Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

L’agricoltura sociale: un percorso di sviluppo rurale e un peculiare modello di welfare locale

Paper scritto con Paolo Scarpino per il Colloquio scientifico annuale sull'impresa sociale - IV edizione - Roma 21 - 22 maggio 2010

asino

L’agricoltura sociale è l’insieme di pratiche in cui persone provate da varie forme di svantaggio o disagio trovano nelle attività agricole una chance per dare un significato alla propria vita e un senso alle proprie capacità.

Siffatte traiettorie si realizzano attraverso l’assunzione, in imprese agricole già esistenti, di soggetti svantaggiati (invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione) oppure di lavoratori svantaggiati (donne che hanno lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare tempi di vita lavorativa e tempi di vita familiare, persone sole con figli a carico, persone affette da dipendenze, disoccupati ultracinquantenni o di lungo periodo, ex detenuti). Ad essi si aggiungono le donne che hanno subito violenze e altri soggetti provati da diverse forme di disagio.

Percorsi di agricoltura sociale sono anche quelli che vedono protagonisti soggetti svantaggiati o  con disagi nella creazione di nuove aziende agricole in forma singola o associata su terreni di proprietà privata, pubblica o collettiva oppure confiscati alle organizzazioni criminali.

Rientrano, inoltre, nell’agricoltura sociale le attività agricole svolte dai detenuti su terreni di proprietà dell’amministrazione penitenziaria all’interno o all’esterno delle carceri.

Pratiche di agricoltura sociale sono, infine, tutti quei servizi ricompresi nelle politiche sociali ed  erogati da una struttura agricola, come i servizi socio-educativi per la prima infanzia o le attività rivolte a minori in difficoltà o che vedono protagonisti gli anziani o ancora che si attivano per accogliere e integrare gli immigrati nel tessuto civile del Paese.

Uno scenario in evoluzione

In Italia, come nel resto d’Europa, l’agricoltura sociale è un fenomeno in rapida evoluzione poiché è in grado di coniugare esigenze diverse: per gli agricoltori è, infatti, occasione di diversificazione dei redditi; per le comunità rurali è fattore di sviluppo locale ed opportunità per il rafforzamento dell’offerta di servizi essenziali; per le autorità pubbliche costituisce un originale modello di welfare in cui integrare differenti politiche (agricole, dello sviluppo locale, sociali, sanitarie, del lavoro). Si presenta come una realtà fortemente eterogenea nelle forme e nei sistemi di regolazione istituzionale: si va dallo spontaneismo d’iniziative singole ed innovative fino a realtà nazionali dove l’agricoltura sociale è parte integrata del sistema di welfare. In Belgio è in atto un processo di progressivo riconoscimento delle pratiche di agricoltura sociale da parte delle politiche agricole. In Olanda e Norvegia il fenomeno è largamente riconosciuto da parte delle istituzioni pubbliche e i servizi erogati dalle aziende agricole sono remunerati in termini monetari al pari di altri servizi.

Nel nostro Paese, le pratiche di agricoltura sociale sono caratterizzate da una pluralità di modelli organizzativi che dipendono dalle differenti motivazioni etiche ed economiche alla base delle singole iniziative; dalla varietà di figure sociali, competenze e risorse coinvolte e dalla molteplicità dei sistemi territoriali e delle forme di possesso della terra, dalla proprietà privata a quella pubblica e collettiva. Le prime esperienze formalizzate di agricoltura sociale sono nate negli anni ’70 con un forte carattere pionieristico, “dal basso”, in assenza di cornici istituzionali, dai movimenti per la costituzione delle cooperative giovanili su terreni di proprietà pubblica e per l’abolizione dei manicomi, dalla lotta alla tossicodipendenza e dalla denuncia della condizione carceraria. Quelle esperienze, laddove sono riuscite a sopravvivere, si sono rivelate tra le risposte più efficaci al disagio sociale, perché hanno permesso percorsi di riabilitazione e inserimento lavorativo in grado di riconoscere dignità alle persone coinvolte e tener conto delle esigenze delle loro famiglie. Si trattava di iniziative ispirate a valori di mutualità e solidarietà, a un modo nuovo di intendere il rapporto tra lo sviluppo e l’uso delle risorse agricole e ambientali, le relazioni città e campagna,  sorte per far fronte a un accresciuto divario tra i bisogni sociali e la capacità dello Stato di provvedere a questi.

Per un lungo periodo queste pratiche non hanno avuto alcun rilievo nelle politiche pubbliche nonostante il tentativo compiuto dal legislatore negli anni ’90 di ricondurre questo fenomeno nel più generale movimento emergente di solidarietà/assistenza auto-organizzata attraverso l’istituzione della “cooperazione sociale”, che si consolida come uno dei pilastri del sistema di welfare italiano. L’organizzazione di un welfare mix, pubblico/privato, previsto dalla normativa vigente, ha facilitato l’impiego di una pluralità di strumenti terapeutici e di inclusione, tra cui l’uso di risorse agro-zootecniche, ma l’incomunicabilità tra le politiche sociali e le politiche agricole e i relativi apparati politico-amministrativi ha ostacolato ogni azione pubblica volta ad incentivare tali percorsi. L’iniziale attenzione che negli anni ‘70 era stata rivolta dalle organizzazioni agricole e dalla politica agricola a tale fenomeno, inquadrandolo in un percorso di valorizzazione di tutte le risorse agricole e ambientali sia a fini produttivi che a fini sociali come risposta a bisogni più complessivi della collettività, successivamente andò scemando, per una serie di motivazioni legate ad una insufficiente capacità di leggere le trasformazioni avvenute nel  tessuto economico, sociale e culturale del Paese, e con essa si smarrì ogni legame tra sviluppo agricolo e welfare locale.

A seguito della modifica del paradigma dello sviluppo, indotta soprattutto dalle nuove politiche europee, emerge un’attenzione verso le aree rurali, come una tematica specifica, dotata di maggiore complessità rispetto alle dinamiche del solo settore agricolo; e in tale quadro innovativo viene recuperato e rilanciato l’obiettivo di favorire processi produttivi multifunzionali, cioè capaci di coniugare la produttività con la sostenibilità e di rendere competitiva l’agricoltura attraverso un maggiore orientamento verso quei prodotti e servizi che i cittadini richiedono.

Sicché diverse imprese agricole incominciano ad abbandonare il modello  produttivistico e tracciano nuovi percorsi più promettenti rispetto alle attese della società. Tali imprese sono condotte prevalentemente da giovani e da donne e sono perlopiù integrate nel tessuto economico e sociale del territorio. Si tratta di aziende di successo,  con redditi soddisfacenti per l’agricoltore e per la sua famiglia, e soprattutto con una nuova consapevolezza dell’importanza del proprio lavoro e della propria crescita professionale nel determinare i risultati dell’attività.

I percorsi multifunzionali adottati passano  per la mobilitazione di risorse proprie dell’impresa e del territorio. In particolare, l’innovazione si sostanzia nel riconnettere uomo e natura e nell’esaltare le specificità di entrambi, trasformandoli in fattori competitivi dell’attività economica.

Questi agricoltori innovatori sono alla ricerca di nuovi prodotti e tecniche colturali che fanno riscoprire l’importanza della diversità delle risorse naturali, il valore delle conoscenze e delle competenze volte a superare la standardizzazione a favore dell’artigianalità e della tipicità. Essi sviluppano, inoltre, relazioni non più esclusive con l’industria di trasformazione o coi centri di commercializzazione, ma relazioni a rete in cui l’impresa non è un recettore passivo, bensì un  costruttore attivo della stessa rete e delle sue regole, indirizzandole in maniera tale da ottenere la massima flessibilità, margine di manovra e libertà.

E’ in questa nuova temperie che negli ultimi anni, dapprima in alcune regioni e successivamente sul piano nazionale, reti di produttori agricoli innovatori hanno incrociato i pionieri dell’agricoltura sociale e si è riallacciato in forme nuove un dialogo che si era bruscamente interrotto nei decenni passati. Si vanno così sperimentando inedite modalità di collaborazione, di elaborazione comune e di scambio di buone pratiche con il coinvolgimento di organizzazioni, istituzioni e mondo della ricerca. Con la programmazione dello sviluppo rurale 2007/13, il Piano Strategico Nazionale (PSN) e i Piani di Sviluppo Rurale (PSR) delle Regioni hanno introdotto misure ed azioni specifiche volte ad incentivare l’agricoltura sociale. Si sono aperti diversi bandi e man mano che cresce la progettazione di iniziative incomincia anche l’opera di definizione delle normative.

Tuttavia, l’aver confuso l’agricoltura multifunzionale con la diversificazione delle attività aziendali, che ne costituisce solo un aspetto, non ha favorito la partecipazione ai bandi. Molte fattorie sociali adottano, infatti, strategie imprenditoriali e territoriali che si fondano sull’innovazione tecnologica e organizzativa del processo produttivo agricolo, sul potenziamento del capitale umano e sulla differenziazione dei mercati dei prodotti agricoli indotta da una domanda composita che va comprendendo sempre più un orientamento dei consumatori verso prodotti ad alto contenuto etico. Non si tratta solo di erogare dei servizi ma di rimodulare i processi produttivi, adeguare le professionalità e le competenze e affrontare i problemi commerciali.

L’altro aspetto che ha limitato l’accesso delle fattorie sociali ai bandi riguarda il fatto che la politica di sviluppo rurale non interviene nelle aree agricole periurbane per accrescere le opportunità di reddito legate a nuove attività turistiche, artigianali ed energetiche perché in tali settori opera ampiamente il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Per detti ambiti è comprensibile l’impostazione restrittiva nell’utilizzo del Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Regionale (FEASR), ma è del tutto miope applicarla anche per i servizi sociali erogati in ambiti agricoli perché il FESR non ha alcuna ricaduta sulle reti di protezione sociale delle aree urbane.

Manca, infine, una coerenza tra le azioni previste dalla politica di sviluppo rurale con le normative riguardanti la politica sanitaria. La recente costituzione di un Tavolo Interistituzionale per gli Interventi Terapeutici e Riabilitativi in Agricoltura (TITRA), presso l’INEA , di cui fanno parte il MiPAAF, il MiSE, il Dipartimento Salute del Ministero del Welfare, l’Istituto Superiore di Sanità e alcuni rappresentanti di istituzioni di ricerca e di alta formazione, è un primo atto concreto che va nella direzione di raccogliere e valutare in modo coordinato le ricerche concernenti l’efficacia delle pratiche di agricoltura sociale ai fini del loro inserimento nella rete dei servizi territoriali. Ma occorrerebbe un raccordo fecondo con le Regioni e con le forze sociali per rendere proficuo un simile impegno.

Come si è visto, l’evoluzione del fenomeno dagli anni ’70 ai nostri giorni, sia per i soggetti protagonisti che per le politiche pubbliche, spiega perché nel nostro Paese prevalgano le iniziative nell’ambito della cooperazione sociale, ma fa emergere anche una peculiarità tutta italiana dovuta alla singolare storia delle prime esperienze realizzate trent’anni fa. In sostanza, si registra  dapprima un’attenzione delle politiche agricole verso il fenomeno, una successiva noncuranza e ora una riscoperta indotta dall’incontro tra “nuovi agricoltori” e pionieri dell’agricoltura sociale nell’ambito delle politiche di sviluppo rurale e delle politiche di welfare community. Il futuro di tali pratiche va, dunque, inquadrato nell’evoluzione di queste politiche e nella loro capacità di integrarsi.

Alcuni numeri dell’agricoltura sociale

Un censimento completo delle esperienze di agricoltura sociale in Italia non è stato mai fatto. A fine 2003, l’ISTAT ha rilevato 471 cooperative sociali di tipo B che svolgono attività agricole finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Tra il 2003 e il 2005 esse sono diventate 571 con un aumento  del 21 %, un dato in netta controtendenza rispetto a quello delle imprese agricole tout court. Si tratta di una somma significativa se si raffronta con quella dell’insieme delle cooperative agricole, che sono 5.748.

Il ruolo d’inclusione lavorativa svolto dalla cooperazione sociale in agricoltura è abbastanza importante: oltre 7.100 sono i lavoratori svantaggiati occupati in queste imprese, un’entità pari al 30 % del totale di tali lavoratori che trovano occupazione nel complesso delle cooperative sociali di tipo B. Considerando che l’incidenza in termini di numero di imprese è inferiore, emerge come le cooperative sociali agricole includano in media un numero maggiore di soggetti rispetto al resto della cooperazione sociale di inserimento lavorativo. Le tipologie di svantaggio presenti sono varie. Le cooperative sociali agricole tendono, rispetto al complesso della cooperazione sociale, a coinvolgere lavoratori con tipologie di svantaggio a maggior rischio di esclusione sociale, come i pazienti psichiatrici, i detenuti, gli ex detenuti e i tossicodipendenti. Sono soprattutto questi soggetti a mostrare interesse all’agricoltura sociale poiché, mediante il contatto con le piante e con gli animali e il coinvolgimento nelle attività agricole, essi riscoprono la loro potenzialità interiore e il senso di responsabilità individuale che permettono di ritrovare un equilibrio motivazionale e relazionale.

Esaminando le principali voci del conto economico delle cooperative sociali, per settori di attività, risultanti dai bilanci 2007 depositati presso il Registro delle imprese delle Camere di Commercio, emerge che il fatturato delle imprese che si occupano di agricoltura, caccia e silvicoltura ammonta a 229 milioni  e 650 mila euro, per un valore medio per impresa di 502.520 euro. Sempre nel 2007 le cooperative sociali che svolgono attività nei settori dell’agricoltura, caccia e silvicoltura fanno registrare un valore della produzione pari a 251 milioni e 40 mila euro, con un importo medio per cooperativa di 549.330 euro. Per quanto riguarda il valore aggiunto, esso si è ragguagliato nel 2007 per le cooperative sociali operanti in ambito agricolo a 133 milioni e 230 mila euro. Mentre il valore aggiunto per addetto, il cui livello fornisce un proxy della produttività del lavoro, è pari a 21.560 euro. Nello stesso anno il valore aggiunto dell’agricoltura, compresa la silvicoltura e la pesca, è risultato essere di 27.926 mio. di euro, mentre il valore aggiunto per unità di lavoro si è attestato a 21.559 euro. Come si può notare, si tratta di cifre importanti ed è sorprendente la coincidenza della produttività del lavoro nelle cooperative sociali che svolgono attività agricole con quella che si registra nell’intero settore primario.

L’agricoltura sociale come modello innovativo della multifunzionalità

L’agricoltura sociale è un modello che si accosta molto, senza coincidere del tutto, con quello che Van der Ploeg ed altri studiosi hanno definito “nuovo modello contadino” in cui l’attività è finalizzata alla creazione e allo sviluppo di risorse base autocontrollate ed autogestite che a loro volta forniscono le forme di coproduzione tra uomo e natura vivente, interagiscono con il mercato, rafforzano le prospettive future e migliorano le risorse stesse ed il processo impiegato nella coproduzione, accrescendo l’autonomia dell’impresa e riducendone la dipendenza da fattori esterni non controllabili.

Non si tratta di un modello antitetico a quello della modernizzazione agricola, piuttosto di un vero e proprio nuovo modello  che rielabora al suo interno conoscenze scientifiche, tecnologie e pratiche  proprie della modernizzazione, ma con differenti finalità ed una forte capacità di selezione  di queste sulla base  degli obiettivi di rafforzamento del processo di produzione e di miglioramento e controllo delle risorse di base.

Il modello neocontadino prevede strategie imprenditoriali che contengono almeno uno degli elementi di seguito indicati o che, qualora vi siano entrambi, si caratterizzano per la prevalenza dell’uno sull’altro:

  • la qualificazione dei prodotti, attraverso l’utilizzazione di nuovi sistemi di produzione per ottenere beni agricoli diversi da quelli convenzionali (prodotti biologici) o reintroducendo o migliorando i sistemi tradizionali che esaltano la vocazionalità dell’area e le competenze locali come le produzioni di qualità tutelate, oppure acquisendo funzioni a valle della fase di produzione come la trasformazione e vendita diretta in azienda;
  • la diversificazione delle attività, mediante l’ampliamento delle attività produttive a nuove funzioni sempre localizzate nell’ambito dell’impresa primaria quali l’agriturismo, le attività didattiche con le scuole e la produzione di energia,  o che possono essere  del tutto indipendenti dalla produzione agricola come il turismo rurale e la gestione del paesaggio.

Ebbene, nelle strategie imprenditoriali adottate nell’ambito dell’agricoltura sociale vi è una terza componente che potremmo individuare come “lo sviluppo delle capacità delle persone coinvolte nel processo produttivo”, il quale si ottiene attraverso l’utilizzazione di processi produttivi inclusivi ed ecocompatibili (dal biologico ai metodi che escludono completamente la meccanizzazione) e che sovrapponendosi ai due elementi del modello neocontadino, arricchisce sia gli aspetti legati alla qualificazione dei prodotti (alimenti ad alto contenuto etico), sia gli aspetti della diversificazione delle attività (servizi terapeutici, riabilitativi ed educativi non genericamente forniti in campagna ma erogati mediante l’attivazione di processi produttivi agricoli in grado di rendere più efficaci i risultati in termini di benessere delle persone).

L’agricoltura sociale si presenta, dunque, come un modello peculiare della multifunzionalità dell’agricoltura: un’innovazione organizzativa che può rendere più competitive e attrattive le aree rurali. Quando il processo produttivo agricolo viene adattato all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate esplica sempre almeno tre funzioni: 1) produrre alimenti di qualità; 2) assicurare un servizio sociale alla comunità locale; 3) tutelare l’ambiente e la biodiversità. Quando viene poi adattato per organizzare l’erogazione di servizi alla persona esplica l’ulteriore funzione di diversificare le attività aziendali.

L’agricoltura sociale come ambito di produzione di beni pubblici e relazionali

L’economia contemporanea distingue i beni essenzialmente in pubblici e privati. I beni privati sono beni perfettamente escludibili (nei confronti di altri consumatori) e rivali nel consumo (se qualcuno consuma quello stesso bene, la mia utilità diminuisce). I beni pubblici, invece, sono beni che non possiedono queste due caratteristiche: non sono tendenzialmente né escludibili né, soprattutto, rivali nel consumo. Per comprendere invece la peculiarità dei beni relazionali bisogna uscire dal binomio “bene pubblico-bene privato” e assumere un paradigma diverso. A differenza dei normali beni di mercato, siano essi privati o pubblici, dove la produzione è tecnicamente e logicamente distinta dal consumo, i beni relazionali (come molti servizi alla persona) si producono e si consumano simultaneamente; il bene viene co-prodotto e co-consumato al tempo stesso dai soggetti coinvolti. Si tratta, inoltre, di beni che non possono essere né prodotti né consumati da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità delle interazioni con altre persone e possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità. Sono, infine, beni diversi dalle merci perché il loro valore consiste nel soddisfare un bisogno attraverso il dono.

Gli economisti agrari sono soliti includere tra i beni pubblici richiesti dai cittadini e forniti dagli agricoltori la lotta contro il cambiamento climatico, la conservazione della biodiversità, la protezione della fertilità dei suoli, la gestione delle risorse idriche, la conservazione del paesaggio, la salubrità degli alimenti e la salute degli animali e delle piante.

Come si è già visto, l’agricoltura sociale produce beni pubblici, ma fornisce anche beni relazionali. Essa è, infatti, un peculiare modello produttivo, in cui la produzione di un bene alimentare e la produzione di un servizio sociale sono congiunte – l’una cosa non si realizza senza l’altra – né più né meno di quanto avviene quando una pratica produttiva agricola produce conservazione di biodiversità. Si è nell’ambito di una costruzione sociale in cui si sperimenta l’idea di legare la produzione di ricchezza economica e la produzione di ricchezza sociale, rompendo gli steccati tra specialismi e settori e rimescolando la separazione che caratterizza gli Stati moderni tra produzione privata della ricchezza economica e redistribuzione pubblica.

Vi è bisogno di approfondire le conoscenze intorno al capitale sociale alimentato dall’agricoltura sociale e agli effetti che esso produce sullo sviluppo. Detto capitale sociale è denominato anche “capitale civile locale” perché le organizzazioni che lo producono generano relazioni che evidenziano quegli elementi di gratuità e solidarietà, reciprocità non strumentale, fiducia generalizzata e apertura al diverso, insieme a responsabilità individuale e capacità decisionale, che appartengono alla naturale predisposizione dell’uomo e della convivenza sociale. Le cooperative sociali che includono persone svantaggiate in attività agricole e le imprese agricole che adottano percorsi di responsabilità sociale producono relazioni interpersonali con siffatte caratteristiche qualitative.

Nelle aree rurali la produzione di beni relazionali è indispensabile per favorire lo sviluppo locale perché tali beni caratterizzano le specificità e i valori della ruralità ed evitano il loro appiattimento sui valori e sugli stili di vita diffusi nelle aree urbane. Del resto, gli abitanti delle città cercano nelle aree rurali ciò che sentono di aver perduto e che invece ritengono essere ancora presente nel modo di vivere delle campagne.

L’insieme dell’agricoltura potrebbe proporsi di produrre beni relazionali qualora abbandonasse l’approccio tradizionale posto a base del paradigma della modernizzazione, che fondava i rapporti esterni alle aziende esclusivamente sui legami con il mondo agroindustriale attraverso la produzione di materie prime, e ampliasse la propria ottica verso una riconnessione delle attività produttive alla località, creando nuovi reticoli intorno alla fornitura di prodotti di qualità, servizi agrituristici, servizi alle persone, attività culturali, iniziative di accoglienza e integrazione di immigrati e favorendo un miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali. Le reti orientate all’ambito locale, mediante la produzione di beni quali la reciprocità, il mutuo aiuto e il dono, non sono alternative ai mercati internazionali dei prodotti agricoli, ma permettono di rafforzare e allargare quel capitale sociale che può dare autenticità ai valori che sottendono la ruralità, scongiurando il rischio di una loro banalizzazione e di una sostanziale perdita di attrattività dei territori rurali. Si può sostenere, in definitiva, che l’agricoltura sociale, producendo in modo congiunto beni alimentari, beni pubblici e beni relazionali, contribuisce allo sviluppo economico e sociale dei territori rurali perché consente di accrescere la capacità dei territori stessi sia di costituire reti locali che migliorano la qualità della vita e l’attrattività dei luoghi, sia di organizzarsi con strumenti associativi idonei a conquistare nuovi mercati interni e internazionali, sia per quanto riguarda i prodotti tipici che i servizi legati alle attività agricole.

L’agricoltura sociale come percorso implicito di RSI

Se si guarda attentamente ai comportamenti messi in atto da una fattoria sociale, ci si rende immediatamente conto di trovarsi dinanzi a percorsi impliciti di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), così com’è stata definita dalla Commissione Europea nel famoso Libro Verde del 2001: “L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.  A seguito della rinnovata strategia di Lisbona volta a promuovere la crescita e l’occupazione in modo pienamente coerente con lo sviluppo sostenibile, la Commissione europea nel 2006 ha riconosciuto che la RSI  può “fornire un contributo essenziale allo sviluppo sostenibile rafforzando al tempo stesso il potenziale innovativo e la competitività dell’Europa” e ha invitato tutti gli operatori pubblici e privati a riflettere sulle misure necessarie per la sostenibilità e ad avanzare proposte ambiziose che vadano oltre i requisiti legali minimi vigenti.

Ebbene, le fattorie sociali adottano volontariamente comportamenti che si fanno carico delle preoccupazioni sociali e ambientali della collettività e che si possono così sintetizzare:

a) promuovere inclusione sociale e lavorativa di persone con svantaggi o disagi;

b) organizzare servizi sociali per la comunità;

c) salvaguardare la qualità ambientale e gli equilibri ecologici;

d) promuovere la salute e il benessere animale;

e) qualificare le produzioni agricole;

f) offrire fruizione e “godimento” dello spazio rurale.

Per fare in modo che tali comportamenti diano luogo a veri e propri percorsi di RSI è necessario che una fattoria sociale adotti gli strumenti previsti per tale scopo scegliendoli tra quelli maggiormente in uso in agricoltura e nel sistema agroalimentare. Di seguito se ne riportano alcuni:

a) sistema di controllo e certificazione delle produzioni da agricoltura biologica;

b) sistemi di qualità e ambientali;

c) etichette sociali e marchi etico-sociali (SA 8000);

d) marchi collettivi di natura pubblica (c.d. marchi geografici) o di natura privata (consorzi di imprese, cooperative, associazioni);

e) carte dei valori;

f) bilanci di sostenibilità;

g) “fare rete” (es. distretti rurali di economia solidale).

Se una fattoria sociale vuole perseguire un percorso esplicito di RSI dovrà necessariamente “fare rete” perché nell’agricoltura sociale opera sempre una pluralità di attori pubblici, privati, privato-sociali (agricoltura, servizio sociale, ecc.). Si tratta, infatti, di un percorso specifico di sviluppo rurale e nel contempo di welfare locale, che si realizza in una logica distrettuale.

La fattoria sociale dovrà, pertanto, “fare rete” coi soggetti che partecipano al processo produttivo dell’azienda agricola (es. fornitori, destinatari, tecnici) o all’organizzazione dei servizi alla persona (es.utenti, operatori sociali, educatori); con altre fattorie sociali che eventualmente operano nei dintorni e con altri soggetti del territorio (es. terzo settore, agriturismo, turismo rurale, artigianato rurale, enti locali, enti parco, ospedali, università, centri di ricerca).

“Fare rete” come strumento della RSI

L’applicazione dello strumento “fare rete” nella progettazione di una o più fattorie sociali prevede una serie di azioni che vanno adeguatamente pianificate.

Per definire l’idea progettuale, si dovrà innanzitutto costituire un tavolo di confronto o un forum tra soggetti pubblici e privati e si formalizzerà la proposta mediante la stipula di un protocollo d’intesa tra tutti coloro che si impegnano a partecipare all’attività di progettazione.

Tutti coloro che ritengono di poter trarre un beneficio da un progetto di agricoltura sociale potranno attivare un processo partecipativo che condurrà alla definizione di un’idea progettuale, alla creazione di un partenariato, alla stipula di un protocollo d’intesa, all’elaborazione e alla realizzazione del progetto.

Al partenariato potranno partecipare non soltanto organizzazioni di rappresentanza ed enti pubblici ma anche singole strutture (imprese, cooperative, associazioni, ecc.) e singoli cittadini (persone e gruppi familiari) in quanto non si tratta di dar vita ad un’aggregazione di soggetti che mediano interessi, ma alla tessitura continua di rapporti tra soggetti che intendono fare un percorso condiviso di progettazione partecipativa.

Inoltre, l’attività di progettazione andrebbe programmata sulla base di un’accurata analisi delle caratteristiche del territorio in cui si opera sotto il profilo produttivo, sociale, demografico, ambientale e degli stessi modelli di regolazione locale. Senza questa specifica capacità di lettura, la pratica sociale non raggiungerà risultati apprezzabili.

In sostanza, l’attività di progettazione va intesa come un processo di crescita e di sviluppo comune di tutti i soggetti che intendono partecipare all’iniziativa. Se, ad esempio, si coinvolgono tutti gli attori nell’analisi dei bisogni e nell’individuazione delle strategie di sviluppo, si compie un cammino condiviso nella lettura di un territorio. E gli obiettivi, così definiti, saranno percepiti come impegno comune che andrà a rafforzare ulteriormente i legami sociali e i vincoli identitari del territorio medesimo.

Praticando la partecipazione come auto-apprendimento, i diversi soggetti rafforzeranno la capacità di leggere i bisogni; di influenzare più efficacemente le decisioni che riguardano la formulazione degli obiettivi; di maneggiare meglio gli strumenti della progettazione.

Si tratta di adottare il modello della ricerca-azione, multi-obiettivo e multi-disciplinare, vale a dire una procedura d’analisi che conduca, nelle sue conclusioni, a pianificare le azioni del progetto che si intende realizzare, da fondare sulle informazioni provenienti dalla ricerca, sulle relazioni che si svilupperanno e sulle potenzialità che da essa emergeranno.

Questo approccio è importante perché aiuta a favorire la condivisione delle problematiche ma anche delle opportunità. Più questo aspetto della progettazione si radica nel territorio, meglio l’iniziativa potrà sopravvivere perché risponderà alle esigenze reali e avrà motivo di esistere.

Dalla lettura partecipata e condivisa dei fabbisogni del territorio e dal confronto tra i fabbisogni, le motivazioni degli imprenditori e le risorse territoriali e aziendali si potranno individuare i gruppi obiettivo. Con il loro coinvolgimento si potranno così scegliere i percorsi inclusivi, educativi, terapeutici e riabilitativi, nonché i piani personalizzati di autonomia per le persone deboli che parteciperanno al progetto.

Un’analisi dei bisogni e delle risorse territoriali che sia in grado di suggerire, strada facendo, quei cambiamenti che si dovessero rendere necessari al mutare delle esigenze deve accompagnarsi ad un’azione di verifica, monitoraggio e valutazione.

A tal fine, un disegno di valutazione sarà predisposto nella fase iniziale della ricerca, in cui verranno definite metodologie e strutture teoriche di riferimento.

La centralità della valutazione in tale processo sarà determinante per monitorare l’andamento dell’analisi e per replicare tra gli attori della ricerca un metodo partecipativo di auto-verifica che si intende diffondere nella comunità oggetto di studio e soggetto d’azione.

Le reti nazionali e territoriali dell’agricoltura sociale, in collaborazione con la Rete Rurale Nazionale, le Agenzie di Sviluppo Agricolo delle Regioni e le strutture di ricerca e di alta formazione che abbiano una propensione alla multidisciplinarietà, potranno svolgere un’azione di supporto alla progettazione, favorire lo scambio di esperienze, agevolare la fluidità dei processi amministrativi e acquisire dalle azioni di analisi, monitoraggio e valutazione dei progetti gli elementi utili per l’individuazione più puntuale delle ricadute delle politiche pubbliche.

 

Bibliografia essenziale

 

AA.VV., Le nuove frontiere della multifunzionalità: l’agricoltura sociale. Atti del Convegno Nazionale dell’ALPA, Ripatransone (AP), 17 novembre 2006, ALPA, 2007

AIAB (a cura di), Bio agricoltura sociale, buona due volte. Risultati dell’indagine di AIAB sulle bio-fattorie sociali. Realtà, problematiche, prospettive di sviluppo, Roma, 2007

AIAB (a cura di), L’agricoltura oltre le mura. I risultati della ricerca di AIAB sulle attività agricole negli istituti penitenziari, Roma, 2009

Briamonte L., Hinna L. (a cura di), La responsabilità sociale per le imprese del settore agricolo e agroalimentare, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008

Bruni L., Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Bruno Mondadori, Milano, 2006

Caggiano M., Giarè F., Vignali F., Vite contadine. Storie del mondo agricolo e rurale, INEA, Roma, 2009

Ciaperoni A.(a cura di), Agricoltura biologica e sociale. Strumento del Welfare partecipato, AIAB, Roma, 2008

Di Iacovo F. (a cura di) Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, Franco Angeli, Milano, 2008

Finuola R., Pascale A., L’agricoltura sociale nelle politiche pubbliche, INEA, Roma, 2008

Giarè F. (a cura di), Mondi agricoli e rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali, INEA, Roma, 2009

Noferi M. (a cura di), Agricoltura sociale e agricoltura di comunità, ARSIA, Firenze, 2007

Pascale A., Linee guida per progettare iniziative di agricoltura sociale, INEA, Roma, 2009

Pascale A., Una Pac per produrre anche beni relazionali in Agriregionieuropa, marzo 2010, http://www.agriregionieuropa.univpm.it/dettart.php?id_articolo=569

Senni S., Competitività dell’impresa agricola e legame con il territorio: il caso dell’agricoltura sociale in Agriregionieuropa, marzo 2007,

http://www.agriregionieuropa.univpm.it/dettart.php?id_articolo=202

Ventura F. e altri, La vita fuori della città, AMP Edizioni, Perugia, 2008

 

 

Sitografia

Agrietica, www.agrietica.it

Farming for Health, International community of practice, www.farmingforhealth.org

Il Lombrico Sociale, http://www.lombricosociale.info

So.Far – Social Farming, http://sofar.unipi.it

Rete Fattorie Sociali, www.fattoriesociali.it

RelatedPost

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>