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Welfare e rappresentanza nelle campagne

Relazione al Convegno sul tema "Agricoltura Sociale e nuovo Welfare rurale" organizzato da Acli Terra a Matera, presso il Centro Congressi Hilton Garden Inn il 23 ottobre 2009

asino

Vi ringrazio per avermi invitato a questa iniziativa qui a Matera sull’Agricoltura Sociale. Sono contento di essere con voi per due motivi: innanzitutto per potervi ringraziare dell’apporto fondamentale che un’organizzazione antica, ma fortemente proiettata al futuro come la vostra, assicura alla Rete Fattorie Sociali; in secondo luogo perché la scelta di svolgere il vostro convegno nazionale in Basilicata mi permette di parlare di Agricoltura Sociale nella mia regione di origine. Affronterò il tema che mi avete assegnato partendo dal rapporto tra sistema di welfare e nuova ruralità per affrontare successivamente l’interazione tra nuovi modelli di welfare e nuove forme della rappresentanza nelle campagne.

Crisi del welfare e nuova ruralità

Le crisi che stiamo vivendo, non solo quella economica, ma anche quella climatica e quella energetica, trovano le loro origini in un sistema economico mondiale privo di un’etica dei limiti. In Italia, esse si intrecciano con scompensi profondi nel sistema di welfare, il quale sembra non rispondere più alle esigenze della popolazione. Cresce il numero dei poveri e si assottiglia il confine tra povertà e ceto medio. Inoltre, la concentrazione di anziani va di pari passo con la povertà.

Si è,in sostanza, acuita ultimamente una grande questione sociale con risvolti molto rilevanti nell’evoluzione della nuova ruralità. La maggior parte delle città italiane, soprattutto quelle più grandi, è infatti diventata meta di un’ulteriore ondata di immigrazione dalle aree più periferiche delle singole Regioni e dell’Italia, nonché dai Paesi in via di sviluppo. Se è la miseria a motivare principalmente la fuga dai Paesi poveri, sono soprattutto la mancanza di lavoro e l’erosione della rete dei servizi di prossimità a provocare l’abbandono delle nostre aree con problemi di sviluppo.

Nelle aree rurali più interne del nostro Paese, il fenomeno dell’invecchiamento che interessa tutta la società si sta accompagnando a quello dello spopolamento. Da una parte, infatti, la concentrazione di anziani ha fatto aumentare la richiesta di servizi sanitari e cure mediche; dall’altra, l’inadeguatezza delle strutture ospedaliere collocate nelle aree rurali fa sì che la popolazione locale tenda a migrare verso i centri urbani per accedere a servizi sanitari di qualità. Sicché migliaia di piccoli comuni delle aree più interne dell’Appennino rischiano di estinguersi. E questo processo di spopolamento sta comportando anche l’abbandono di vaste estensioni di aree agricole coltivate. Su 30 milioni di ettari quant’è tutta la superficie del nostro Paese, le aree urbanizzate sono diventate 2,7 milioni e i terreni che, negli ultimi 10 anni, da pascolo si sono trasformati in boscaglia a seguito di dismissioni di attività produttive ammontano a 6 milioni di ettari. Si tratta di un immenso patrimonio sociale e ambientale che progressivamente si va deteriorando.

Fin dalle origini, la Politica Agricola Comunitaria (PAC) ha rappresentato non solo una politica dei mercati, ma anche un particolare modello di Welfare ed ha svolto un ruolo redistributivo non irrilevante. Attraverso questa politica, la ricchezza prodotta mediante i meccanismi di crescita economica veniva resa in parte alle popolazioni rurali, che risultavano essere quelle più penalizzate da una strategia di sviluppo incentrata sul settore industriale e sulle aree urbane. Si riteneva che in tal modo si potesse contenere l’esodo dai territori più periferici. Quel meccanismo è da tempo andato in crisi per una serie di ragioni legate non solo alla necessità di aprire i mercati, a seguito degli accentuati processi di globalizzazione, ma anche e soprattutto a causa degli evidenti effetti devastanti, per il paesaggio e per le risorse ambientali, dello spopolamento delle aree marginali.

Sono trascorsi oltre 20 anni da quando l’Unione Europea, distinguendo lo sviluppo rurale dallo sviluppo agricolo, ha lanciato l’idea di incentivare l’insieme delle attività economiche e non solo quelle agricole e di reagire al declino dei territori rurali facendo leva sul ricco patrimonio delle loro risorse specifiche. Da allora le continue riforme della PAC hanno modificato radicalmente l’impianto precedente, ma si sono rivelate insufficienti a determinare da sole lo sviluppo delle aree rurali, in mancanza di un profondo riadeguamento delle politiche sociali. Da una parte le risorse destinate agli aiuti al reddito sono state giustamente trasferite allo sviluppo rurale, dall’altra si sono bruscamente indebolite le reti di protezione sociale nelle zone interne e nel Mezzogiorno. Sicché le condizioni di vita delle campagne sono ulteriormente peggiorate ed è ripreso l’esodo a ritmi più sostenuti.

Le persone che lasciano le aree rurali più interne non vanno più ad insediarsi nei centri urbani, ma, insieme agli immigrati provenienti dai Paesi in via di sviluppo, vanno ad abitare in quelle estese porzioni di territorio in cui convivono permanentemente sia i caratteri tipici dell’urbanità, come la tendenza ad una elevata densità demografica e la prevalenza dell’edificato sullo spazio aperto, che i caratteri tipici delle aree rurali, come la presenza non marginale di attività agricole e rurali. Cosicché il fenomeno della periurbanità da transitorio è diventato stabile.

Nelle campagne urbane non si addensano più soltanto le villettopoli dei ricchi e i tuguri degli immigrati stranieri e dei nomadi, ma anche le abitazioni delle  persone che rifuggono l’impazzimento delle città e ricercano nelle attività agricole una seconda chance per dare un senso alla propria esistenza. A cui si aggiungono le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, cioè di quelle persone che pur lavorando saltuariamente hanno perduto le protezioni che permettevano loro di assicurarsi l’indipendenza economica e sociale.

L’Agricoltura Sociale come nuovo modello di welfare nelle campagne

L’Agricoltura Sociale può esprimere tutte le proprie potenzialità per contribuire a frenare l’esodo dalle aree periferiche e migliorare la qualità della vita delle aree periurbane, se si ricostruisce un nuovo nesso tra sviluppo economico, protezione sociale e tutela ambientale nelle aree rurali. Si tratta di superare l’approccio tradizionale che guarda solo a come la ricchezza che si produce nella crescita economica si trasferisce nelle politiche sociali. Bisognerebbe, invece, chiedersi  come il potenziale di ricchezza sociale che risiede nell’economia civile, cioè in quell’ampia gamma di iniziative imprenditoriali e di volontariato che erogano servizi alla persona, si può tradurre in crescita economica, in miglioramento della qualità della vita, in tutela della biodiversità e, dunque, in sviluppo delle aree rurali. Si tratta, in sostanza, di favorire modi di produrre in grado di generare contestualmente beni materiali e beni relazionali, assecondando il protagonismo delle imprese private, della cooperazione e dell’associazionismo e  strutturando una domanda corrispondente alle nuove e differenziate necessità sociali che né lo Stato né il mercato sono in grado di mobilitare.

Andrebbe, in altre parole, superata una visione del Welfare come mera azione riparatoria e compensativa degli squilibri e delle inefficienze sociali dello sviluppo industriale e come contenimento dei conflitti sociali. Occorrerebbe, invece, porre al centro delle politiche pubbliche il cittadino che esercita il diritto alla responsabilità e alla partecipazione. Non si tratta di soddisfare bisogni ma di creare azioni di sviluppo attraverso l’attivazione e il coordinamento di una pluralità di politiche: da quelle europee di coesione e di sviluppo rurale, da rafforzare con il trasferimento di ulteriori e più cospicue risorse dal primo al secondo pilastro della PAC, a quelle nazionali e regionali. In tale ambito le azioni per l’Agricoltura Sociale  dovrebbero essere inserite contestualmente sia nelle politiche agricole, così come si è incominciato a fare nella quasi totalità delle Regioni con la recente programmazione dello sviluppo rurale, che in quelle per la salute, i servizi sociali, l’istruzione e il lavoro.

La sfida sta nella capacità dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali di collaborare per integrare le diverse politiche che si devono attuare nei territori. Non è un compito semplice perché richiede un salto di qualità della classe dirigente a tutti i livelli, in quanto la difficoltà risiede soprattutto nel fatto che i differenti settori dell’amministrazione pubblica, a cui fanno capo le politiche, non sono avvezze a dialogare.

Nel Mezzogiorno la sfida è ancor più impegnativa perché le istituzioni pubbliche locali tendono più che altrove ad autoriprodursi così come sono, resistendo a qualsiasi riforma volta alla semplificazione delle procedure, all’efficienza della pubblica amministrazione e alla meritocrazia. In altre parole occorre alimentare nelle realtà meridionali una forte iniziativa sociale per eliminare quella rete di privilegi, parassitismi e illegalità, che da un lato comprime lo spirito civico, dall’altro ostacola il dinamismo economico e sociale. Solo in tal modo si può affermare una concezione del Welfare come prerequisito della capacità di attrazione e della reputazione di sistemi territoriali sostenibili e competitivi.

I soggetti dell’Agricoltura Sociale  

Le esperienze di Agricoltura Sociale sono caratterizzate da una molteplicità di modelli organizzativi. Essi dipendono dalle differenti motivazioni etiche ed economiche che sono alla base delle singole iniziative e dalla varietà di figure sociali, competenze e risorse coinvolte.  Le persone interessate all’Agricoltura Sociale sono innanzitutto coloro che presentano bisogni speciali, cioè problematiche sanitarie o difficoltà sociali di particolare gravità, e le cui necessità sono spesso rappresentate da associazioni di familiari. Vi sono poi coloro che provengono anch’essi da ambiti lontani dall’agricoltura e che trovano le loro motivazioni profonde nel disagio provocato dagli aspetti quantitativi, standardizzati e consumistici del modello di sviluppo della società contemporanea e, quindi, nel bisogno di sperimentare nuove forme di vita, di produzione e di consumo per dare un senso alla propria esistenza. Mostrano, inoltre, attenzione all’Agricoltura Sociale persone che hanno perduto il lavoro in forma continuativa e sicura o che lo mantengono in condizioni precarie e nelle attività agricole trovano un modo per integrare il reddito. Si tratta di soggetti che in alcuni casi già operano in associazioni, cooperative o altri enti ed hanno la disponibilità di terreni per svolgere attività agricole. Molto spesso si trovano però soltanto nella fase iniziale dell’elaborazione del loro progetto di vita e ricercano aree agricole di proprietà privata, pubblica o collettiva da affittare o collaborazioni con aziende agricole già attive per poter avviare nuove iniziative.

All’Agricoltura Sociale sono, peraltro, sempre più interessati produttori agricoli che già svolgono attività diversificate nell’ambito dell’agriturismo e dei servizi legati al mondo della scuola. E ad essa incominciano a mostrare attenzione anche altri soggetti agricoli, soprattutto giovani, con redditi misti e in possesso di strutture spesso di piccole dimensioni, i quali, spinti dalla globalizzazione ad abbandonare modelli produttivi eccessivamente specializzati perché non premiati dai mercati, sono indotti, per integrare il reddito, a sperimentare l’agricoltura multifunzionale e di prossimità.

A guidare i nuovi processi sono soprattutto le donne in quanto portatrici di una capacità di inventare le risorse e valutare in modo attento e duttile le opportunità. Un’attitudine acquisita nella società rurale, quando l’assolvimento di ruoli sostitutivi di quelli maschili, ritenuti irrilevanti nell’assetto formale del sistema che all’epoca vigeva, permetteva loro di saggiare continuamente le innovazioni e di introdurle informalmente e senza contraccolpi.

I soggetti coinvolti nelle esperienze di Agricoltura Sociale o che ad essa guardano con interesse sono espressione del pluralismo dei sistemi territoriali, delle forme di possesso e delle componenti sociali, antiche e nuove, che operano nelle aree rurali e di cui vanno riconosciute la specificità e la pari dignità.

Le vecchie forme della rappresentanza nelle campagne

Nei sistemi di welfare centralistici e redistributivi tradizionali collegati a modelli produttivi fordisti, le regole dell’intervento pubblico erano e sono tuttora costruite con l’intento di ricondurre le differenze ad una presunta razionalità, mediante l’imposizione di criteri uniformi. E’ in tale quadro che si spiegano le priorità accordate a figure sociali quali il coltivatore diretto, l’imprenditore agricolo a titolo principale e ora l’imprenditore agricolo professionale, nonché la distinzione netta tra lavoro dipendente ed autonomo e tra il settore agricolo ed altri settori economici. Le stesse strutture di rappresentanza erano e sono tuttora prevalentemente figlie dei sistemi di Welfare e dei modelli produttivi fordisti e privilegiano, pertanto, modelli generalisti, tendenzialmente unici, il cui pluralismo è più il portato della storia delle singole organizzazioni e delle precedenti colleganze politiche che delle specificità delle categorie sociali. Da qui deriva prevalentemente la crisi della rappresentanza agricola a cui ancora oggi non si è posto rimedio.

Il particolare modello di welfare  agricolo che abbiamo conosciuto nei passati decenni si reggeva sul fatto che i pubblici poteri sostenevano un settore produttivo e una particolare categoria economica e sociale essenzialmente con due obiettivi condivisi: 1) produrre quanto più possibile materie prime da utilizzare per immettere nel mercato interno beni finalizzati all’autosufficienza alimentare; 2) garantire, attraverso la semplice presenza fisica delle aziende agricole, la salvaguardia di interi territori rurali dai processi di abbandono indotti dallo sviluppo industriale.

Nell’ambito di quel progetto condiviso trasversalmente o in consociazione dai principali partiti, l’agricoltura era un corpo compatto, dal punto di vista economico e sociale. La legge Quadrifoglio del 1977 – la più importante legge nazionale di programmazione agricola funzionale all’impostazione comunitaria – fu approvata all’unanimità dal Parlamento. Le differenze tra la Democrazia cristiana e i partiti di sinistra (comunista e socialista) attenevano al rapporto tra l’azienda e il bene terra: proprietari da una parte e affittuari e mezzadri dall’altra. Ma per il semplice fatto che i primi si riferivano alla DC e al Partito liberale e gli altri alla sinistra. Non a caso lo scontro politico e sindacale avveniva essenzialmente intorno alla legislazione sui contratti agrari.

È da quando l’Europa ha modificato gli obiettivi della politica agricola che in Italia non siamo più in grado di avere una visione generale entro cui accompagnare le trasformazioni che avvengono nelle campagne. L’abbandono dell’opzione produttivistica (produrre quanto più possibile) e la consapevolezza che dare un po’ di assistenza ai produttori agricoli non fosse affatto una garanzia contro lo svuotamento dei territori rurali hanno determinato una crisi di progettualità che non si è più risolta. E il motivo di tale insufficienza è da ricercare nel fatto che un progetto nuovo avrebbe dovuto fare i conti con gli interessi in campo non più unificati dai due obiettivi precedenti, che mettevano insieme aziende agricole di diverse dimensioni e di aree differenti e coagulavano il consenso soprattutto di numerosi soggetti del settore della trasformazione dei prodotti agricoli, che intorno a quegli obiettivi erano sorti e si erano consolidati.

Occorreva, pertanto, riconoscere la scomposizione degli interessi, la loro “molecolarità”, che in chimica allude al numero di particelle  che devono collidere  tra loro  per dare luogo a una data reazione chimica elementare. Una “molecolarità” che aveva dato vita ad una frammentazione associativa, che inizialmente riguardava solo la cooperazione e l’associazionismo e che successivamente ha coinvolto nuove figure sociali ed economiche, apparse nelle campagne a seguito del processo di modernizzazione agricola. Ma nessuna organizzazione è stata in grado di riconoscere il processo di “molecolarizzazione” e di favorire la creazione di nuove forme di rappresentanza dalla collisione delle diverse particelle. Anzi il processo è deflagrato in una vera e propria frantumazione della rappresentanza quando è venuto meno anche il collante ideologico che fino alla caduta del Muro di Berlino teneva uniti gli interessi agricoli prevalentemente alla DC  e al PCI. E da quel momento le diverse molecole, nel collidere – cioè nel venire a contatto, nel confrontarsi – non sono più state in grado di produrre quel processo che si era prospettato negli anni Settanta e Ottanta: la sperimentazione dell’unità d’azione in vista di una potenziale unificazione organizzativa e politica delle diverse strutture. Tale esito unitario si inscriveva nell’orizzonte della particolare politica agricola europea e nazionale che veniva realizzata tra gli anni Cinquanta e Ottanta.

Le reti come modelli innovativi della rappresentanza nelle campagne

Nelle odierne economie post-fordiste e nei sistemi di welfare locale sono completamente mutati gli stessi paradigmi con cui individuare le strutture produttive nelle campagne su cui disegnare le forme della rappresentanza. Dovrebbe essere il territorio rurale con le sue molteplici funzioni la fonte delle regole per la struttura produttiva. E dunque né la condizione professionale dell’operatore, né la forma di possesso della terra, né il settore merceologico, né ancor più la dimensione fisica della struttura di riferimento dovrebbero costituire i criteri da far valere nell’accesso all’intervento pubblico, bensì la coerenza del singolo progetto con gli obiettivi di una programmazione territoriale condivisa e la capacità di quel singolo operatore di interagire con una molteplicità di soggetti nelle reti distrettuali. In tale contesto la “molecolarità” dei soggetti sociali, delle figure giuridiche, delle forme di possesso della terra, che mediante la sovrapposizione delle coppie lavoro/impresa, agricoltura/industria e agricoltura/servizi genera ulteriore “molecolarità”, dovrebbe indurre l’adozione di forme di rappresentanza totalmente diverse da quelle precedenti, in una logica di poliarchia, di articolazioni a rete e di costruzione dal basso. Più che sui meri dati quantitativi dei soggetti organizzati, è sulla capacità di interagire in modo attivo ed efficace all’interno dei processi partecipativi ai diversi livelli e dei percorsi  innovativi che bisognerebbe basarsi per  apprezzare il peso reale della rappresentanza.

Nell’attuale contesto delle campagne, le forme di rappresentanza più adatte alle esperienze dell’Agricoltura Sociale appaiono, pertanto, essere le reti di persone e di organizzazioni impegnate in esperienze concrete o interessate a promuoverle, che adottano il principio della democrazia partecipativa e danno vita, mediante percorsi condivisi, a reti sempre più ampie, come le comunità di pratiche a livello nazionale ed europeo. Le reti e le comunità di pratiche permettono infatti appartenenze plurime, che caratterizzano oggi gran parte delle esperienze associative, una volta affrancatesi dai legami ideologici del passato.

È per questo che non ha senso perseguire l’idea di realizzare un indistinto processo unitario che aveva una ragion d’essere negli anni Sessanta e Settanta nel quadro di un’economia fordista. Occorre, invece, farsi guidare da una logica di poliarchia, di articolazioni a rete, di distretti rurali di economia solidale, di costruzione dal basso, nel quadro di un nuovo progetto dell’agricoltura di dimensione europea, che può tuttavia nascere solo riconoscendo e studiando le trasformazioni profonde che sono intervenute in questi decenni nelle campagne italiane ed europee. Una conoscenza approfondita di tali cambiamenti si può ottenere non solo compulsando dati statistici ma soprattutto mettendo insieme storie di vita.

Un’analisi accurata di quello che le campagne sono diventate e l’ideazione di un nuovo progetto per queste ci possono far superare la dicotomia che si è prodotta negli ultimi venti anni tra chi fa riferimento alle grandi forze del mercato, alla scienza, alla tecnica e alla finanza, in sostanza ai grandi poteri del nostro tempo, attento alle opportunità della globalizzazione ma incurante dei danni che essa produce con la smaterializzazione e la a-territorialità, e chi pensa invece di prendere le distanze da questi potentati rinchiudendosi nei localismi e nei saperi nostalgici, ritenendo che un nucleo vivace di agricolture non omologate ai processi industriali potesse irradiare modelli di vita, di produzione e di consumo alternativi a quelli imperanti.

Secondo quest’ultimo filone di pensiero, la crisi economica e le emergenze energetiche e climatiche non farebbero altro che porre in risalto le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo e i paesi ricchi non dovrebbero fare altro che “ritornare” sui loro passi, recuperando un rapporto coi propri mondi rurali che, ormai emancipati dalle condizioni di arretratezza del passato, potrebbero alimentare economie locali, come tasselli di un grande mosaico alternativo al modello finora imperante.

A chi persegue l’idea di un “ritorno” ad una illusoria età rurale sfugge il fatto che l’interazione tecnologia-mercato è ormai un processo inarrestabile e che bisogna solo governarlo senza inseguire l’illusione di economie “altre” o di agricolture “altre”. E’ necessario fare i conti con l’economia reale e con la globalizzazione  introducendo regole nuove e facendo rispettare quelle che già esistono. Se un “ritorno” a qualcosa va perseguito, questo non può essere altro che il recupero dell’idea che, per governare i territori e abitarli in modo consapevole, dobbiamo “ritornare” a riconoscerci come costruttori e manutentori dei paesaggi che abitiamo. Si tratta, in sostanza, di “riprogettare” i territori come processo di autoapprendimento collettivo e di edificazione di un nuovo Welfare, di  sviluppare più conoscenza scientifica, integrandola con saperi locali da “riscoprire” e “rivitalizzare”, di rinunciare alla concezione antropocentrica oggi dominante in tutto l’Occidente, riconoscendo la finitudine umana, e di dotare la politica e le istituzioni di un ruolo europeo e planetario per introdurre più regole nell’economia, contribuendo a razionalizzare i problemi globali.

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