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Sviluppo locale e metropoli: un ossimoro?

Ogni discorso sulla periferia del futuro non può più partire da un’idea generica di periferia che si contrappone al centro. C’è un continuum urbano-rurale e una molecolarità sociale come esito del passaggio dalla centralità della dialettica capitale-lavoro alla centralità del rapporto tra flussi e luoghi. Nel nuovo paradigma si vanno ridisegnando le comunità-territorio e i rapporti reciproci tra comunità, società civile ed ente locale di prossimità. E ogni comunità-territorio è un discorso a sé perché la sua fisionomia non rispecchia alcun modello predefinito, ma dipende dalle motivazioni interne, dalle memorie collettive, dai processi spontanei e dai movimenti sociali che in esse operano

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L’idea di sviluppo locale è generalmente associata ai sistemi produttivi locali che operano al di fuori delle grandi aree urbane. In realtà, lo sviluppo locale oggi può essere fatto dappertutto senza più distinzioni di sorta. Per effetto della globalizzazione e della nuova rivoluzione tecnologica, centro e periferia, città e campagna, urbano e rurale, sviluppo industriale concentrato e sviluppo industriale diffuso hanno perduto il loro originario significato. Non ci sono steccati ma spesso sovrapposizioni e commistioni. Anche le aree metropolitane si presentano oggi in una dimensione policentrica e multifunzionale.

Quando s’immagina una metropoli la mente va dritta ad uno schema che si fonda sulla distinzione netta tra la città formale che costituisce il centro e, poi, una città parallela edificata per lo più in maniera casuale, schizofrenica, difforme, quasi un ammasso confuso come una marmellata. Il centro lo immaginiamo come il luogo della legalità, dell’ordine, della relazionalità e della cultura. Mentre la periferia la concepiamo come un magma orientato verso il centro per assumerne l’immagine e somigliargli. Il centro lo pensiamo come la residenza delle classi agiate. Mentre la periferia la idealizziamo come il luogo dove si affollano le classi subalterne, vogliose di emanciparsi e scardinare il recinto, il confine, la divisione.

Dalla centralità della dialettica capitale-lavoro alla centralità del rapporto tra flussi e luoghi

Anche Roma la immaginiamo così. Ma la situazione non è più questa. La “cintura rossa”, a suo tempo costituita da circa 70 mila operai dell’edilizia, non esiste più. È stata distrutta dalla nuova immigrazione extra-comunitaria e dalle innovazioni tecnologiche e produttive delle grandi imprese edili, che hanno soppiantato e spinto fuori mercato i “palazzinari”, grandi e piccoli, con la divisione del lavoro, la specializzazione delle mansioni produttive, i nuovi materiali e le nuove tecniche del processo produttivo. Il ghetto edile non c’è più. Non ci sono più le baracche dove si dovrebbero trovare gli attrezzi agricoli elementari: oggi vi dormono , un tanto a letto, gli extra-comunitari. Nei quartieri periferici c’è una riduzione significativa di quella che resta la caratteristica fondamentale di tutte le periferie, cioè l’esclusione sociale e la discriminazione classista. Centro e periferie non sono più realtà insanabilmente divise, estranee l’una all’altra, come città e anticittà.

Ogni discorso sulla periferia del futuro non può più partire da un’idea generica di periferia che si contrappone al centro. C’è un continuum urbano-rurale e una molecolarità sociale come esito del passaggio dalla centralità della dialettica capitale-lavoro alla centralità del rapporto tra flussi e luoghi. L’impatto e l’intreccio tra queste due dimensioni, tra globale e locale, hanno profondamente mutato non solo i rapporti reciproci tra centri e periferie, ma anche quelli tra istituzioni (regionali, nazionali ed europee) e società locali e tra economia, società e ambiente, mettendo in discussione modelli di sviluppo e di regolazione politica che sembravano destinati a garantire un progresso illimitato.  Nella terra di mezzo tra flussi e luoghi si vanno ridisegnando le comunità-territorio e i rapporti reciproci tra comunità, società civile ed ente locale di prossimità. E ogni comunità-territorio è un discorso a sé perché la sua fisionomia non rispecchia alcun modello predefinito, ma dipende dalle motivazioni interne, dalle memorie collettive, dai processi spontanei e dai movimenti sociali che in esse operano.

Quarant’anni fa, con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti, si ipotizzava, per il 2003, una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti. Roma ha, invece, registrato una diminuzione della popolazione residente e conta circa due milioni ottocentomila abitanti. Si è verificato un controesodo dal centro verso l’esterno, dentro e fuori il grande raccordo anulare.

C’è stato un afflusso di fasce consistenti di ceto medio con redditi medio-alti che ha provocato un abusivismo di lusso e che è andato a vivere e svilupparsi a porta a porta con l’abusivismo dei disperati. Nello stesso tempo, l’intera area metropolitana è diventata meta di un’ulteriore ondata di immigrazione dalle zone più periferiche del paese, nonché dal Sud del mondo, dedita in primo luogo ai lavori nocivi per la salute, scarsamente remunerati e di poco prestigio, rifiutati dai lavoratori indigeni. I nuovi arrivati dalle aree rurali più interne, insieme agli immigrati di altri paesi, sono andati ad abitare in quelle estese porzioni di territorio in cui – già dagli anni ’70 − convivono permanentemente sia i caratteri tipici dell’urbanità, come la prevalenza dell’edificato sull’open space, che i caratteri tipici delle aree rurali, come la presenza di attività non solo agricole che si collegano al patrimonio culturale e paesaggistico dei luoghi di riferimento.

In questi territori si sono addensate negli ultimi quarant’anni non solo le “villettopoli” di famiglie benestanti, ma anche le abitazioni di persone che rifuggivano l’impazzimento delle città e hanno ricercato in nuove attività agricole e rurali una chance per dare un senso alla propria esistenza. A cui si sono aggiunte recentemente le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri.

Ripensare i territori metropolitani

Le periferie di Roma non sono più periferiche e il centro non ha da decentrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte. Allo stesso modo, le periferie non devono confrontarsi col centro per riequilibrarsi e omologarsi ad esso. Così la città non deve continuare ad invadere le campagne per sperimentare forme dell’abitare più vivibili e i territori rurali non devono ricercare un riequilibrio continuando ad  urbanizzarsi. Bisognerebbe riscoprire lo stile del costruire, tipicamente mediterraneo, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice.

Roma dovrebbe essere ripensata concependo i suoi territori come ecosistemi e come comunità epistemiche che elaborano concezioni condivise dell’alimentazione, della salute, della cultura, della sicurezza, del rapporto da intrattenere con il verde, e “costruiscono-coltivano” filiere produttive, modalità di abitare e forme di mobilità sostenibili. E questo può avvenire perché non è più la capitale che rischia di tramutarsi in periferia, come è avvenuto durante il boom economico degli anni ‘60. È ora un insieme di comunità-territorio, una volta periferiche, che faticosamente, ma caparbiamente, cercano di farsi capitale.

In qualsiasi territorio, dove sono insediati gruppi di persone e si svolgono attività umane, c’è una comunità che tenta di reinventarsi producendo nuove identità, nuove relazioni sociali, nuovi rapporti tra culture ed etnie diverse, nuove attività, nuovi modelli lavorativi e imprenditoriali, nuove forme dell’abitare.

Anche in una metropoli come Roma, il futuro passa per lo sviluppo locale dei territori che lo compongono.  Ma fare sviluppo locale in ambiti metropolitani significa produrre un’innovazione sociale. L’’innovazione non è solo un fatto tecnico, un metodo rigido che determina il successo di un’idea, di un’intuizione, di una proposta, è piuttosto il frutto di un’attitudine mentale, di una predisposizione psicologica che va alimentata con la ricerca, il confronto, lo scambio di più punti di vista.

Così intesa, l’innovazione diventa innovazione sociale, cioè un nuovo modo di organizzare l’attività umana, dove le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica. Si tratta di quella innovazione che vuole rispondere a bisogni emergenti delle persone attraverso nuovi schemi di azione e nuove forme di collaborazione tra diversi soggetti. E descrive l’intero processo attraverso il quale vengono individuate nuove risposte ai bisogni sociali con l’obiettivo di migliorare il benessere collettivo.

Lo sviluppo locale di tipo partecipativo è stato sperimentato raramente perché non è diffusa la disponibilità a mettere in discussione vecchi schemi d’azione e modalità relazionali improduttive. Se si riuscisse davvero a realizzarlo sarebbe un’innovazione sociale. Si tratta, infatti, di adeguare la cultura del territorio metropolitano finora inteso per funzioni specializzate come la catena di montaggio della grande fabbrica.

Oggi il territorio va trasformato con l’idea che ogni spazio deve poter essere centrale e polifunzionale in sintonia coi nuovi bisogni delle comunità. E va adeguato l’assetto delle autonomie locali con enti di tipo nuovo e processi federativi di area vasta, abbandonando i percorsi tradizionali di decentramento amministrativo. Si tratta di fondare lo sviluppo locale sulle capacità di autogoverno, di cooperazione e di strategia dei soggetti locali, per gestire i vincoli posti dalla globalizzazione e per coglierne le opportunità.

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