per rispondere a preoccupazioni ambientali e sociali, ma è saper riconoscere che ci sono passioni, ideali, rapporti umani che non sono merci e che non vanno ridotti a merci; è comprendere che fare impresa in modo responsabile significa non continuare ad avere come obiettivo principale la massimizzazione del profitto e come vincolo principale il raggiungimento di certi standard di responsabilità ambientale e sociale.

Appare, dunque, sulla scena un’impresa civile che sa fermarsi al punto giusto nel processo di trasformazione dei beni relazionali in merci e impara a considerare la fraternità civile un valore senza il quale l’impresa stessa implode. E’ un’impresa che sta acquisendo con l’esperienza concreta come  i beni relazionali e la fraternità civile siano in grado di rigenerare anche il mercato, la ricchezza e il profitto.

Un bene relazionale è quel bene intangibile  di natura comunicativa e affettiva generato attraverso le interazioni tra gli individui. Per intenderci, l’amicizia, l’atmosfera amichevole che si può creare tra persone che s’incontrano la prima volta sono beni relazionali, mentre l’incontro non è un bene relazionale in sé ma piuttosto la sua “funzione di produzione”, ovvero il meccanismo attraverso il quale i beni relazionali si producono. Un bene relazionale può essere co-prodotto, co-consumato e condiviso solo nella reciprocità. Finora la scienza economica non ha mai considerato tale bene; adesso ci sono imprese che prestano notevole attenzione alla sua produzione, consumo e scambio e scienziati sociali che incominciano a definirlo e a valutarlo concretamente nell’economia aziendale (Gui B., 2002).

La cultura della “gratuità” è stata finora appannaggio esclusivo del volontariato; adesso coinvolge l’impresa senza alcun regalo o prestazioni gratuite, ma con contratti, regole ben condizionate alle situazioni concrete, senza contrapposizione al mercato. Si svolge in queste imprese un percorso di autoapprendimento della partecipazione e della gratuità accompagnata dal doveroso (i doveri della solidarietà) nella logica della reciprocità e della fraternità civile.

Se la solidarietà si può definire “un principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali”, la fraternità civile permette agli eguali di essere diversi perché consente, nell’ambito delle relazioni di mercato, di rigenerare valori di mutuo aiuto e di reciprocità (Zamagni S., 2007). “Differente” diventa l’impresa perché in essa la relazione tra persona e azienda non è più quella del “dipendente”, ma del “partner” (Sapelli G., 2006).

Sicché, il vecchio modo di concepire la Rsi viene soppiantato da un’idea di responsabilità civile dell’impresa in cui l’obiettivo imprenditoriale è la realizzazione e lo sviluppo nel tempo di un progetto e il vincolo da rispettare per raggiungere l’obiettivo sono le condizioni di economicità e/o di efficienza. Il profitto diventa un segnale che il progetto funziona, e l’efficienza è vista come un comportamento etico perché in un mondo dove le risorse sono scarse l’efficienza ha anche un contenuto etico.

L’impresa civile è, dunque, un’impresa-progetto e l’economicità è un vincolo perché l’impresa duri nel tempo.

In un’ottica siffatta, l’impresa civile non è soltanto la cooperativa sociale o l’impresa sociale, bensì è qualsiasi imprenditore (indipendentemente dalla forma giuridica adottata dall’impresa) il cui obiettivo principale non è far profitti attraverso la produzione e vendita di beni e servizi, ma realizzare beni e servizi (compresivi di beni relazionali e servizi alle persone) sotto un vincolo di bilancio che gli consenta di vivere una buona vita.

Per una nuova società civile

Il Terzo settore potrebbe darsi come missione quella di far crescere un’economia civile così intesa, intensificando le relazioni  e costruendo una forte alleanza con un mondo imprenditoriale che pur non avendo i connotati dell’associazionismo, della cooperazione sociale e dell’impresa sociale, può svolgere una funzione essenziale di incivilimento dell’economia e del mercato.

Se il Terzo settore non compie questo balzo strategico non potrà arrestare una deriva che rischia di trasformarlo in una mera appendice del sistema socio-sanitario locale, riassorbito per intero all’interno di dinamiche “gestionali”. Si tratta di innescare partecipazione attiva, di includere nel proprio percorso soggetti diversi da sé che condividano una comune matrice culturale e di inventare nuove ed efficaci strategie di governance (Bonomi A., 2010).

Si tratta di far emergere una nuova società civile differente da quella plasmata dagli Stati nazionali e dall’approccio utilitaristico all’economia di mercato. Una nuova società civile che si sta organizzando nelle reti e mette in discussione i vecchi modelli corporativi della rappresentanza, forgiati dall’economia fordista, dal vecchio Stato sociale e dalle appartenenze ideologiche. Reti trasversali di cittadini e non più organizzazioni di categorie, settori, professioni, mestieri o aggregazioni di portatori di bisogni speciali (disabili, non autosufficienti, anziani, ecc.) o ancora associazioni di consumatori contrapposte a quelle dei produttori.

Sono queste reti d’incontro, di partecipazione, di autoapprendimento collettivo, di economie relazionali, il “luogo” dove si va addensando una nuova società civile disposta a cambiare le convinzioni più intime, gli stili individuali di vita, i modelli di produzione e consumo per ridurre l’uso di sostanze chimiche; contenere la produzione di proteine animali; arginare gli sprechi; ridurre l’uso dell’acqua; considerare l’accesso all’alimentazione e il piacere del cibo un diritto di tutti; scambiare le culture alimentari per aprirci agli altri.

Contro la crisi che alimenta egoismi, particolarismi e attitudini a difendere rendite di posizione occorre far sbocciare la generosità, che, come insegna Baruch Spinoza, “è la cupidità con cui ciascuno si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia” (Natoli S., 2010).

La generosità è, dunque, una passione al pari dell’odio, ma non è una passione triste, bensì attiva e distruttiva. Allontana le passioni malvagie e respinge le offese. Per questo, al di là delle sconfitte, la generosità alla lunga vince e, per quel tanto che può, salva, specie dinanzi ai grandi crolli della storia. Si tratta di far crescere la generosità, che è una passione, in attitudine razionale e riflessiva: la fraternità civile.

Bibliografia essenziale

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 (da A. De Dominicis (a cura di), “Amicizia e professione. Contributi al dibattito sul sociale”, Edizioni del Faro, 2013)

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