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Quello che manca al Pd

Mettere in piedi un'azione continuativa e diffusa di formazione politica e connettere il partito alla società con piattaforme programmatiche implementate in partnership

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Ridisegnare le funzioni

Il Pd è il solo grande partito sopravvissuto, attraverso continue trasformazioni e ridenominazioni, alla crisi che i partiti italiani hanno conosciuto nell’ultimo quarto di secolo. Esso è l’unico ad aver mantenuto forme organizzative e modelli di democrazia interna che assomigliano a quelli dei partiti di una volta. Ma queste forme e questi modelli, se non rivisti profondamente, costituiscono anche la sua palla al piede. E potrebbero condizionarne inesorabilmente gli sviluppi futuri.

Le funzioni esercitate dai partiti nella società di massa, ormai da tempo alle nostre spalle, erano essenzialmente queste: 1) formare e selezionare la classe dirigente; 2) elaborare il programma elettorale; 3) partecipare alle elezioni per governare le istituzioni; 4) costruire e allargare il consenso prevalentemente mediante l’iniziativa volontaria e continuativa dei militanti nella società, nonché la promozione e il controllo di funzionari nelle strutture politiche e nei corpi intermedi.

Mentre le prime tre funzioni restano valide ancora oggi, la quarta va completamente riformulata per una serie di ragioni: 1) con la rivoluzione digitale si sono del tutto modificate le forme della comunicazione e, dunque, della formazione del consenso; 2) con la re-invenzione dell’economia civile e con lo sviluppo della cittadinanza attiva si sono progressivamente prosciugati gli spazi del volontariato politico; 3) con l’esplosione della vicenda giudiziaria di “tangentopoli” si è ridotto il finanziamento pubblico dei partiti e, di conseguenza, il numero dei funzionari si è molto assottigliato; 4) con la crescita della consapevolezza che il collateralismo, come cinghia di trasmissione tra partito e società, non sia più un valore ma un pericolo, i corpi intermedi si sono affrancati dalla subordinazione ai partiti.

Le nuove condizioni per la formazione del consenso 

Nel nuovo contesto, la formazione del consenso è un obiettivo che si può conseguire a due condizioni: la prima è di avere una forte e autorevole leadership così come si è affermata nel Pd  con la larga partecipazione popolare alle primarie di primavera; la seconda dipende da un intelligente utilizzo di nuovi strumenti della comunicazione, a partire da quelli messi a punto dalla segreteria Renzi (piattaforma Bob, gruppi di informazione politica, assemblee di ascolto, ecc.).

I due ingredienti che mancano

Per delineare il moderno soggetto politico, quale dovrà diventare il Pd per svolgere efficacemente le proprie funzioni, mancano ancora due ingredienti essenziali: un’azione continuativa e diffusa di vera e propria formazione politica a cui sottoporre i candidati a cariche elettive (ad ogni livello istituzionale) e la ri-progettazione del rapporto del partito con la società per formulare e monitorare la piattaforma programmatica di governo (ad ogni livello istituzionale) in partnership e, dunque, in modo aderente alla realtà.

Il primo ingrediente deve rimpiazzare le vecchie scuole di partito che avevano un impianto più ideologico che programmatico. Il secondo deve connettere il partito alla società, reinventando di sana pianta i modelli di relazione che in passato si realizzavano mediante l’apporto volontario dei militanti e il controllo di una classe dirigente diffusa non solo nelle istituzioni ma anche nei corpi intermedi della società.

La mancanza di questi due elementi è alla base dei fenomeni degenerativi che inducono la gente a disprezzare la politica e ad evitarla. Il fenomeno più appariscente da eliminare è l’esercizio della politica come potere personale non finalizzato ad una causa. Una pratica che, a lungo andare, determina inevitabilmente processi regressivi, come il correntismo e l’autoritarismo, fino al malgoverno e alla corruzione.

Essendo semplicemente un’arte o una tecnica, la politica non è un fine ultimo. È solo uno strumento per stare insieme civilmente. E allo stare insieme noi diamo, volta per volta, dei fini condivisi.

La politica va, dunque, intesa come servizio ai cittadini e alle comunità nel fluire concreto della quotidianità. E tale servizio dovrebbe svolgersi nell’ambito di  percorsi condivisi di collaborazione e intesa coi cittadini organizzati in gruppi o associazioni.

Non sarà facile sperimentare tali percorsi perché si tratta di mettere in discussione modalità correntizie con cui attualmente si gestisce il rapporto tra elettori ed eletti. Modalità che vedono, spesso, le forme associative della società civile coinvolte in modo distorto. Ma è questa la sfida da raccogliere se non si vuole assistere inermi all’implosione del Pd.

Elaborare e monitorare piattaforme di governo in partnership

Con il termine “partnership” non si intende fusione (e nemmeno confusione). E non si intende nemmeno rapporto di adesione politica e organizzativa dei diversi attori al partito. Non è un grimaldello per creare surrettiziamente un nuovo movimento politico o di riproporre  – con un nuovo lessico – l’esperienza fallimentare dei forum tematici o dei percorsi federativi di associazioni e raggruppamenti  civici desiderosi di esprimere rappresentanti diretti nelle istituzioni.

Con il termine “partnership” si intende piuttosto accordo di collaborazione intenzionale a termine per elaborare e monitorare una piattaforma di governo. L’accordo, infatti, può iniziare quando è ancora in costruzione una leadership politica (o nella fase immediatamente successiva)  e si conclude quando finisce una sua eventuale esperienza di governo (in caso di successo elettorale).

L’accordo di collaborazione è finalizzato a produrre un’interazione dialogica e sinergica fra organizzazioni che conservano la loro autonomia, ma che congiungono gli sforzi in processi e azioni comuni e identificabili, per produrre risultati e miglioramenti mediante una cooperazione convergente.

Le partnership sono dispositivi di comunicazione, collaborazione e condivisione fra attori che conservano identità proprie e – a partire da queste – attivano spazi di interazione in tensione fra comunanza di intenti e spinte divergenti. Esse attivano anche processi di emersione, considerazione e ricomposizione dei conflitti sociali attraverso azioni comuni.

L’obiettivo di fondo delle partnership è di identificare temi rilevanti ed elaborare contenuti programmatici – partendo da problemi complessi, bisogni sociali diffusi e orientamenti collettivi rilevati con strumenti scientifici – e monitorarli nelle fasi di realizzazione, qualora il Pd dovesse assolvere responsabilità di governo.

Qual è l’interesse che può spingere i partner a collaborare per tale obiettivo? Il Pd, da una parte, ha bisogno di alimentare il proprio profilo programmatico mediante un rapporto diretto con la società, per coglierne i bisogni, trasformare tali bisogni in politiche e verificare gli effetti di queste ultime per poterle continuamente adattare ad una realtà in rapida evoluzione. Le associazioni, le imprese e i gruppi di cittadini, dall’altra parte, hanno la necessità di interloquire stabilmente con la politica per rappresentare le proprie istanze e partecipare alla definizione delle politiche.

L’elaborazione e il monitoraggio dei contenuti programmatici costituiscono gli elementi principali di un progetto più ampio, identificato come progetto di partnership. Si tratta del dispositivo sociale che consente di dare senso all’azione, focalizzarla e orientarla, renderla governabile, tradurla in piano operativo.

Il progetto di partnership definisce l’accordo tra i soggetti in campo: accordo di programma e accordo con funzioni pratiche per concordare partecipazione, ruoli e spazi di azione. Il progetto esplicita (in forma non rigida) i confini dell’azione comune.  È il contenitore che dà forma alle molteplici aspettative, alle diverse idee, agli apporti da combinare.

Tale approccio va sperimentato con gradualità, partendo da comunità territoriali ben delimitate, per ottenere una partecipazione ampia dei soggetti sociali e una interlocuzione contestuale e proficua con gli eletti ai diversi livelli istituzionali.

Il progetto di partnership come educazione alla pratica della  laicità

Lo scoglio principale da superare non è soltanto la sfiducia dei cittadini nei confronti della politica, ma soprattutto il fatto che viviamo in società multiculturali e multideali complesse. Le appartenenze e le identità sono diventate molteplici e di natura diversa: territoriali, sociali, generazionali, sessuali, professionali, scientifiche, etniche, religiose, ideali, culturali. Attengono non solo a visioni del mondo ma anche, semplicemente, a specifici stili di vita e a modi distinti di relazionarsi, produrre e consumare. E tali antiche e nuove identità e appartenenze si sovrappongono nello stesso individuo e negli stessi gruppi, costituendo identità e appartenenze plurime.

Nelle democrazie del terzo millennio, solo un’educazione alla pratica della laicità potrà, dunque, permettere il confronto tra le diverse appartenenze e identità, il loro riconoscimento e la loro convivenza. Solo la pratica della laicità può costituire un antidoto alle identità “armate”. Solo la pratica della laicità può orientare le appartenenze e le identità verso il superamento delle proprie chiusure e intransigenze e ad aprirle alla comprensione reciproca e alla cooperazione universale.

La laicità non si contrappone all’identità ma la incivilisce e la fa evolvere nel cambiamento continuo globale. Più le pratiche laiche si affermeranno e più cresceranno l’apertura al diverso, l’inclusione sociale, l’interazione culturale, la vitalità sociale ed economica delle persone e delle comunità, le pari opportunità, e meglio potranno essere considerati e soddisfatti i nuovi bisogni. Meno le pratiche laiche si espanderanno e più si ergeranno i muri, si emargineranno gli ultimi, diventeranno esplosive le diseguaglianze.

Le partnership tra realtà associative, imprese e gruppi di cittadini, da una parte, e il Pd, dall’altra, dovrebbero, dunque, improntarsi ad un approccio laico, programmatico, fortemente ancorato ai problemi concreti da risolvere.

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One Response to Quello che manca al Pd

  1. Angelo Rispondi

    24 settembre 2017 a 14:35

    Ho letto con piacere l’articolo.Trovo i tuoi interventi sempre molto equilibrati e condivisibili. Un cordiale saluto. Angelo Bonanni

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