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Lavoro di cittadinanza per emergenza e ripartenza

Per progettare l’adattamento alla nuova situazione creata dal Covid, bisogna connettere strettamente la fase dell’emergenza con quella della ripartenza

terso settore

Per fronteggiare l’emergenza Covid-19, il Decreto “Cura Italia” ha introdotto alcune prestazioni a tutela dei redditi. Si tratta di varie forme di Cassa Integrazione per circa 10 milioni di lavoratori dipendenti e il bonus di 600 euro una tantum per 6 milioni di autonomi e partite Iva. Queste tutele si aggiungono alle indennità di disoccupazione già esistenti (Reddito di cittadinanza, Naspi e Dis-Coll).

Alcune proposte della società civile

Nei giorni scorsi, il Forum Disuguaglianze Diversità e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile  hanno presentato al governo una proposta per estendere le tutele ad una fascia più ampia di cittadini che stanno subendo una riduzione considerevole del proprio reddito. Nella proposta vengono mantenute Naspi e Dis-Coll e le varie forme di Cassa Integrazione introdotte dal Decreto “Cura Italia” e se ne modificano altre, dando vita a due nuovi strumenti: il Sostegno di Emergenza per il Lavoro Autonomo (SEA) e il Reddito di Cittadinanza per l’Emergenza (REM). L’obiettivo della proposta è di raggiungere i circa 6-7 milioni di lavoratori esclusi dagli interventi previsti finora, coprendo l’area del lavoro nero e rafforzando e rendendo più equa la tutela del lavoro autonomo.

Con tali misure il numero di italiani a cui verrebbe garantito un “assegno” dallo Stato per far fronte al blocco delle attività economiche salirebbe a 23 milioni. I proponenti ci tengono a sottolineare che gli interventi dovranno essere improntati alla straordinarietà e alla limitatezza temporale. In prima approssimazione, le erogazioni dovrebbero cessare il 31 agosto.

Ma noi sappiamo che questa data è solo indicativa. Infatti, non ci sarà mai un giorno in cui potremo dire di esserci liberati dal virus.  E ciò per il semplice motivo che un  giorno senza contagi non preclude al fatto che il giorno dopo ve ne saranno altri. Come ha scritto Enrico Bucci, il contagio zero come traguardo definitivo è una chimera irraggiungibile (il che non significa che non sia possibile avere giorni senza contagi, a livello locale o nazionale). Siamo all’interno di un sistema darwiniano in rapida evoluzione. Ogni soluzione deve quindi prevedere la circostanza che dovremo abituarci a convivere con questo e con tantissimi altri nuovi parassiti emergenti.

Il fatto di essere noi uomini e donne così numerosi, fortemente interconnessi e capaci di spostarci rapidissimamente in ogni angolo del pianeta, facilita ai virus e ai batteri la possibilità di replicarsi in rapida evoluzione. Ma indietro non possiamo più tornare. Dobbiamo quindi adattarci a questa nuova situazione.

Cambiare il nostro modo di pensare

Sono diversi gli interrogativi filosofici, politici, istituzionali e sociali che il Coronavirus ci pone e a cui possiamo rispondere con molte incertezze. Come ha scritto Gilberto Corbellini, anche la ricerca scientifica e il sistema sanitario sono già oggi costretti a confrontarsi con una realtà (il comportamento del virus e quello umano, che cerca di ridurre i danni o assumere il controllo) che non è razionale, né irrazionale, né una costruzione sociale, né complessa, ma darwiniana. Noi però siamo abituati a ragionare con una logica che Hegel riassumeva efficacemente in questa formula: ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale. Coi virus e i batteri del nuovo millennio questa logica ci fa prendere molte cantonate. E siccome dovremo adattarci a convivere in futuro con questi parassiti che mutano continuamente, dovremo rimodellare il tutto assumendo il pensiero di Darwin. Non sarà facile questo cambio di mentalità. Eppure, la democrazia potrà sopravvivere ad un replicatore darwiniano, qual è il virus, solo se sarà capace di continuare a garantire la salute e la vita dei cittadini nella nuova condizione. Questa sarà la grande sfida!

Molti paesi si trovano di fronte a quello che potremmo chiamare il “trilemma del coronavirus”. Possono scegliere solo due delle seguenti tre opzioni: limitare le morti, allentare le restrizioni o difendere le libertà civili. I paesi asiatici hanno scelto le prime due, a spese della terza. Ma anche il resto del mondo dovrà compiere una scelta, che trasformerà il ruolo e la portata dello stato. Utilizzare la “biosorveglianza” è un’opportunità, ma costituisce un rischio per le democrazie liberali. In Ungheria e Polonia l’emergenza sanitaria è diventata un pretesto per restringere le libertà civili attraverso la “biosorveglianza”. La distribuzione della “biosorveglianza” dovrebbe essere la prima preoccupazione per i paladini della democrazia e delle libertà civili. I parlamenti, non solo continuino a funzionare, utilizzando la videoconferenza e il voto a distanza, ma impongano anche delle scadenze ai poteri di emergenza e le istituzioni indipendenti monitorino la concentrazione dei dati. Di norma i cittadini dovrebbero possedere i propri dati e decidere chi può utilizzarli. Applicare questi principi in questa fase turbolenta non sarà facile. Ma è l’unica strada.

Un grande progetto sociale di adattamento

Per progettare l’adattamento alla nuova situazione, bisogna connettere strettamente la fase dell’emergenza con quella della ripartenza. E l’elemento connettivo può essere un nuovo modo di concepire il lavoro e la produttività. La prestazione lavorativa va concepita come un progetto di lavoro-benessere della persona. L’idea che il lavoro economicamente produttivo sia quello dal quale si ottiene un risultato che compensi un costo non deve più coincidere con l’idea che il lavoro è produttivo solo se svolto in presenza e nelle modalità tradizionali. Tutte le tecnologie che sostituiscono la fatica fisica, abbattono i costi, evitano gli sprechi, riducono lo sfruttamento delle risorse vanno utilizzate. Come scrive Leonardo Becchetti, se si sviluppasse nei consumi il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale (applicando a questo fine la tecnologia “blockchain”) e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di “votare col portafoglio” per le imprese migliori, vincerebbero le imprese tecnologicamente più avanzate: quelle che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro.

Lavorare in sicurezza al tempo del coronavirus significa adeguare strutturalmente e tecnologicamente i diversi spazi in cui si svolge la nostra vita come se stessimo sempre a casa, senza assembramenti e avendo sempre a disposizione strumenti protettivi. Occorre ripensare le attività lavorative (in agricoltura, nelle fabbriche, nei laboratori, negli uffici) perché lavoro, benessere della persona e tutela ambientale si integrino e non siano mai in conflitto. Tutto quello che può essere “remotizzabile” va “remotizzato”, tutto quello che può essere automatizzabile e meccanizzabile va automatizzato e meccanizzato.  Sarà un modo per vivere in sicurezza.

Porre al centro di un grande programma di adattamento lo sviluppo sostenibile significa interpretare lo sviluppo come “sviluppo della società”. Scrive Giorgio Ceriani Sebregondi (in Lettera a padre Lebret, 1956): “Lo sviluppo non è semplicemente crescita economica ma costituisce un salto di civiltà. È, infatti, l’esito della combinazione dei cambiamenti mentali e sociali di una popolazione, che la rendono atta a far crescere in modo cumulativo e permanente il suo prodotto reale globale”.

Si tratta di promuovere una particolare forma di organizzazione dei cittadini che solleciti, guidi ed esprima il formarsi di un’autonoma capacità tecnica, politica e giuridica dei cittadini stessi a concorrere alla determinazione delle politiche di sviluppo sostenibile.

Va progettato e promosso un “sistema – per dirlo con le parole di Giorgio Ruffolo – nuovo, organizzativo e di regolazione, un’economia associativa, che abbia la stessa dignità dello stato e del mercato e che si ponga, con un suo equilibrio economico ed una sua impronta imprenditoriale, come risposta strutturale dalla parte della domanda alle nuove esigenze che si creano nell’ambito dell’odierna società”.

 

Il Corpo Europeo di Solidarietà

Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel 1942 e pubblicò nel 1946 il libro Abolire la miseria. Nella prima metà del saggio egli quasi schernisce tutti gli interventi di “beneficenza” o di “soccorso incondizionato” con i quali ci si illude di debellare povertà e disoccupazione. Nella seconda parte propone la fondazione, a livello europeo, di un “esercito del lavoro”, reclutato in alternativa al servizio militare, che provveda ad assicurare, a spese della collettività, i mezzi essenziali di sussistenza a chi ne ha bisogno.

Nel dicembre 2016, a 70 anni dalla pubblicazione di Abolire la miseria, la Commissione Europea ha ripreso, forse inconsapevolmente, l’idea di Ernesto Rossi, istituendo il Corpo Europeo di Solidarietà per permettere ai giovani tra i 18 e i 30 anni di poter partecipare ad attività lavorative (tirocinio, apprendistato o lavoro per un periodo da 2 a 12 mesi) o a progetti di volontariato all’interno di organizzazioni che si occupano di solidarietà.

I partecipanti potranno essere impiegati in un’ampia gamma di attività, in settori quali: l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’integrazione sociale, l’assistenza nella distribuzione di prodotti alimentari, la costruzione di strutture di ricovero, l’accoglienza, l’assistenza e l’integrazione di migranti e rifugiati, la protezione dell’ambiente e la prevenzione di catastrofi naturali.

Nel 2017 è entrato in vigore in Italia il nuovo Servizio Civile Universale. Un’occasione per favorire e sostenere l’impegno volontario e civico dei giovani nel mondo associativo e nelle istituzioni locali. Un’opportunità per conseguire nuove competenze in vista di una successiva attività lavorativa.

Trasmettere da una generazione all’altra la cultura del “saper fare”

Tra gli esiti indesiderati della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica in atto va annoverato il distacco (fino al conflitto identitario) tra le generazioni. Solo la creazione di istanze dinamiche di confronto potrà condurre ad una radicale riconversione della logica del conflitto identitario.

Il lavoro di cittadinanza  non si configura come vero e proprio accompagnamento di un giovane ad un impiego, ma come spazio simbolico entro cui le differenze  tra generazioni diverse si riconoscono e interagiscono per generare impegno lavorativo e vivificare lo “spirito dello sviluppo”, di cui parlava Albert Hirschman.

Il lavoro di cittadinanza è il contesto dove assimilare i principi costituzionali: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (art. 1) e “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4).

Tali principi contengono l’impegno delle istituzioni a soddisfare l’esigenza degli individui a lavorare e, nel contempo, il dovere di ogni cittadino di essere quello che può in proporzione dei propri talenti.

Si attuano iniettando cultura d’impresa da intendere come aspirazione dell’uomo a incivilirsi, a elevarsi, mediante un percorso tortuoso che non ha mai fine per evitare di correre il pericolo di tornare indietro verso la barbarie.

Come osserva Mario Campli, reinventare forme e modi nuovi di “educazione civica” significa rispondere “alle sfide poste da questa pandemia, ma anche a quella ambientale, a quella dell’educazione scientifica, a quella della formazione permanente al metodo della connessione dei saperi, a quella della democrazia nell’era digitale, all’interno dello Stato e oltre lo Stato”.

Ernesto Rossi afferma (in Abolire la miseria) senza mezzi termini che la nozione “diritto al lavoro” è un’assurdità che discende dalla “falsa idea che basti produrre delle cose che soddisfino ai bisogni umani perché il lavoro risulti economicamente produttivo”. Il lavoro non è un diritto che può essere soddisfatto solo dalle leggi sul lavoro. È questa idea molto immiserita di lavoro ad averlo reso un oggetto misterioso.

Il lavoro si può creare con il lavoro di cittadinanza, cioè  con il dialogo intergenerazionale, la diffusione della conoscenza, il cambiamento della mentalità, l’educazione all’innovazione continua, alla relazionalità e alla speranza del futuro.

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2 Responses to Lavoro di cittadinanza per emergenza e ripartenza

  1. Mario Campli Rispondi

    8 aprile 2020 a 17:48

    Condivido questa esigenza di UNA (RI)EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA.
    Una nuova, non episodica e neppure soltanto affidata alle iniziative volontaristiche, azione pubblica (nel senso della diretta responsabilità della Repubblica: scuola, cultura, istituzioni, ecc. insomma: collettiva ma non ‘statale’) che inventa forme e modalità di “educazione civica” all’altezza della contemporaneità: le sfide poste da fenomeni come questa della pandemia, ma anche quella ambientale, ma anche quella della educazione scientifica (il metodo permanente della scoperta delle connessioni dei saperi), anche quella della democrazia nell’era del digitale.

  2. Alfonso Pascale Rispondi

    9 aprile 2020 a 16:06

    Grazie, Mario, per i preziosi suggerimenti, che ho ripreso nel testo.

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