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Agricoltura, Europa, Federalismo

Sono necessarie modifiche rilevanti alla seconda parte della Costituzione sulla forma di Stato, per ottenere un federalismo solidale che rafforzi e non indebolisca l’unità nazionale e consenta di restare in Europa. L’applicazione dell’art. 138 della Costituzione, anche se accidentata, è una strada da perseguire per fare le riforme che i cittadini italiani attendono da oltre quindici anni

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Il federalismo è la forma di Stato che può consentire all’agricoltura come all’insieme del sistema produttivo italiano di fronteggiare meglio la costruzione europea e, in generale, la globalizzazione dell’economia, dell’informazione e delle tecnologie. Intanto, con la moneta unica, non potremo più fare le “svalutazioni competitive” per aggiustare in modo artificiale le nostre condizioni di competitività nei confronti degli altri Paesi. Si apre la fase della competitività reale e non più cartacea del nostro sistema produttivo, una competitività legata ai diversi costi di produzione e ai diversi sistemi di qualità dei processi e dei prodotti. Urgono, pertanto, nuove politiche di sviluppo. Ma queste politiche, per essere efficaci, dovranno essere programmate e gestite dal basso. È poi l’evoluzione della Pac e delle politiche di coesione dell’Unione europea che spinge verso un’applicazione generalizzata del principio di sussidiarietà e modalità di gestione che impongono una profonda riforma della pubblica amministrazione.

L’affermarsi progressivo del mercato aperto ha messo in discussione lo statalismo, su cui si è fondato lo sviluppo economico specie del vecchio continente, ed ha posto l’esigenza di un pluralismo di autonomie istituzionali, funzionali e rappresentative di interessi economici e sociali.

Globalizzazione e localismo sono due fenomeni destinati ad accrescersi ed a creare conflitti e contraddizioni, fino a quando non sarà trovato un punto di equilibrio, un compromesso accettabile tra unità e diversità.

Gli agricoltori non hanno interesse a porsi contro la globalizzazione ed a rinchiudersi in logiche secessioniste, perché trovano più vantaggioso fronteggiare la maggiore apertura dei mercati in un quadro di regole, che permetta la competizione tra sistemi produttivi distinti e specifici e tra produzioni legate al territorio, anziché farsi proteggere dalla concorrenza da parte del potere statale, sia nazionale che comunitario. La competizione consente loro di mettersi in gioco e crescere, mentre il protezionismo li condannerebbe al depotenziamento delle proprie capacità imprenditoriali e alla marginalizzazione. Si tratta di coniugare identità personale e cultura specifica dei soggetti con la loro propensione a partecipare al cambiamento; nello stesso tempo, occorre favorire questo processo facendo leva sulla libertà personale e responsabile. Il risultato dovrà essere una globalizzazione non solo dei mercati ma anche dei diritti e dei doveri.

L’agricoltura europea è interessata a questa evoluzione perché ha un carattere poliedrico, è fortemente integrata con il territorio ed è fondata sulle specificità e le diversità. Si tratta di affermare l’idea che la tutela dell’ambiente, la valorizzazione del paesaggio, la disponibilità di questo prezioso giacimento di risorse artistiche e culturali, di cui è colmo il nostro territorio, possono diventare tutt’uno con la valorizzazione delle nostre produzioni tipiche, collegate alla storia, alle tradizioni, ai saperi collettivi delle nostre immense aree rurali. Se l’Europa assume la difesa di questo modello agricolo – completamente diverso da quello esistente nei Paesi concorrenti, fondato invece sulle grandi rese, le produzioni di massa, l’omologazione dei consumi e dei gusti – comprenderà che dovrà adattare la nuova Pac a questo modello. E dovrà, poi, difenderla, estendendo i contenuti degli accordi internazionali a regole in materia di tipicità, sicurezza degli alimenti, informazione corretta ai consumatori della provenienza dei prodotti. Così si può affermare una cultura dei diritti e dei doveri ed un pluralismo dei sistemi produttivi e dei modelli alimentari. Ciò presuppone una capacità dei sistemi locali di autorappresentarsi ed incidere nell’evoluzione dell’economia e della società. Il federalismo può costituire una risorsa utile a tale finalità.

Ma a quale modello di federalismo è interessata l’agricoltura italiana? Siamo interessati ad un federalismo che contempli non solo il decentramento di funzioni e compiti, bensì introduca anche forti elementi di sburocratizzazione e soprattutto faccia crescere la partecipazione sociale.

Siamo interessati ad un federalismo fortemente ancorato alla costruzione europea. Se prevarrà il sistema della federazione degli Stati-Nazione, l’impalcatura dei rapporti da Bruxelles fino all’ultimo comune d’Europa dovrà fondarsi sul principio di sussidiarietà. La caratteristica principale di tale principio è l’estrema flessibilità nell’identificazione del livello di governo competente. L’individuazione di tale livello va rapportata a più elementi: alle caratteristiche e alle dimensioni delle diverse realtà; alle capacità effettive delle diverse istituzioni di esercitare adeguatamente le funzioni di governo assegnate; ad una verifica delle condizioni di efficienza e di economicità con cui possono essere svolte le funzioni amministrative. Si tratta di concordare tra Stato e Regioni e, successivamente, tra Regioni ed enti locali interessati, forme di gradualità, sperimentazione e differenziazione per facilitare le imprese nell’accesso alle funzioni pubbliche e non danneggiarle.

Flessibilità significa, quindi, che ci possono essere soluzioni diverse da Regione a Regione nell’attribuire le competenze agli enti locali. È giusto allora affermare il principio che le differenziazioni tra gli enti locali possono essere decise solo a livello regionale. Decidere dal centro tali differenziazioni porterebbe ad una sorta di uniformismo, come l’ultima manifestazione dell’accentramento. Una scelta federalista coerente, invece, comporta necessariamente l’attribuzione di una sfera di autonomia alle Regioni nella definizione di un proprio modello istituzionale. Ma per superare il conservatorismo che alligna anche a livello regionale e le diffidenze reciproche tra Regioni ed enti locali, sono necessarie soluzioni fortemente innovative. È stato proposto di introdurre, tra gli organi delle Regioni, un Consiglio regionale delle autonomie locali. Può essere il modo più efficace per aggregare tutte le forze autonomiste in patti regionalisti, che diano identità e rafforzino la capacità di rappresentanza delle istanze territoriali nei confronti del centro.

Il principio di sussidiarietà va inteso in senso orizzontale, come valorizzazione delle organizzazioni sociali, potenziando le sedi di partecipazione alle scelte del potere pubblico e facilitando il loro coinvolgimento negli strumenti del partenariato e della programmazione negoziata per lo sviluppo locale. Inoltre, sussidiarietà significa anche che lo Stato svolge direttamente attività di interesse pubblico solo se le formazioni sociali non le svolgono già in modo adeguato. Si tratta, allora, di tenere nel giusto conto le funzioni dei consorzi di bonifica e di altre strutture di autogoverno che svolgono compiti di interesse pubblico. La montagna, ad esempio, non sopravviverà se non promuoviamo la nascita di nuove aggregazioni di cittadini a cui affidare la gestione del ripopolamento di queste aree, come condizione del loro futuro.

Ma la conseguenza del principio di sussidiarietà è anche quella di individuare nuovi strumenti privati a cui affidare la gestione delle fasi non discrezionali dei procedimenti. In tal modo, l’attribuzione di nuove funzioni agli enti locali non significa caricarli di una mole gigantesca di adempimenti. Certo, un’impostazione di questo tipo comporta una riqualificazione del funzionario pubblico da soggetto che pianifica e gestisce i programmi senza confrontarsi con nessuno a soggetto che sa mediare, negoziare, pattuire condizioni di pubblico interesse e sa farsi garante del buon funzionamento del mercato, sviluppando le attitudini al controllo e alla vigilanza.

Siamo interessati ad un federalismo che si regga su forti elementi di riequilibrio e perequazione tra le diverse aree; che consenta, ad esempio, alle collettività montane di poter partecipare alla valorizzazione delle risorse provenienti dalla montagna ed utilizzate altrove. Si tratta di affrontare il grande tema della redistribuzione delle risorse e delle forme nuove di solidarietà.

Ci vuole un federalismo, che determini forti saldature e raccordi molto stretti tra le diverse articolazioni del sistema istituzionale e soprattutto nelle relazioni tra centro e periferia, in modo che possa essere esaltata la ricchezza dei caratteri territoriali e si possa trovare un equilibrio strutturale al centro. La seconda Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali può soddisfare tale esigenza. È in questo modo che si può realmente rafforzare il ruolo di indirizzo, coordinamento e rappresentanza internazionale delle strutture centrali, come apporto convergente di tutte le istanze vive del Paese.

Sono, perciò, necessarie modifiche rilevanti alla seconda parte della Costituzione sulla forma di Stato, per ottenere un federalismo solidale che rafforzi e non indebolisca l’unità nazionale e consenta di restare in Europa. L’applicazione dell’art. 138 della Costituzione, anche se accidentata, è una strada da perseguire per fare le riforme che i cittadini italiani attendono da oltre quindici anni.

Nel frattempo, occorre agire fino in fondo per conseguire il federalismo amministrativo a Costituzione invariata. Per quanto riguarda l’agricoltura bisogna superare forti ritardi sia a livello centrale che nella maggioranza delle Regioni. Non si sono ancora riorganizzati gli uffici del Ministero. Non si sono ancora fatti i decreti per la soppressione e il riordino degli Enti e degli Istituti collegati al Mipa. Non si sono ancora individuati i beni e le risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle Regioni.

Tuttavia, tali inadempienze non giustificano l’inerzia della maggioranza delle Regioni nell’attribuire le funzioni agricole agli enti locali, poiché tali funzioni già sono state trasferite dallo Stato. Si tratta, invece, di procedere con celerità nell’applicazione del principio di sussidiarietà, individuando in modo flessibile il livello di governo competente per i diversi compiti e spostando quanto più possibile le attività pubbliche sui soggetti sociali organizzati, per ottenere il massimo di snellimento e velocità delle procedure burocratiche. In conclusione, il federalismo rappresenta oggi la forma di Stato più utile all’Italia per garantire condizioni di equilibrio, coesione e sviluppo nella fase di globalizzazione che viviamo: esso deve fondarsi non solo sul decentramento, ma sulla sburocratizzazione più spinta possibile e sulla diffusione di una pluralità di poteri autonomi, sociali, funzionali e istituzionali, come condizione per affermare la libertà.

(Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista “Le ragioni del Socialismo” n. 29/Anno III Settembre 1998)

 

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