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Auguri a don Nicola per i suoi novanta anni

Egli si è adoperato per restituire, in forme moderne, al complesso conventuale di Tito la sua funzione di crocevia di cultura, economia e socialità. Funzione che aveva animato la comunità locale per tre secoli quando la popolazione s’identificava nell’ università (unione di tutti i cittadini) e gestiva direttamente i beni comuni.

don nicola

I novanta anni di don Nicola sono stati ben spesi al servizio della comunità di Tito. Egli è un sacerdote di grande cultura e di profonda spiritualità. I suoi libri sono preziosi per conoscere a fondo la storia locale. E i suoi discorsi stimolano sempre la riflessione. Di lui conservo bei ricordi. Due episodi, in particolare, mi affiorano alla memoria.

Il primo risale all’adolescenza. Avevo appena concluso il ginnasio nel seminario di Pompei ed ero incerto se proseguire quell’esperienza oppure continuare gli studi al Liceo “Orazio Flacco” di Potenza. Avvertivo un bisogno irresistibile di immergermi nella società per farmi carico dei problemi dei più deboli. Don Nicola, a cui mi ero rivolto per un consiglio, mi invitò caldamente a proseguire il mio percorso formativo al seminario maggiore di Salerno. Egli aveva intuito che la mia crisi interiore dipendeva da un moto di ribellione verso le forme autoritarie e gerarchiche imperanti. E mi convinse a partire per Salerno dove avrei potuto tenere meglio a freno il senso critico con cui incominciavo a guardare le cose.

Ma il tentativo non riuscì. Ero venuto in contatto, nel frattempo, con le comunità cristiane di base di Potenza e Lavello e fui coinvolto dal vento della contestazione che spirava nella Chiesa post-conciliare nei confronti delle gerarchie. Alla fine del secondo anno, non potei evitare l’espulsione dal seminario. “Meglio un buon padre di famiglia che un prete comunista” sentenziò il rettore quando mi comunicò la drastica decisione dopo aver aperto e letto, a mia insaputa, alcune lettere inviatemi da don Marco Bisceglia, animatore della comunità di Lavello. E così completai il corso di liceo a Potenza.

Con don Nicola mi ritrovai presto a collaborare quando giovanissimo divenni un dirigente comunista. Nel 1974, per la prima volta si elessero gli organismi scolastici con liste che non rispecchiavano la geografia dei partiti politici. Egli capeggiò una lista in cui vi erano genitori di sinistra in competizione con una lista ispirata dalla Dc e fu eletto. Lo fece perché pensava così di tutelare meglio le opere sociali  a cui si era da sempre dedicato. Emergeva in quella scelta l’uomo determinato che deve compiere la sua missione. E lo fa senza lasciarsi condizionare da pregiudizi e dimostrando una grande libertà.

Arrivammo così alle elezioni amministrative del 1975 con due liste contrapposte: quella della Dc capeggiata da Gerardo Scavone e una lista civica guidata da Nino Laurenzana e Domenico Gallerano e formata da comunisti, socialisti e democristiani dissidenti. La decidemmo in lunghe riunioni al convento sotto la guida di don Nicola, che era il più convinto assertore di quella scelta e che avrebbe partecipato direttamente alla battaglia elettorale se solo avesse potuto.

Tuttavia, vinse di nuovo la Dc. Ma lo strappo lasciò il segno in quel partito; e quell’alleanza anomala produsse fratture anche tra i comunisti, le cui frange più settarie non votarono la lista unitaria. A rappresentare la minoranza, entrammo in Consiglio comunale Nino Laurenzana, Salvatore Gatta, Pasquale Moscarelli ed io.

Cosa ha rappresentato per don Nicola la dedizione per il culto di Sant’Antonio, per le attività educative in favore dei minori in difficoltà e dell’infanzia, per l’ospitalità verso gli anziani da indurlo a scelte così coraggiose? Sicuramente la testimonianza di una religiosità non comune. Ma soprattutto la consapevolezza – che gli deriva dalla sua profonda cultura – che i tratti identitari della popolazione di Tito sono fortemente intrecciati con la storia del convento.

Il convento di Tito ha un’impronta marcatamente laicale come, del resto, tutti quelli che sorsero con il movimento dell’Osservanza nell’ambito del monachesimo francescano. Nasce infatti “dal basso”, agli inizi del Cinquecento, per iniziativa di un gruppo di frati originari del nostro piccolo borgo. L’intento è quello di promuovere un rinnovamento dell’ordine religioso, proponendo una più stretta osservanza della Regola e recuperando così il senso del distacco dalle cose.

Si utilizzano risorse raccolte localmente. Non solo lasciti e donazioni di singole famiglie ma anche beni appartenenti alle università di Tito e Pietrafesa (l’attuale Satriano di Lucania).  E così il convento ben presto diventa sede di uno “studium” di filosofia e teologia, nonché casa di noviziato. Negli archivi si conservano testimonianze di un’antica spezieria in cui venivano utilizzate piante officinali prodotte in un erbaio connesso all’orto murato. Insomma, i frati costituiscono un riferimento culturale e sociale importante per la comunità locale, non solo per gli aspetti religiosi ma anche per le attività di sostegno agli indigenti, quelle educative e socio-sanitarie. Insostituibile è la loro opera di soccorso nei casi di epidemia o a seguito di terremoti. E tutto questo fino all’Unità d’Italia, quando la comunità francescana si estingue e il complesso conventuale, ad esclusione della chiesa, viene lasciato in uno stato di incuria e di abbandono.

Don Nicola si è adoperato per restituire, in forme moderne, al complesso conventuale la sua funzione di crocevia di cultura, economia e socialità. Funzione che aveva animato la comunità locale per tre secoli quando la popolazione s’identificava nell’ università (unione di tutti i cittadini) e gestiva direttamente i beni comuni.

I giovani che oggi si prefiggono di ricostituire i legami comunitari, erosi dai processi di modernizzazione, devono conoscere questa storia ed essere consapevoli che la loro iniziativa non nasce dal nulla ma si collega, inscindibilmente, all’opera preziosa svolta da personalità come don Nicola.

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