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Agricoltore e contadino

Nel linguaggio corrente le persone che si occupano della coltivazione della terra sono indicate indifferentemente coi termini “agricoltore” e “contadino”. Quasi fossero sinonimi. Tra polisemie e reinvenzioni un viaggio nella storia e nell'attualità alla ricerca della "ruralitudine"

Orti periurbani della valle del fiume Entella (Liguria)

Orti periurbani della valle del fiume Entella (Liguria)

Oggi chi sono gli agricoltori e chi sono i contadini? Quali sono le somiglianze e quali le differenze? Corrispondono a delle persone che hanno uno status sociale specifico o sono termini che descrivono solo un modo d’essere, una condizione di vita e di lavoro? Proviamo a rispondere a queste domande mettendo insieme storia e attualità, sedimentazioni e cambiamenti, spostamenti e restanze, cesure e reinvenzioni, persistenze e meticciamenti, trasformazioni traumatiche e resilienze alle fratture antropologiche.

Gli agricoltori, oggi

Oggi gli agricoltori sono coloro che svolgono una o più fra le tante attività agricole. Queste possono manifestarsi come cerealicoltura, orticoltura, floricoltura, frutticoltura, viticoltura, olivicoltura, silvicoltura, vivaismo ornamentale e orticolo e quant’altro abbia a che fare con la coltivazione di specie vegetali. Sono attività agricole anche le varie forme di allevamento degli animali. E poi rientrano sempre nell’alveo delle attività agricole la  trasformazione di prodotti agricoli in azienda, la vendita diretta di prodotti aziendali, la fornitura di servizi sociali, socio-sanitari, educativi, ricreativi, ambientali e di ospitalità turistica mediante l’utilizzo di risorse materiali e immateriali dell’agricoltura. Coloro che praticano tali attività possono identificarsi come cerealicoltori, orticoltori, frutticoltori, viticoltori, olivicoltori, allevatori, silvicoltori, florovivaisti, manutentori del territorio, custodi della biodiversità, operatori agrituristici o di agricoltura sociale, ma restano comunque agricoltori e con tale termine sono di fatto identificati.

Il codice civile identifica l’agricoltore con l’imprenditore agricolo, cioè con chi esercita professionalmente un’attività agricola organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Un’attività agricola che, dunque, ha come fine ultimo il mercato.

Gli agricoltori per l’autoconsumo

Il nostro ordinamento non annovera nell’agricoltura l’attività agricola svolta a fini di autoconsumo, praticata da tante persone che sono impegnate in altre attività – da cui ricavano il proprio reddito – oppure hanno svolto precedentemente lavori in settori diversi dall’agricoltura e ora sono in pensione. La superficie interessata da questa forma di utilizzo dei terreni agricoli è una parte consistente del paesaggio agrario del nostro paese. Tale attività è comunque un’attività economica perché produce economie. E i rapporti giuridici che nascono da strutture produttive finalizzate all’autoconsumo sono comunque regolati dai principi e dalla disciplina generale del diritto agrario, ma solo che non si potrà loro applicare ciò che è proprio della disciplina dell’impresa. In altri termini, gli appezzamenti di terra su cui si svolge un’attività agricola finalizzata all’autoconsumo non sono imprese agricole, ma costituiscono pur sempre rapporti giuridici agrari. Per quanto riguarda la concessione di questi terreni da parte di chi ne detiene la proprietà ad altri soggetti, non è applicabile la normativa sui contratti agrari ma solo il comodato d’uso. Il quale però non ha l’impianto collaborativo, aperto cioè ad apporti diversificati, peculiare dei vecchi contratti agrari associativi, vietati per legge. E le regole sulla sicurezza alimentare e la tutela ambientale, dal momento che sono calibrate per le imprese, difficilmente si adattano a chi svolge un’attività agricola non imprenditoriale.

La cultura economica e le istituzioni solo negli ultimi tempi stanno prestando attenzione all’apporto di tali attività alla composizione dei consumi alimentari familiari, al consumo di mezzi tecnici e di servizi professionali necessari per svolgerle, alla promozione dello spirito civico e di comunità, alla salvaguardia del territorio e al benessere psico-fisico delle persone.

Le proprietà collettive

A novant’anni dalle leggi che ne imponevano la liquidazione, nel 2017 il legislatore ha finalmente riconosciuto i domini collettivi che appartengono alle popolazioni locali da tempi remoti e, comunque, precedenti alla modernità. Si tratta di terreni agricoli di proprietà dei membri di una collettività, i quali insieme esercitano più o meno estesi diritti di godimento e di gestione, individualmente o collettivamente. Il regime giuridico di questi beni resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità e dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale. Questi beni costituiscono ancora oggi il 9,77 per cento dell’intera superficie agricola in Italia, nonostante i continui tentativi dei legislatori di sopprimere i domini collettivi o, comunque, di soffocarli, arginarli, alternarne la struttura in corrispondenza coi modelli proprietari introdotti in età napoleonica.

Va sottolineato che, attraverso la proprietà collettiva e il conferimento di una personalità giuridica a tutte le sue forme oggi esistenti in Italia, si esaltano le libertà economiche, pur con le connaturate limitazioni al trasferimento dei beni immobili e alla loro tutela ambientale. Possono essere portati molteplici esempi di proprietà collettive che hanno garantito lo sviluppo e la prosecuzione di attività economiche con ricadute dirette e ampie su intere comunità. Uno dei casi più evidenti ed eclatanti di questa realtà è quello delle Regole ampezzane, proprietarie dei quattro quinti del territorio del Comune di Cortina d’Ampezzo e gestori del Parco nazionale delle alpi bellunesi. Ma non si possono dimenticare le Asuc Trentine, le Comunalie parmensi, le Magnifiche comunità di Spinale e Manez e di Fiemme, la Partecipanza di Trino Vercellese, le Università agrarie del Lazio, le Partecipanze agrarie emiliane, le Comunanze agrarie umbre e marchigiane, le Vicinie e le Jus friulane, dal Carso Triestino alla Val Canale.

Gli agricoltori, ieri

Al termine unificante di “agricoltore” si è pervenuti mediante l’incrocio di processi storici molteplici che si sono sviluppati negli ultimi due secoli e mezzo.

A partire dai primi anni dell’Ottocento, nei territori italiani del Centro-Nord annessi alla Francia rivoluzionaria, nelle Repubbliche cisalpine e poi nel Regno d’Italia, le élite napoleoniche intravidero nei proprietari terrieri uno strumento di stabilizzazione sociale e politica e una base di consenso.  Formare un notabilato terriero fu, dunque, un disegno politico consapevolmente realizzato mediante l’abolizione della feudalità e, nello stesso tempo, la vendita dell’asse ecclesiastico e dei beni demaniali. Non solo gruppi nobiliari ma anche borghesi (mercanti, notai, medici, avvocati) costituirono proprietà di medio-grandi dimensioni.

Nel Mezzogiorno, un processo analogo si era già avviato nella seconda metà del Settecento con l’alienazione dei beni dei gesuiti, la vendita dei beni della chiesa calabrese, la censuazione del patrimonio ecclesiastico siciliano. E proseguì nei primi decenni dell’Ottocento con le leggi eversive della feudalità, emanate da Giuseppe Bonaparte e attuate da Gioacchino Murat. Feudatari, amministratori di feudi, gabellotti, professionisti diventarono così proprietari terrieri.

Il tutto segnò finalmente la sconfitta dell’Ancien regime, ma avvenne in un quadro di forti conflitti, colpevoli sottovalutazioni e odiosi pregiudizi. Non si tenne conto, ad esempio, del ruolo propulsivo che nei secoli precedenti avevano svolto i monti di pietà, le confraternite, le chiese ricettizie, le misericordie, gli enti associativi per la gestione dei beni demaniali di proprietà diretta delle popolazioni locali. Furbizie e incomprensioni fecero sì che ai vecchi feudatari si sostituisse una borghesia terriera decisa a sottoporre quanta più terra possibile al nuovo regime di proprietà privata. Essa si impadronì delle amministrazioni comunali, usurpò e cancellò gli antichi diritti delle popolazioni sulle terre demaniali, comprò le terre della chiesa, esercitò su larga scala l’usura ai danni dei contadini poveri e impose contratti agrari ben più duri di quelli precedenti.

I circuiti locali del mercato della terra

Ci fu, tuttavia, in tali processi contraddittori anche un aspetto peculiare che finora non è stato messo sufficientemente in risalto: i circuiti del mercato della terra nei quali si inserivano i “nuovi venuti” della proprietà erano quasi esclusivamente circuiti locali. Insomma, si comprava e si vendeva la terra che era vicina al luogo di residenza; terra che si poteva raggiungere con un viaggio relativamente breve e non troppo disagevole; terra che era a portata di mano e poteva essere facilmente controllata. E tale carattere peculiare del processo di diffusione della proprietà terriera si è manifestato in perfetta aderenza ad un portato di lungo periodo della storia d’Italia, messo in luce da Carlo Cattaneo: il legame tra la città e il suo contado non era mai stato d’impronta amministrativa soltanto, ma passava attraverso i rapporti personali tra i cittadini-proprietari terrieri e i contadini (affittuari, braccianti, giornalieri, camporaioli, mezzadri, coloni e quant’altro) che popolavano cascine, casali, fattorie, masserie e poderi intorno alle città dove i notabili risiedevano. Una configurazione sociale di proprietà terriere e lavoro agricolo a rete e di tipo distrettuale – caratterizzata da una diversificazione intensa di modi d’essere proprietari terrieri (nella struttura dei contratti e dei modi di conduzione, nella natura dei rapporti di lavoro, nel tipo di beni agricoli prodotti e nel loro inserimento nei mercati) – che l’Ottocento ereditava da un passato di nobiltà cittadine e di diffuse e variopinte tradizioni agricole civili. Un mosaico corrispondente alle cento Italie agricole che tanto avevano stupito Stefano Jacini nella Relazione finale della sua famosa Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola (1877-1885).

Gli agricoltori contadini

Quelli che oggi vengono indicati come “contadini” sono, in realtà, agricoltori che reinventano in forme moderne stili di vita, modi di produrre e scambiare beni, modi di organizzare servizi e attività di cura per le persone, le comunità e l’ambiente, rielaborando elementi della cultura rurale. Questi agricoltori non costituiscono una categoria sociale specifica e a se stante perché la particolare figura sociale del contadino è del tutto scomparsa con il compimento del processo di modernizzazione dell’agricoltura e delle campagne.

Attualmente il termine “contadino” è un aggettivo che qualifica una condizione esistenziale o delle pratiche specifiche. Ad esempio, il parco agroalimentare più grande del mondo, allestito recentemente a Bologna da Andrea Segrè e Oscar Farinetti, si chiama Fico, Fabbrica italiana contadina. Nel sito internet del parco c’è scritto: “Un luogo di produzione di valori, prima che di prodotti. Italiana, dal seme all’espressione compiuta. E contadina, intesa come pratica, pienamente connessa alla terra”. Più che di “contadino”, che rimanda ad uno status sociale ormai scomparso, bisognerebbe più appropriatamente parlare di ruralitudine a cui ricondurre ogni elemento materiale e immateriale delle campagne, meritevole di essere ricostruito, rielaborato e reinventato.

Bisogna, dunque, precisare che gli agricoltori contadini di oggi non hanno nulla a che vedere coi contadini che vivono nelle aree del mondo meno avanzate o in via di sviluppo. I quali, viceversa, rassomigliano molto ai contadini vissuti qui, da noi, fino alla modernizzazione dell’agricoltura.

Gli antichi abitanti del contado

Anticamente per contadinus o comitatinus s’intendeva l’abitante del contado, di qualsiasi condizione sociale egli fosse, e si distingueva dal cittadino, cioè da colui che viveva in città. È importante sottolineare che, in origine, il “contadino” poteva anche essere un nobile che abitava in campagna.

Lo status giuridico degli abitanti del contado non era certo eguale a quello dei cittadini, giacché questi, per l’azione svolta al fine di acquistare la libertà e per i sacrifici sostenuti, non erano disposti a rinunciare a favore di altri ai diritti e ai privilegi, che avevano riservato per sé e per le loro famiglie. Infatti, gli abitanti del contado, oltre a giurare obbedienza al Comune cittadino, dovevano sopportare pesi fiscali e personali (collette, tolte, angarie, fodro, affossatura, riparazione di mura, ecc.), dai quali erano esenti i cittadini, e subire per i reati che commettevano pene maggiori di quelle che erano irrogate per i cittadini.

Nell’Italia meridionale, Federico II di Svevia, nelle sue costituzioni melfitane, pose i rustici nella quinta ed ultima classe della società; li chiamò addirittura ignobiles e fece ad essi un trattamento peggiore di quello fatto ad altre classi (conti, baroni, milites, burgenses).

È in un siffatto contesto che, nel Sud come nel Centro-Nord, nacque la contrapposizione tra il termine “civile”, che significa “cittadino”, e la parola “rurale”, che significa “campagnolo”. Ma il termine “civile” si è incominciato ad usare anche come sinonimo di “educato” in contrapposizione a “villano” che significa “contadino”, “uomo di campagna”. Allo stesso modo del termine “cortese” che indicava chi viveva nelle corti in antitesi con “rustico” che connotava invece gli abitanti della campagna. Insomma, nel senso comune “urbanità” e “cortesia” incominciarono ad indicare “educazione”, “conoscenza”, mentre “inurbanità” stava per “inciviltà”, “ignoranza”. E tali significati ancora oggi persistono senza più badare alla loro origine.

I contadini come lavoratori della terra

I contadini, intesi non più come abitanti del contado, ma piuttosto come lavoratori della terra, cominciarono ad essere presi in considerazione quando i Comuni e le monarchie iniziarono la lotta contro il feudalesimo e sentirono il bisogno di appoggiarsi ad un elemento, che era tutt’altro che legato alla classe baronale. Fu da quel momento che, acquistando maggiore coscienza di sé e delle proprie forze, i contadini riuscirono ad assicurarsi un trattamento più umano. Fecero leva sulle pratiche solidali da sempre esercitate in modo informale nelle campagne – come lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, che sarà recepito nel nostro codice civile. A seconda delle regioni questa pratica collaborativa assunse una denominazione diversa: la prestarella o anche l’aiutarella.

A pratiche civili siffatte va collegata poi la lunga tradizione dei consorzi di bonifica come esperienza solidale per recuperare alla coltura terreni paludosi e acquitrinosi e per affrontare le esigenze di tutela idraulica e idrogeologica. E sempre a quelle pratiche va connesso il fenomeno – del tutto eccentrico rispetto ad altri paesi europei – delle origini rurali del primo socialismo italiano.

I sistemi territoriali

È stato soprattutto il protagonismo dei ceti rurali – interagendo con il carattere “verticale” del paesaggio italiano, come lo definiva Emilio Sereni per distinguerlo dall’orizzontalità dei paesaggi europei, segnati dalla estesa presenza delle pianure – a modellare le diversificate agricolture del nostro paese. Nella lotta per emanciparsi dai gravami del regime feudale, i proprietari e i contadini diventarono artefici di embrionali sistemi territoriali, avviando così quel lento processo che porterà il mondo rurale alla perdita dei caratteri di un mondo a sé stante e a una integrazione con altre componenti dell’economia e della società.

I sistemi locali della cascina

Nella cascina lombarda e piemontese vivevano, assieme al proprietario o all’affittuario, le famiglie dei dipendenti: pagati largamente in natura e organizzati in una fitta rete gerarchica a seconda delle funzioni e dei compiti (casari, mungitori, cavallari, bovari, famigli, ecc.). Accanto ad essi, l’esercito dei braccianti a giornata, pagati quasi esclusivamente con un salario monetario e addensati nei borghi. Il loro numero si accresceva, all’epoca dei grandi lavori della monda e del raccolto del riso, di consistenti flussi di mano d’opera stagionale provenienti dalle contermini aree padane e composti in larga misura da donne, che facevano contemporaneamente esperienza del lavoro salariato e del lavoro collettivo, del lavoro a squadre. Per questa via esse iniziarono a rompere antiche dipendenze e soggezioni, profondamente radicate nella famiglia contadina di origine, sino a diventare combattive protagoniste di aspre lotte volte a conquistare miglioramenti economici e diritti elementari. Alla fine dell’Ottocento la risaia comparve anche nella basse terre semisommerse dalle acque della pianura emiliana e veneta, che iniziarono ad essere investite da grandi processi di bonifica e ad attirare quindi una gran massa di lavoratori rurali impoveriti. Essi si alternavano fra lavori di bonifica, lavori agricoli e lavori pubblici, e trovavano nella costruzione di un solido tessuto associativo e istituzionale (che aveva al centro la lega, la camera del lavoro, la cooperativa, l’amministrazione comunale socialista) una efficace alternativa all’emigrazione.

I sistemi locali della pluriattività

Immediatamente a nord della bassa pianura padana, l’alta pianura asciutta e poi l’area collinare furono sede di un’agricoltura povera, ove la famiglia contadina era progressivamente costretta a integrare il proprio reddito in attività manifatturiere, soprattutto tessili, sorte nelle aree rurali. Scarsità e povertà della terra, abbondanza di braccia e intuito imprenditoriale diffuso innescarono in Lombardia, ma anche in Piemonte e in Veneto, un processo di sviluppo di piccole e medie aziende industriali intorno alla funzione essenziale della famiglia contadina, i cui membri partecipavano ad attività extragricole e, nello stesso tempo, mantenevano i legami con la terra. La pluriattività individuale e familiare, da condizione necessaria diventò un’abitudine e finì per costituire il nerbo dell’economia italiana.

I sistemi locali della mezzadria e della colonia

Dalle colline emiliane a scendere in giù, furono la mezzadria e la colonia a costituire le forme contrattuali con cui gran parte del territorio centro-meridionale venne tenuta a coltura salvaguardando la sua produttività. I sistemi sociali che quei contratti supportavano garantirono per un lungo periodo l’equilibrio tra territori, risorse e popolazioni.

Il sistema mezzadrile era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna; da una dimora più grande, talora una vera e propria villa, che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva del proprietario, dalle fattorie intese come centri di servizi, e dai centri abitati (borghi o villaggi). Nel podere isolato abitava il mezzadro, in conformità a un contratto di durata annuale tacitamente rinnovabile, con funzioni sia produttive, per l’autosostentamento alimentare e per ripagare in natura il proprietario, sia di manutenzione e sistemazione idraulico-agraria del territorio. Nel centro cittadino c’era il mercato di sbocco dei prodotti agricoli, ai cui flussi non erano estranei i mezzadri, e c’erano le relazioni con altri soggetti sociali, economici e istituzionali. Il perno su cui ruotava il sistema territoriale era la fattoria, dove si concentravano i servizi amministrativi e tecnici, quelli di conservazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti,  e i servizi sociali per i dipendenti (abitazioni, mense, infermerie, ecc.).

Il sistema colonico era, invece, dato dai minuscoli fondi in mezzo alla campagna, dal casino baronale che fungeva da residenza estiva del proprietario, dalla masseria come centro servizi e dal borgo o paesone, dove abitavano tutti e dove si organizzavano i rapporti con il mercato. Manlio Rossi-Doria inventò l’ossimoro “latifondo contadino” per identificare tale assetto sociale. Il termine “latifondo” perdeva così l’originario significato giuridico di  “grande proprietà terriera su cui si pratica un’agricoltura estensiva” per assumere quello più complesso di “sistema di rapporti”, di “struttura economica e sociale”, indipendentemente dalla dimensione delle proprietà.

La differenza tra i due sistemi era principalmente questa: la famiglia mezzadrile abitava nel podere, mentre quella colonica abitava nel paesone, dove il contadino poteva organizzare meglio il proprio lavoro nei numerosi fazzoletti di terra dispersi nel territorio, dedicarsi anche ad altre attività e da dove raggiungeva il demanio civico per acquisire ulteriori risorse (acqua, legna, ortaggi, erbaggi per gli animali, ecc.) per il fabbisogno familiare.

Sia il podere mezzadrile che la rete di minuscoli fondi colonici erano strutture economiche che garantivano l’autosufficienza alimentare della famiglia contadina. Ed erano collocati in sistemi sociali territoriali che garantivano quei servizi organizzativi, tecnici e socioeconomici, necessari per svolgere le funzioni produttive, di valorizzazione dei prodotti per il mercato e di cura del territorio.

Sul piano giuridico, i contratti di mezzadria e di colonia parziaria erano definiti “contratti associativi per la coltivazione della terra” o “contratti agrari associativi”. Essi erano caratterizzati da prestazioni bilaterali convergenti allo scopo comune della coltivazione del fondo, il quale si realizzava a mezzo del comune godimento dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività agricola, della comunione del rischio e della comproprietà dei frutti. Tali contratti sono stati ritenuti giustamente incompatibili con gli assetti sociali che si sono prodotti a seguito dei processi di modernizzazione.  Sono stati, pertanto, vietati e oggi sono del tutto scomparsi.

Ma con quei sistemi sociali territoriali si sono, per un lungo periodo, formati e conservati gli assetti comunitari e i paesaggi agrari storici del nostro paese. E come osserva icasticamente lo storico della mezzadria, Sergio Anselmi, tali contratti “hanno resistito a lungo perché sono convenuti sia ai padroni che ai contadini”. Le conseguenze del loro superamento sono evidenti se si osserva l’evoluzione dei paesaggi collinari negli ultimi sessanta anni. Alla trama degli antichi campi di grano o granturco, circondati da fossi di prima e seconda raccolta e racchiusi dalle alberate di viti alte e basse, di olivi, di alberi da frutto sono subentrati i seminativi nudi con rischi notevoli in termini di dissesto idrogeologico.

L’esplosione della proprietà contadina

 Ad alimentare le relazioni personali (sociali ed economiche) nei diversi sistemi territoriali ha concorso, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, un processo di formazione di contadini proprietari. Grazie alle rimesse degli emigrati o al loro periodico rientro in patria, un flusso continuo di moneta pregiata ha permesso, tra la Grande Guerra e gli anni Trenta, a braccianti e contadini poveri di comprare circa un milione di ettari di terra, non solo quelle marginali della montagna, ma anche quelle della collina e della pianura. Nel secondo dopoguerra, l’incremento della proprietà contadina è ancor maggiore. Per effetto delle leggi di riforma agraria, dell’azione della Cassa per la proprietà contadina e delle agevolazioni fiscali poste in essere dallo Stato, tra il 1948 e il 1968, altri due milioni di ettari passano in mani contadine. Questa forma di possesso della terra si è fortemente diffusa, sostituendo non solo il latifondo capitalistico ma, progressivamente, anche gli antichi contratti mezzadrili e colonici.

Le trasformazioni delle campagne

Le intelligenze, le strategie flessibili di adattamento, le capacità di iniziativa delle persone e delle comunità locali, che avevano caratterizzato gli antichi sistemi agricoli territoriali del paese, hanno interagito in modo penetrante coi processi di trasformazione che hanno investito la società italiana a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Tale interazione è stata certamente la base su cui si è realizzato il salto imprenditoriale di quei piccoli e grandi proprietari di terra, capaci di immettere in agricoltura il necessario progresso tecnico per raddoppiare la produzione agricola globale, dimezzare il numero degli addetti al settore e contribuire così, notevolmente, ad assicurare agli italiani le tremila calorie medie pro capite, sufficienti a farci entrare nel ristretto novero dei paesi ricchi, nei quali il primato tecnologico, industriale e culturale si coniuga con l’opulenza alimentare.

Resta, tuttavia, l’amarezza che quel capitale sociale accumulatosi per secoli, solo parzialmente e spontaneamente, ha potuto vivificare percorsi duraturi di sviluppo per l’insieme della società italiana.

Emblematico è sicuramente il caso del “continente mezzadrile”, dove le vecchie reti relazionali hanno dato vita a processi di imprenditorialità diffusa intersettoriale da far ipotizzare una terza Italia. Mezzadri e fattori si sono fatti artigiani e industriali e hanno continuato a tessere relazioni tra imprese, associazioni, banche locali e amministrazioni municipali, tenendo in vita reti solidali e collaborative.

Né nelle regioni del Centro-Nord, né nel Mezzogiorno e nelle Isole, si sono potuti attuare programmi territoriali di sviluppo che sollecitassero e coinvolgessero il protagonismo attivo dei contadini e delle comunità locali. Le sporadiche esperienze che si sono tentate in diverse aree del paese, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono state ferocemente isolate e vanificate e poi definitivamente abbandonate, a seguito dell’affermarsi di un’idea di sviluppo forzato dall’alto e incentrato sull’industrializzazione avulsa dalle risorse e dalle economie locali e senza il minimo coinvolgimento delle comunità interessate. Un’idea di sviluppo fallimentare che ha determinato un indebolimento degli antichi sistemi territoriali agricoli, un affievolimento delle relazioni sociali, una dispersione della cultura rurale e, in particolare, di quella contadina, una frattura ecologica come conseguenza dell’allentarsi del rapporto osmotico tra saperi esperienziali delle campagne e conoscenza tecnico-scientifica.

Milioni di contadini si sono trasformati in imprenditori agricoli, artigiani, operai specializzati dell’industria, impiegati nel settore dei servizi senza potersi giovare di quei percorsi di accompagnamento e autoapprendimento collettivo per trasfondere, in modo consapevole e pieno, la ricchezza della propria cultura d’origine nelle nuove attività e nei nuovi modi di vivere.

I figli e i nipoti di coloro che abbandonarono l’attività agricola o si trasferirono dalle campagne nelle aree urbane, a partire dagli anni Settanta, cioè da quando si è interrotto l’esodo rurale, hanno incominciato a guardare all’agricoltura con occhi diversi, esprimendo bisogni di autenticità, genuinità e relazionalità e contribuendo così a costruire una domanda di nuovi beni e servizi che le campagne possono offrire.

Una quota di queste persone hanno dato vita ad un controesodo abbandonando le città e andando ad abitare nei territori agricoli periurbani e nelle aree rurali. Si sono così affermate forme di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana (dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy) con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire (dalla partecipazione alle fitte reti di legami sociali al piacere di coltivare un orto e di preparare una pietanza tipica). Questi agricoltori di provenienza urbana sono stati i principali artefici dell’offerta di nuovi beni e servizi agricoli richiesti, in modo sempre più pressante, da chi ha acquisito consapevolezza delle cause di fondo della frattura antropologica originata da una modernizzazione “non accompagnata”.

Impegnandosi in questi nuovi mercati, molti giovani agricoltori oggi coltivano la restanza, cioè l’idea di rimanere in campagna per tentare, in una condizione non più di miseria ma di relativo benessere, di reinventare pratiche contadine e, comunque, rurali ad alta innovatività tecnologica e organizzativa.

Urbano e rurale si sovrappongono

Si è visto come, da diversi secoli, la città e la campagna hanno incominciato a non contrapporsi più, fino ad integrarsi spontaneamente in sistemi territoriali, dapprima rurali e poi intersettoriali. E negli ultimi decenni – a causa della globalizzazione e dell’ultima rivoluzione tecnologica – gli elementi che distinguevano l’urbanità dalla ruralità si sono ulteriormente ridimensionati. E quelli che sono rimasti, oggi si sovrappongono e creano nuove differenziazioni. Le quali non hanno nulla in comune con quelle precedenti e riguardano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso uso e consumo dei beni, abitudini alimentari, modelli di welfare, motivazioni degli agricoltori.

La stessa immigrazione di massa, che sta scuotendo l’Europa, è un prodotto del mondo globale e di uno spostamento, potenzialmente senza confini, di popoli da un continente ad un altro. Il fenomeno non ha una mera valenza economica (le imprese agricole che finalmente possono avvalersi di una domanda di lavoro più ampia), ma è diventato un’opportunità soprattutto culturale per un continente, come il nostro, invecchiato demograficamente e bisognoso di rivitalizzarsi attingendo a nuova linfa. “Nuovi cittadini” (e non solo “nuovi lavoratori”) stanno incominciando a ripopolare interi territori abbandonati del dorso appenninico, a rendersi protagonisti, come imprenditori innovativi, del risveglio civile dei quartieri popolari delle nostre metropoli. “Nuove culture rurali” interagiscono con quelle nostre e danno vita a meticciamenti inediti.

Il senso di marcia delle trasformazioni in atto nelle campagne sembra essere un’evoluzione delle tante agricolture da attività prevalentemente connotate da elementi produttivistici ad attività ancor più fortemente differenziate e multi-ideali in cui, accanto agli aspetti produttivi, emergono sempre più spiccati elementi di terziario civile innovativo.

Il processo è iniziato quarant’anni fa, ma solo adesso, sull’onda della crisi economica e in modo spesso distorto, l’opinione pubblica pare avvertirne la presenza.

Laicità e ruralitudine

Si sono, dunque, create nuove differenziazioni che spesso entrano in conflitto e le contrapposizioni che ne derivano rallentano i processi innovativi, determinano effetti patologici. Potrebbero, invece, convivere, dialogare e contaminarsi, in un clima di rispetto reciproco e cooperazione, ad una condizione: educandoci ad un atteggiamento laico, cioè privo della pretesa di imporre agli altri le proprie convinzioni e intransigenze. Bisogna combattere chi (in primo luogo la Coldiretti) tenta ancora oggi di strumentalizzare le differenze per conservare nicchie di potere, perpetuando quella cultura provinciale, autarchica, scissionista e chiusa in se stessa, alla base della debolezza dell’agricoltura italiana.

Ripercorrendo i diversi significati che, nei lunghi e lenti percorsi storici, hanno assunto i termini “agricoltore” e “contadino”, si è potuto constatare che le modificazioni lessicali sono avvenute man mano che le trasformazioni culturali, economiche e sociali portavano con sé un’attenuazione delle contrapposizioni e delle identità chiuse in se stesse e il prevalere, invece, di una diffusa capacità di relazionarsi, aprirsi a culture altre e cooperare tra mondi che si percepivano lontani e antagonisti. La città e il contado non confliggono più. L’urbano e il rurale si sovrappongono e non si distinguono più. Sono sorte nuove differenziazioni che non riescono a fare sistema perché si sono smarriti i valori di reciprocità e  mutuo aiuto e si è dissolta la consapevolezza che la libertà deve svilupparsi sempre in un quadro collettivo di doveri e responsabilità, i cicli vitali della terra vanno perennemente rispettati e i saperi esperienziali devono interagire con la conoscenza tecnico-scientifica in un rapporto simmetrico e complementare. Tali valori e consapevolezze sono stati, per un lungo periodo, tratti distintivi dei ceti rurali. E così essi hanno potuto contribuire, da protagonisti, a fare in modo che la società italiana raggiungesse livelli non trascurabili di benessere collettivo. Sono quei valori e quelle consapevolezze a costituire la ruralitudine, eredità preziosa delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi allo stato latente nel nostro Dna collettivo di italiani e da risvegliare e reinventare in realizzazioni innovative, capaci di farci guardare al futuro con spirito laico e ragionevoli speranze.

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