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Un gusto che guardi al futuro

Intervento svolto venerdì 22 gennaio 2015 a Milano, nell'ambito della Quinta Edizione di olioofficina FESTIVAL - condimenti per il palato e per la mente, ideato e diretto da Luigi Caricato

olio

Il gusto cosa è? È la nostra capacità di assaporare i cibi e le bevande e di distinguerli mediante la funzione sensoriale specifica e il piacere. Oggi il gusto viene spesso concepito come qualcosa che guarda al passato: un gusto nostalgico. Secondo questa idea è buono tutto quello che ci ricorda il passato. Ma davvero il gusto è in contrapposizione al futuro? Non è così e vediamo perché.

Le prime grandi civiltà del mondo, come Roma o la Cina antica, vivevano essenzialmente rivolte al passato. Per gli antichi tutto accade secondo necessità. “Per i Greci – scrive Michel Foucault – quel che abbiamo dinanzi agli occhi non è il nostro avvenire, bensì il nostro passato, vale a dire che si entra nell’avvenire con lo sguardo rivolto al passato”.

La modernità si caratterizza, invece, per il proprio atteggiamento rivolto al futuro nel tentativo di determinarlo. Le filosofie del progresso che si sono sviluppate nell’Occidente hanno animato le speranze e la fiducia in un futuro dalle “magnifiche sorti e progressive”. In un futuro capace di cancellare faustianamente tutti i limiti.

In realtà, quelle filosofie non hanno prevalso fino in fondo. Ci sono filoni culturali che partono da Condorcet (per il quale è la diffusione pubblica della conoscenza la fonte di ogni progresso), passano per Cattaneo (secondo il quale è l’intelligenza e la volontà a favorire il progresso; e l’intelligenza è frutto dell’osmosi di sagacia pratica e sapere scientifico; sicché il progresso si ha con la diffusione più ampia possibile della conoscenza), e si consolidano nel rapporto virtuoso, intercorso fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, tra tecnici agricoli e agricoltori nell’orientare la modernizzazione dell’agricoltura. La grande tradizione della cultura agronomica ha sempre guardato al futuro ma con una profonda consapevolezza dei limiti della produttività della terra e dell’esigenza di preservarne la fertilità. Le Cattedre ambulanti di agricoltura hanno rappresentato un mix d’intelligenza collettiva e impegno civile per diffonderla nel modo più ampio possibile.

Ripensare l’idea di progresso e di limite

Oggi, a seguito della crisi ecologica e della globalizzazione, c’è un ripensamento dell’idea stessa di progresso e di limite. E tornano in auge intuizioni e percorsi che alla fine degli anni Cinquanta furono combattuti. Già allora alcune personalità della cultura esprimevano una convinzione molto semplice: ci sono situazioni in cui il progresso e la violazione dei limiti avvantaggiano lo sviluppo materiale, intellettuale e affettivo degli individui; e ci sono altre situazioni in cui il progresso e la violazione dei limiti nuocciono allo sviluppo. E ne traevano un insegnamento ben preciso: coltivare il discernimento e la capacità di distinguere le diverse situazioni.

L’attitudine a riconoscere e distinguere è ancor più oggi un’arte da coltivare e praticare con cura, lasciandoci guidare dall’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni e dei loro presumibili sviluppi, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.

Questo non significa che dobbiamo smettere di guardare al futuro e di riprendere a volgere la testa verso il passato come facevano gli Antichi. Non significa che dobbiamo tornare in senso letterale alla sharia o “strada battuta” o al land o “terra”, da intendere come deposito della tradizione; e così porre nuovi steccati, nuovi muri, nuove frontiere, per escludere l’altro o distruggere il pluralismo degli ethos del mercato o, addirittura, per combattere contro la scienza.

Come possiamo allora ripensare il gusto? Dovremmo ritematizzare tre concetti: il rischio, la tradizione e l’identità. E adeguare così l’idea di gusto, un gusto riflessivo, consapevole e rivolto con ragionevoli speranze al futuro. Un gusto che guarda al futuro con nuovi occhi.

Il rischio costruito

Il sociologo Anthony Giddens distingue fra due tipi di rischio: il primo è il “rischio esterno”, quello che proviene dagli elementi fissi della natura e della tradizione; l’altro è il “rischio costruito” che è riconducibile all’impatto della nostra conoscenza manipolatoria sul mondo.

Questa nuova tipologia di rischio non ha nulla a che vedere coi cattivi raccolti, le inondazioni, le pestilenze e le carestie. Esso riguarda quei pericoli e quelle minacce che derivano dalle attività dell’uomo stesso e dall’impatto delle tecnologie sulla nostra vita e su quello dell’ecosistema. E sono ben pochi i rischi di nuovo genere che riguardino solo singole nazioni. I “rischi costruiti” sono per lo più globali.

Questa novità non ci deve indurre ad assumere un atteggiamento negativo verso queste nuove forme di rischio ma di disciplinarle perché un’attiva assunzione del rischio sta al centro di un’economia dinamica e di una società innovativa. È meglio mostrare coraggio anziché cautela nel sostenere l’innovazione scientifica e altre forme di cambiamento.

Dopotutto nella sua accezione originale “rischiare” significa “osare”. E bisogna continuare ad osare anche nel fronteggiare i rischi determinati da noi stessi per ridurli, tenerli continuamente sotto controllo, con la ricerca e la sperimentazione.

L’invenzione delle tradizioni

Ma oggi non solo il concetto di “rischio” ha acquisito un nuovo significato. Anche l’idea di “tradizione” non è più quella che girava agli inizi della modernità. Gli illuministi la identificarono con il dogma e l’ignoranza al fine di giustificare la loro attrazione per il nuovo. Un pregiudizio avvilente i cui danni fortunatamente non sono stati irrimediabili. Portando alle estreme conseguenze la nota tesi di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger sulle tradizioni inventate, si potrebbe sostenere che nessuna società tradizionale sia mai stata del tutto tradizionale e che tradizioni e costumi siano sempre stati creati per una molteplicità di ragioni.

Con l’avvento della società di massa l’invenzione delle tradizioni si è fatta particolarmente assidua. Lo abbiamo visto nei primi decenni dello Stato unitario e poi, soprattutto, durante il fascismo. Con la globalizzazione c’è stata una ripresa delle tradizioni inventate. E la spinta non è data solo dall’idea che le tradizioni evolvono nel tempo e bisogna continuamente inventarle e reinventarle. Si è anche convinti che le tradizioni diano continuità e forma alla vita. È un’idea da condividere e coltivare perché in fondo è così. C’è un nesso stretto fra tradizione e cambiamento.

Per evitare, però, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare.

Del resto, le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradere, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”.

Identità caleidoscopiche

E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica ma creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima.

Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, fatte per non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antica di ogni frontiera.

Il gusto riflessivo

E così arriviamo al dunque. I nuovi concetti di “rischio”, “tradizione” e “identità” che si vanno forgiando con la globalizzazione hanno un’incidenza notevole nell’alimentazione. Il comportamento dell’individuo e i suoi stili di vita (cioè l’insieme di comportamenti e abitudini connessi in uno schema più o meno ordinato e che riguardano anche il regime alimentare) sono, infatti, elementi centrali per il progetto riflessivo del sé. Tali scelte variano al variare di ambienti e luoghi in quanto riflessivamente aperte al cambiamento in virtù della natura mutevole dell’identità.

Le tradizioni alimentari locali che si sono inventate negli ultimi decenni assumono diverso valore dietetico, simbolico e rituale rispetto al passato e portano con sé una trasformazione del gusto che – per essere arricchente – dovrebbe avvenire in modo consapevole con il coinvolgimento delle comunità interessate e non sulla loro testa.

Si tratterebbe di costruire un gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea; un gusto che guarda al futuro con nuovi occhi, potremmo anche dire; un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o di rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano; di interagire con il “rischio costruito”, esprimendo con la propria scelta la fiducia (o la sfiducia) in un’azienda produttrice; di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili. È il caso dei prodotti dell’agricoltura sociale che, integrando tradizione e innovazione, racchiudono pratiche solidali ben riuscite.

Avremmo bisogno di ridisegnare completamente il rapporto tra legame con il territorio e presenza nei mercati internazionali che non sono strategie alternative. Occorrerebbero politiche per l’internazionalizzazione fondate sul “fare squadra” in Europa e nel mondo, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla nostra capacità di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato e sul rendiconto alle comunità territoriali dei risultati conseguiti. L’innovazione sociale da realizzare è la reinvenzione di comunità, territori e istituzioni che sappiano guardare alle persone nella loro interezza.

Insomma, salvaguardare il futuro del pianeta, espandere le libertà umane per le generazioni future, esercitare il gusto che guarda con nuovi occhi la realtà che ci circonda significa anticipare il futuro per mettercene al riparo. Dobbiamo imparare a immaginare il possibile ed elaborare allo scopo modelli cognitivi sempre più sofisticati. La libertà non è soltanto un processo di emancipazione individuale, ma anche collettivo: tanto più cresce se cresce per tutti.

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