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Una storia di agricoltura sociale nell’antica Roma

Dopo aver curato una balbuzie congenita vivendo in campagna, Tito Manlio Torquato convinse i romani a non condannare il padre, Lucio Manlio Imperioso, dittatore della repubblica romana, per averlo indotto autoritariamente a dedicarsi alle attività agricole. Per lui la vita agreste non era stata affatto una segregazione ma un'opportunità per migliorare il suo benessere psico-fisico.

Copertina dell'album dell'opera di Vivaldi "Tito Manlio"

Copertina dell’album dell’opera di Vivaldi “Tito Manlio”

Nella sua opera Storia di Roma Tito Livio narra la vicenda di Tito Manlio Torquato, un giovane di nobile famiglia che si porta dalla nascita una balbuzie così fastidiosa da renderlo facile bersaglio di lazzi e battute spiritose da parte dei suoi concittadini.  Il padre, Lucio Manlio, era un dittatore della repubblica romana dai modi eccessivamente autoritari, tanto da essere soprannominato “Imperioso”. E volle troncare le sofferenze psicologiche al figlio, inducendolo a vivere ritirato in campagna. Il ragazzo però prese bene la decisione del padre. E sperimentò che l’attività agricola, la cura della natura, la relazione con le piante e con gli animali, il farsi carico di altri esseri viventi, permettevano di accrescere la propria autostima. E si convinse che quella condizione aveva effetti positivi sulle sue capacità di esprimersi. Pensò allora che la sua vita in campagna non era per niente una condanna ma un’opportunità: la qualità della sua vita migliorò fino al punto di parlare con sempre maggiore scioltezza e diventare un abile oratore.

Ma vediamo come Tito Livio racconta questa storia di agricoltura sociale ante litteram. Siamo nel 363 a.C. e all’epoca esisteva a Roma un’antica legge, scritta con parole e caratteri arcaici, la quale stabiliva che il più alto magistrato in carica doveva piantare un chiodo alle idi di Settembre. Questa legge era affissa sul lato destro del tempio di Giove Ottimo Massimo, nel punto in cui c’era il santuario di Minerva. La scrittura a quei tempi non era diffusa e pare, dunque, che il chiodo servisse per segnare il numero degli anni. La legge era stata consacrata nel santuario di Minerva perché il numero era un’invenzione della dea.

Il console Marco Orazio, attenendosi a quella legge, aveva consacrato il tempio di Giove Ottimo Massimo l’anno successivo alla cacciata dei re. Successivamente, la cerimonia solenne del piantare il chiodo passò dai consoli ai dittatori che rappresentavano un’autorità più alta. Col passare del tempo l’usanza era stata abbandonata e quasi nessuno più se ne ricordava.

Ma a Roma una terribile pestilenza imperversava da ormai tre anni. E alcuni anziani pensarono di reinventare la tradizione del chiodo da far piantare a un dittatore. Sicché fu prescelto Lucio Manlio Imperioso. Non è dunque chiaro se la ragione della sua nomina derivasse dalla necessità di portare la guerra agli Ernici o, semplicemente, dalla convenienza di assolvere ad una superstizione per scongiurare l’aggravarsi di un’emergenza sanitaria. Ma per i giovani chiamati alla leva obbligatoria, quella guerra combattuta sotto il comando del nuovo dittatore, fu un’esperienza disastrosa. Vessazioni, ammende pecuniarie, violenze fisiche, cosa non dovettero subire quei poveri ragazzi alle prese con un uomo così brutale. Tutti i tribuni della gleba insorsero contro il tiranno che finalmente si lasciò piegare dalla forza e dalla vergogna e rinunciò alla dittatura.

Tuttavia, all’inizio dell’anno seguente, durante il consolato di Quinto Servilio Aala e di Lucio Genucio, il tribuno della plebe Marco Pomponio non esitò a citare in giudizio Lucio Manlio. Il risentimento nei suoi confronti era dovuto al fatto che egli si era abbandonato ad ogni sorta di angheria. Alcuni cittadini erano stati addirittura frustati per non aver risposto alla chiamata, altri  marcivano in carcere. Ma ciò che più irritava i romani era quel soprannome, “Imperioso”, assunto quasi come un’ostentazione della ferocia da lui mostrata non solo nei confronti di estranei ma anche verso gli amici più cari e i membri della sua stessa famiglia. Questo comportamento veniva considerato un’offesa per un paese libero e non poteva rimanere impunito.

Tra le altre imputazioni il tribuno volle aggiungere il comportamento che era stato tenuto da Lucio Manlio nei riguardi del figlio.  Gli contestava di aver allontanato il ragazzo da Roma, dalla casa paterna, dal foro,  senza che quest’ultimo si fosse macchiato di alcun crimine. Di averlo privato della compagnia dei coetanei, costretto ad un lavoro da schiavo in campagna, come  in un ergastolo, dove un giovane di nobili natali e figlio di un dittatore potesse apprendere dalla quotidiana sofferenza quanto fosse veramente imperioso il padre che l’aveva generato. E quale era stata la sua colpa? La scarsa eloquenza e prontezza di lingua. Ma non sarebbe stato compito del padre, se in lui ci fosse stato un minimo di umanità, correggere questo difetto di natura invece di peggiorarlo con punizioni e tormenti? Perfino gli animali allo stato brado, se uno dei loro piccoli è meno fortunato, non di meno continuano a nutrirlo e a curarsi di lui. Ma Lucio Manlio, il male che affliggeva il figlio lo accresceva facendogli altro male, e in più soffocandone lo sviluppo dell’indole già poco pronta. E se poi in lui restava qualcosa della naturale vitalità, Manlio la spegneva costringendo il giovane a vivere in maniera selvaggia e a crescere tra le bestie. Questi erano gli argomenti che Marco Pomponio aveva messo insieme contro l’ex dittatore.

Le accuse suscitarono l’indignazione di tutti. Ma quando alcuni amici andarono in campagna a trovare il ragazzo per riferirgli dell’iniziativa di Marco Pomponio e delle terribili imputazioni mosse al padre, restarono a bocca aperta. Tito Manlio ascoltò in silenzio e si mise la testa tra le mani. Soffriva molto al pensiero di essere causa di ulteriore risentimento da parte della popolazione nei confronti del genitore. E perché? Tutti in cielo e in terra avrebbero dovuto sapere che egli preferiva aiutare il padre piuttosto che i nemici del padre. Organizzò, dunque, un piano che – benché frutto di un’indole rozza e selvaggia e ben lontano dal risultare un esempio di condotta civica – lo storico Tito Livio elogia perché dimostra un attaccamento al padre fuori dal comune.

Senza che nessuno lo sapesse, alle prime luci del giorno, il giovane andò in città, armato di coltello. E dalla porta raggiunse in un attimo la casa del tribuno Marco Pomponio. Al portinaio disse di dover vedere immediatamente il suo padrone e lo pregò di riferire che si trattava di Tito Manlio, il figlio di Lucio. Fatto entrare senza esitazione –Marco sperava che a spingerlo fosse la rabbia nei confronti del padre o che fosse venuto a riferire qualche nuova accusa o a suggerire un piano – dopo un reciproco scambio di saluti, il giovane disse che c’erano degli argomenti di cui voleva discutere con lui lontano da occhi indiscreti. Dopo che a tutti i presenti venne ordinato di allontanarsi dalla stanza, afferrò il coltello. E, fermo in piedi sopra il letto del tribuno con in mano l’arma pronta a colpire, minacciò di pugnalarlo sul momento, se Pomponio non avesse giurato di non convocare più l’assemblea popolare per mettere suo padre sotto accusa. Il tribuno, in preda al panico, vedendo il bagliore della lama davanti agli occhi e rendendosi conto di essere da solo e disarmato di fronte a un giovane nel pieno delle forze e – cosa questa non meno preoccupante – brutalmente imbaldanzito dalla consapevolezza della propria forza, giurò secondo la formula che gli era stata dettata.

Successivamente, dichiarò pubblicamente di essere stato costretto da quell’atto di forza ad abbandonare l’azione intrapresa. La plebe avrebbe preferito che le fosse concessa l’opportunità di esprimere il proprio voto nei riguardi di un imputato tanto crudele e arrogante. Tuttavia non disapprovò che un figlio avesse osato quel gesto in difesa del padre. Gesto tanto più degno di elogi per il fatto che la severità esagerata del padre non aveva diminuito nel giovane l’amore per il genitore. Perciò non solo venne ritirata l’accusa nei confronti del padre, ma l’intera faccenda fu per il ragazzo addirittura motivo di onore. Dato che quell’anno si stabilì per la prima volta di nominare i tribuni militari a capo delle legioni con una regolare votazione – fino ad allora a nominarli erano i generali in persona – egli fu il secondo a essere eletto su sei posti disponibili, pur non avendo compiuto, in pace o in guerra, nulla che giustificasse tale popolarità.

 Cosa aveva indotto Tito Manlio a prendere quell’iniziativa così rischiosa per aiutare il padre? E cosa aveva convinto l’assemblea a respingere le accuse mosse da Marco Pomponio? Certamente gli effetti terapeutici e riabilitativi dell’attività agricola e la condizione di benessere psico-fisica che il ragazzo aveva acquistato, prendendosi cura dell’orto e degli animali della fattoria.

Successivamente egli fu protagonista di altri episodi esemplari. Sfidò a duello un gallo dall’enorme corporatura. Si limitò a sfilargli la collana ma non infierì contro di lui quando lo vide cadere. Il termine con cui veniva denominata la collana (tourques) suggerì il soprannome che gli fu affibbiato da allora: Torquato. A motivo della sua eloquenza e magnanimità, egli fu più volte nominato dittatore e console di Roma. E durante la guerra contro i Latini, che si concluse vittoriosamente con la sanguinosa “battaglia del Vesuvio”, prese la dolorosa decisione di giustiziare il figlio perché era venuto meno ad un ordine del padre console. Era uscito dalle file per combattere in duello il tuscolano Gemino Mecio. E era stato deciso di non accettare le provocazioni dei nemici.

Alcuni interpreti hanno voluto vedere in quest’ultimo episodio una sorta di risarcimento per l’eccessiva severità subita da ragazzo da parte del padre. Non potendo agire contro di lui, avrebbe infierito sul figlio. Questa lettura non la trovo convincente perché non considera i miglioramenti delle sue condizioni di salute dovute all’attività agricola. Mi sembra più congrua un’altra spiegazione.  Egli davvero era mosso da un senso di gratitudine verso il padre che lo aveva mandato in campagna e non nutriva alcun risentimento per quella decisione apparentemente severa. Ed è proprio l’attività agricola a educarlo a coltivare il senso di giustizia: non avrebbe mai potuto adottare due pesi e due misure nel giudicare il comportamento del figlio.

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