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Uomini e risorse nelle aree interne

Intervento introduttivo all'Incontro-dibattito sul tema "La terra, l'acqua, la vita nella Basilicata interna", svoltosi il 21 agosto 2010 a Tito, presso il Rifugio "La Casermetta", nell'ambito del 1° Festival della Terra e dell'Acqua organizzato dall'Associazione Ri-Crea

Per affrontare correttamente il tema del nostro rapporto con la terra e in generale con le risorse naturali, dovremmo approfondire le conoscenze sulle modalità di tale rapporto così come sono state create dalle generazioni che ci hanno preceduto. Non già per ritornare a regole o usanze ormai superate ma per comprendere e rivitalizzare il senso più profondo di tale rapporto perché esso è parte costitutiva della nostra esistenza, della nostra cultura e del nostro benessere fisico e psichico, sia come individui che in quanto comunità. La qualità di tal irelazioni è fondamento di ogni civiltà.

Nelle aree interne della Basilicata, il rapporto delle popolazioni con le risorse naturali è rimasto pe rtantissimi anni pressoché inalterato. Dei centotrenta comuni e comunelli, in cui la regione tuttora è articolata, molti si sono formati ai tempi delle popolazioni pre-greche e pre-romane. E i caratteri originari di un’antica società rurale si conservano ancora oggi in gran parte del territorio lucano.

C’è un nesso molto stretto tra livelli e modi di vita, persistenza di usanze e tradizioni e relazioni degli uomini con la terra, l’acqua, il bosco, la montagna.

Le popolazioni lucane sono vissute esclusivamente e sempre di pastorizia e di una forma primitiva di agricoltura, per lo più priva di stabili insediamenti in campagna. Esse hanno, fin dalle loro origini, preferito risiedere in borghi più o meno grandi, spesso situati nelle parti alte del territorio.

La spiegazione più convincente della scelta dell’insediamento accentrato rispetto a quello sparso riguarda proprio la particolarità del rapporto che gli uomini avevano con le risorse naturali.

Su terre impervie e difficili di montagna e collina, con un clima avverso per eccesso di piogge invernali e per le prolungate siccità primaverili-estive, le uniche utilizzazioni possibilierano la pastorizia transumante tra i monti freschi d’estate e le marine calded’inverno, e, in più, una dispersa, quasi nomade, coltivazione di cereali e di poche altre piante annuali.

I contadini potevano, infatti, sfuggire alle conseguenze del mutevole andamento climatico solo coltivando qua e là nel territorio, non uno solo, ma molti e distanti corpi di terra, col vantaggio di distribuire meglio nell’anno i duri lavori di rottura del terreno, di semina, di pulitura e di raccolta, necessari per quelle modeste produzioni.

L’insediamento accentrato delle popolazioni era indispensabile per utilizzare la terra in siffatto modo, benché a favorire la scelta di tale stile di vita hanno certo contribuito anche altri motivi: la sicurezza dei luoghi dagli attacchi esterni e dalla malaria, la localizzazione delle sorgenti per l’acqua potabile, il più facile accesso ai boschi per la legna da ardere.

Sono stati siffatti rapporti delle popolazioni con la terra e con le risorse naturali a determinarne altri, come le relazioni tra pastori e contadini, tra questi e le classi dominanti, tra i singoli componenti della comunità del villaggio.

I conflitti tra pastori e contadini per l’uso della terra erano inevitabili e sono variati nel tempo, col sopravvento dei primi quando gli abitanti sono stati meno numerosi e dei secondi quando, cresciuta la popolazione, la “fame di terra” si è fatta più acuta.

Almeno fino agli inizi dell’Ottocento, i rapporti sia dei pastori che dei contadini con le classi dominanti – per lungo tempo signori feudali e istituzioni ecclesiastiche – sono rimasti basati, da un lato, sull’imposizione alle popolazioni di onerosi censi e tributi e, dall’altro, su di un regime fondiario che lasciava largo spazio alle terre demaniali o soggette ad uso civico, ossia ad un certo rispetto per i diritti alla terra delle popolazioni.

I rapporti all’interno della società rurale, infine, non sono mai stati rapporti tra eguali, bensì di rivalità tra nuclei familiari provvisti di diversa forza economica e, per certi aspetti, politica.

I caratteri di siffatte relazioni tra gli uomini ci fanno comprendere non solo i motivi della diffusa arretratezza che esisteva nel nostro territorio ma anche le ragioni di un’aspra vitalità delle popolazioni che ci hanno preceduto, condannate a un durissimo lavoro e insieme a una guerra di tutti contro tutti.

Tuttavia, nell’antico mondo contadino erano diffuse e consolidate anche pratiche di reciprocità e mutuo aiuto che riguardavano il prendersi cura delle persone, della terra, dell’acqua e degli esseri viventi non umani. E’ sufficiente rammentarne alcune: la molteplicità dei riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali stando tutti insieme per educarsi reciprocamente alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria, i saperi e quei valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva; i peculiari metodi di coltivazione della terra per garantirne il rinnovo della fertilità e la protezione dall’erosione; l’uso dell’acqua commisurato alle effettive necessità irrigue delle colture per evitare ogni spreco.

Fin dalle origini della società contadina, la reputazione delle diverse comunità rurali si è alimentata dellacapacità di dare valore e dignità alle persone in condizioni di dipendenza o portatrici di singolari particolarità; frutto dell’intreccio virtuoso tra la dimensione produttiva, quella relazionale con le piante, con gli animali e in generale con la natura e quella familiare e comunitaria.

Nell’antica società rurale, costituiva inoltre senso comune l’idea che ogni membro della comunità dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità stessa nella lotta collettiva per la sopravvivenza. Un modo per assicurarsi contro i pericoli di disastri naturali, e in alcuni casi anche per reagire ai metodi di esazione delle tasse o degli obblighi feudali.

Le aggregazioni che gestivano le terre collettive, su cui si esercitavano gli usi civici, originariamente svolgevano anche funzioni pubbliche, come pagare il medico, la levatrice, curare lamanutenzione delle strade e delle fontane, ma poi si limitarono a gestire solo gli aspetti più propriamente economici.

In tale quadro, svolgevano una funzione peculiare di solidarietà nei confronti degli ultimi anche le chiese ricettizie e le confraternite, che erano istituzioni d’ispirazione religiosa ma indipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche. Esse gestivano enormi patrimoni fondiari derivanti da lasciti e donazioni ed erano regolate da statuti così minuziosamente rispettosi delle prerogative dei soci e dei principi mutualistici da farcele apparire quasi come cooperative sociali ante litteram.

Ancora oggi esiste nel nostro ordinamento un modo di possedere diverso dalla proprietà pubblica e dalla proprietà privata: la proprietà collettiva in capo direttamente alle comunità locali e su cui ogni singolo cittadino esercita dei diritti definiti collettivamente. E’ sbagliato confondere, come spesso oggi avviene, i beni collettivi, autogestiti dai cittadini, coi beni pubblici di proprietà dello Stato, delle Regioni e degli enti locali.

Quando parliamo del mondo contadino spesso erroneamente lo concepiamo come mondo chiuso in se stesso eseparato dagli altri, ma in realtà il suo spazio vitale è il territorio. E’ del resto significativo che il termine territorium, il quale nel latino classico indicava lo spazio agrario intorno ad un centro abitato, nel latino medievale, diventando terra, designava i borghi in cui i contadini scambiavano i propri prodotti e vendevano il proprio lavoro; da dove partivano la mattina per andare in campagna, ma dove rientravano la sera. Ancora oggi la parte bassa dei nostri paesi viene indicata con l’espressione mbèd la terra, che dimostra come la terra e il centro abitato siano la stessa cosa. Dunque terra come spazio del coltivare, del costruire e dell’abitare senza distinguere l’urbano dal rurale; terra come comunità.

* * *

Con l’esaurirsi degli antichi ordinamenti feudali e i tradizionali privilegi ecclesiastici, molte pratiche comunitarie si dispersero e le vecchie forme di sfruttamento furono sostituite dalla prepotente espansione di una borghesia terriera, decisa a sottoporre quanta più terra possibile al nuovo regime di proprietà privata, a usurpare e cancellare gli antichi diritti delle popolazioni sulle terre demaniali o soggette ad uso civico, a comperare le terre della Chiesa, a esercitare su larga scala l’usura ai danni dei contadini poveri e ad imporre dovunque contratti agrari ben più duri di quelli precedenti.

Questa terribile borghesia terriera, che si veniva formando, si giovò di importanti leggi emanate dallo Stato unitario, a seguito dell’annessione del 1860, e si impadronì in modo assoluto e spregiudicato delle amministrazioni comunali. Mentre alle masse contadine furono triplicate le imposte rispetto a quelle pretese dal regime borbonico e venne addossato per la prima volta il peso del servizio militare obbligatorio.

Nel frattempo la popolazione lucana era cresciuta da 400 a 500 mila unità, malgrado l’emigrazione che già allora si manifestava in modo significativo. Il rapporto risorse-popolazione si era perciò rotto, spingendo alla distruzione di 70 mila ettari di bosco, al dissodamento delle terre e alla riduzione di un quarto dei capi di bestiame. E tutto questo rendeva intollerabile l’antica miseria.

Non a caso nel primo decennio dopo l’annessione divampò violento, specie nelle aree interne della Basilicata, un antico male endemico della regione, il brigantaggio, che assunse l’esplicito carattere di guerra civile dei “cafoni” contro la borghesia terriera. In quella triste vicenda, 5 mila contadini lucani furono uccisi in battaglia o fucilati e 8 mila condannati a pene severe di lunga detenzione.

Lo Stato unitario costruì la rete ferroviaria, moltiplicò le strade rotabili e rinnovò la scuola, ma i segnali di progresso, già di per sé lentissimi e modesti nell’insieme della regione, furono avvertiti assai debolmente nelle zone interne. L’analfabetismo si ridusse di pochissimo: dal 91 % del 1861 al 75 % del 1901.

La valvola di sfogo di questa situazione intollerabile fu l’imponente emigrazione dei contadini verso le Americhe e in particolare verso gli Stati Uniti. Tra il 1870 e il 1900 si allontanarono dalla Basilicata 265 mila persone, pari alla metà della popolazione e superiore alle elevate eccedenze naturali di quel periodo.

Quell’ondata di emigrazione fu un’esperienza particolarmente coraggiosa ma enormemente dolorosa. Va in tale quadro ricordata la piaga della tratta dei bambini che venivano affittati o venduti dalle famiglie a incettatori che provvedevano a deportarli in altri Paesi, dove venivano sfruttati in lavori pesanti e sottoposti ad ogni forma di sevizie e maltrattamenti. Se per parecchi emigranti quell’esperienza si chiuse con il raggiungimento nelle Americhe di buoni livelli di vita e di soddisfacenti posizioni sociali, per i più o è stata una parentesi, ripetuta, nella vita tradizionale, o è risultata negativa. Siccome molti non fecero più ritorno ed altri rientrarono troppo rapidamente, nelle zone interne della Basilicata il fenomeno migratorio non migliorò affatto le condizioni di vita preesistenti.

Ma dal 1921 l’emigrazione verso gli Stati Uniti si interruppe e la popolazione lucana aumentò di nuovo. La fine delle rimesse e gli effetti della grande depressione, delle guerre d’Etiopia e di Spagna e infine della seconda guerra mondiale  annullarono qualsiasi progresso in precedenza conseguito.

Il fascismo non fece sostanzialmente nulla di significativo per attenuare le condizioni di diffusa miseria in cui versava la regione.

* * *

La situazione è notevolmente cambiata solo dopo l’avvento della democrazia repubblicana e la realizzazione di una serie di conquiste del movimento contadino che si sviluppò in modo imponente nei primi anni del secondo dopoguerra: la riforma agraria, la politica avviata con il Piano Marshall e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.

Tali interventi hanno profondamente trasformato il territorio lucano: la malaria è stata debellata; la pianura metapontina è stata bonificata e dotata di impianti irrigui che hanno permesso in quell’area  di moltiplicare la produzione agricola e la popolazione; le terre migliori della collina hanno raggiunto notevoli livelli di progresso, grazie alla meccanizzazione, alle innovazioni varietali, alla migliore tecnica colturale; la costruzione delle fondovalli a scorrimento veloce ha rivoluzionato il sistema dei trasporti; in alcune aree si è avviato un processo di industrializzazione di una certa consistenza anche se spesso dagli esiti molto incerti; tra tutti gli strati della popolazione si è generalizzato il sistema assistenziale e previdenziale; l’analfabetismo è scomparso ed è cresciuto in modo esponenziale il numero dei diplomati e laureati.

Ma questi risultati hanno inciso solo parzialmente sull’economia delle zone interne, le quali hanno contribuito notevolmente all’ondata di emigrazione del secondo dopoguerra con 250 mila partenze, quasi tutte senza ritorni, e si sono fortemente differenziate: 30-35 comuni dell’entroterra hanno, infatti, imboccato una qualche prospettiva di sviluppo; mentre gli altri 70, tutti montani e in corso di spopolamento, costituiscono il nocciolo duro della marginalità che non si vuole rompere. Qui l’abbandono della terra, i pascoli vuoti e il bosco degradato hanno aggravato straordinariamente il dissesto idrogeologico e innescato processi pericolosi di desertificazione.

Ancora oggi manca la capacità di individuare per queste aree percorsi di sviluppo corrispondenti alle caratteristiche tradizionali dei luoghi e degli uomini perché non è stata mai avviata una riflessione puntuale sui rapporti tra individui, comunità e risorse e una ricerca interdisciplinare sulle modalità con cui questi rapporti si sono sviluppati in passato e si possono riproporre in futuro. Si è infruttuosamente insistito nel perseguire anche nelle aree agricole  più interne della regione obiettivi produttivistici e forme estranee di organizzazione aziendale del tutto incompatibili con i caratteri originari di questi territori. Si sono peraltro considerati elementi di debolezza la frammentazione della maglia poderale, la pluriattività familiare, il part time, le forme più diversificate di agricoltura amatoriale e di autoconsumo, i mercati locali, che costituiscono invece il naturale legame con le tradizionali modalità di rapporto con le risorse e la base si cui ricostruire in forme moderne la multifunzionalità dell’agricoltura.

Solo attivando una ricerca-azione che scavi nella memoria storica delle comunità  si potrebbe procedere concretamente nella realizzazione di progetti volti a rivitalizzare i tradizionali rapporti esistenti nelle aree interne in efficaci attività agricole multifunzionali, come la tutela del paesaggio agrario, la manutenzione del territorio, l’agriturismo, la valorizzazione degli itinerari storico-archeologici, l’agricoltura sociale, l’educazione al rapporto con le risorse naturali e con il cibo, da inserire in economie locali solidali più ampie e da collegare a reti interregionali e internazionali, tentando di bloccare in questo modo l’esodo che ancora non si arresta.

Si tratterebbe di impegnare in una diffusa iniziativa progettuale la vasta rete di associazioni culturali e di volontariato e la cooperazione sociale per promuovere la collaborazione di giovani autoctoni e giovani immigrati in processi di integrazione interculturale capaci di creare nuove attività economiche e moderni insediamenti civili.

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