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Lo sviluppo dal basso in Sebregondi

Una visione del tutto originale e lungimirante che solo negli ultimi decenni si è andata affermando nel dibattito scientifico e istituzionale, in Europa e nel mondo. Chi oggi si occupa delle politiche regionali europee non può prescindere dalla sua opera che resta una delle riflessioni più lungimiranti sui temi dello sviluppo che si siano mai prodotte in Italia

 

sviluppo
Chi vuole conoscere il pensiero critico, elaborato già negli anni Cinquanta, nei confronti della logica quantitativa e slegata dal capitale umano territoriale, che ha caratterizzato l’idea prevalente di sviluppo e il conseguente intervento pubblico nel Mezzogiorno e nelle cosiddette aree depresse, non può prescindere dalla figura straordinaria di Giorgio Ceriani Sebregondi. Egli maturò, precocemente e da autodidatta, una visione dello sviluppo del tutto originale e lungimirante che solo negli ultimi decenni si è andata affermando nel dibattito scientifico e istituzionale, in Europa e nel mondo. Chi oggi si occupa delle politiche regionali europee non può prescindere dalla sua opera che resta una delle riflessioni più lungimiranti sui temi dello sviluppo che si siano mai prodotte in Italia.

Perché il suo contributo non ha mai trovato spazio nel dibattito pubblico nazionale? Il motivo sta nella forte caratterizzazione ideologica degli interlocutori dell’epoca e, successivamente, nei loro eredi. Marxisti, liberaldemocratici, keinesiani, rigidamente fermi nei loro schemi, non comprendevano l’originalità della sua ricerca e né vollero prestare ascolto per afferrarne il senso. Il confronto sulle sue idee, di fatto, avvenne esclusivamente con interlocutori stranieri. Non è esagerato affermare che tra le cause del fallimento delle politiche industriali per il Mezzogiorno va annoverato anche l’isolamento e l’allontanamento di questo illustre studioso dalle sedi dove quelle politiche venivano elaborate.

sebregondi

L’esperienza politica

Sebregondi nacque a Roma nel 1916 da famiglia lombarda. Laureato in giurisprudenza, cattolico, partecipò alla Resistenza nelle fila del Cln lombardo. Forte fu il suo legame con il filosofo  Felice Balbo con il quale aderì al Movimento dei cattolici comunisti e al Partito della Sinistra cristiana. Quando questo movimento si sciolse alla fine del 1945, si iscrisse al Pci dal quale uscì nel 1950, insieme a Balbo, Ubaldo Scassellati, Mario Motta, Claudio Napoleoni e Sandro Fè d’Ostiani, per obbedire alle indicazioni della Chiesa che aveva scomunicato i cattolici aderenti a quel partito.

Nonostante vivesse in un contesto di forti scontri ideologici, la sua visione culturale e politica è sempre stata molto laica e deideologizzata. Egli si ispirava senza pregiudizi alle diverse esperienze storiche contemporanee, sia nel campo capitalistico che in quello socialista, e si affidava poi alle capacità politiche e alle dinamiche sociali quali erano empiricamente riscontrabili nella realtà. Al centro della sua attività intellettuale c’era l’impegno civile nel trovare le soluzioni tecnico-politiche per promuovere lo sviluppo della società.

Nel suo pensiero, la società è un ente storico, determinatosi intorno a motivazioni, con suoi caratteri strutturali, capace di evoluzione. Ed è la società stessa a produrre le funzioni dello Stato e dei cittadini. Il primo è promotore, garante, fornitore di strumenti finanziari e tecnici per l’attuazione dello sviluppo. I cittadini sono attori organizzati, che dialogano con lo Stato sul terreno delle scelte concrete di politica economica, sociale e culturale riguardanti il loro territorio (nazionale o locale), si appropriano delle opportunità e delle capacità rese disponibili, le interpretano, le gestiscono, e si sviluppano. Lo sviluppo di una società è, per lo studioso, un processo nel quale i suoi attori consolidano la propria “indipendenza”, la loro “non soggiacenza al ricatto della situazione, indipendenza rispetto alle parti politiche, economiche, culturali, che regolano la situazione presente”. Egli avverte per tempo la mancanza di una scienza capace di affrontare i problemi dello sviluppo in modo organico, ossia dal punto di vista dell’organizzazione di tutte le sue parti e funzioni ai fini di uno sviluppo unitario e omogeneo.

L’impegno civile

Dopo una prima esperienza al Servizio studi dell’IRI, nel 1947 Sebregondi fu chiamato all’Ansaldo di Genova da Angelo Saraceno, che ne era direttore, per svolgere la funzione di segretario generale. In tale veste, affrontò la delicata situazione creatasi con la smobilitazione delle industrie meccaniche genovesi. Si trattò di un tentativo di ristrutturazione in condizioni impossibili: c’erano 30.000 operai, di cui 18.000 in esubero. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, lui e Angelo Saraceno furono “cacciati via”. Ed è a questo punto che Angelo segnalò Giorgio al fratello Pasquale Saraceno e così passò alla SVIMEZ.  Nel giro di poco tempo tra i due si aprì una divaricazione sull’idea di sviluppo che presto li condurrà all’aperta rottura. Per Sebregondi, infatti, nel processo di sviluppo il sociale assume una valenza centrale. Per ridimensionare il ruolo dello studioso di cui non condivideva l’impostazione, Saraceno istituì allora una sezione sociologica nella SVIMEZ, affidandone a lui la responsabilità. E nei primi mesi del ’58 lo allontanò dall’Associazione. Sebregondi assunse un incarico presso la Commissione Europea a Bruxelles e nel giugno dello stesso anno morì, a soli 41 anni.

Le aree depresse

Sebregondi svolse la sua intensa attività di studioso alla luce di un pensiero fondato essenzialmente su due elementi rilevanti: 1) la convinzione che lo sviluppo di una determinata area, per non essere effimero, deve essere autopropulsivo; 2) il giudizio di inadeguatezza di una concezione che limita il concetto di sviluppo ad una dimensione economica.

Secondo la sua concezione, gli interventi per le aree depresse, individuata la dimensione territoriale più adeguata, devono favorire “ un sistema in cui si attuino e si sviluppino, per forza autonoma, i processi di agglomeramento e di cumulazione”. “È importante sottolineare – aggiunge Sebregondi – il concetto di autopropulsività, ossia della rottura in radice della situazione di ristagno”. Una politica di sviluppo quindi deve puntare a favorire la migliore combinazione dei diversi fattori, ma soprattutto influendo “sull’atteggiamento e sulla volontà delle popolazioni che devono sostenere ed orientare le politiche di sviluppo. Una politica di sviluppo che non riesca ad essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito. Lo sviluppo di una società non può essere né regolato né imposto. Ciò non significa che non debbono esservi interventi e assistenza dall’esterno. Anzi, senza questi interventi non può generalmente originarsi – almeno nelle società depresse o arretrate – l’avvio del processo di sviluppo, il passaggio dalla stasi e dall’involuzione allo sviluppo. Ma in che deve consistere, più precisamente, quest’apporto, per non essere a sua volta inefficace od oppressivo? Oggi in pratica, i paesi sviluppati – almeno nell’Occidente – si comportano come se fosse sufficiente l’apporto di capitali, di moderni strumenti di lavoro, di cognizioni tecniche. Tutto ciò è di certo indispensabile ma non sufficiente. Ciò che occorre in primo luogo è l’apporto di un principio motore, di motivazioni ideologiche che sollecitino a volere lo sviluppo, e quindi a procurarsi e utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo”.

Molto interessante è la riflessione che Sebregondi compie sul sostegno pubblico alle iniziative imprenditoriali private. Se la difficoltà per iniziative imprenditoriali nelle aree depresse è conseguenza di una crisi generale del sistema istituzionale e politico l’ente pubblico non può “surrogare” l’iniziativa privata. L’ordinamento istituzionale non deve né sostituire l’iniziativa privata né “sanarne” le deficienze. Deve svolgere una funzione di garanzia, eliminando le strozzature che condizionano o impediscono l’iniziativa imprenditoriale privata.

“Il problema principale – egli scrive – non è quello del livello del reddito, ma delle fonti del reddito; ed il vero lavoro da fare, per sostenere lo sviluppo non è quello di puntare ad un rapido incremento di produzione di beni e redditi, ma a promuovere la migliore combinazione dei fattori produttivi, evitando il rischio che vi siano squilibri tra consumi e capacità produttiva, tra capitali tecnici e capitale umano; tra economia e istituzioni. Insomma lo sviluppo non è solo una categoria economica: nell’economia di piano, quindi, assumono preminente rilievo i livelli di occupazione, di investimenti, di reddito, ecc., come misurazioni statiche di disponibilità di fattori e come indicazione di traguardi successivi eteronomamente determinati. Viceversa, nel sistema autopropulsivo e autonomo, l’aspetto statico di tali livelli passa decisamente, come si è visto, in seconda linea rispetto alla problematica del movimento interno del sistema, dei suoi vizi e delle condizioni di riattivazione”.

In uno scritto del 1953 Appunti sullo sviluppo armonico, Sebregondi offre una definizione di reddito che anticipa temi divenuti oggi di moda: “La realtà è che non ci siamo ancora decisi a introdurre fra gli elementi formativi del reddito – inteso come complesso di beni e di valori reso disponibile per la soddisfazione dei bisogni umani – una serie di valori culturali, morali, religiosi, affettivi, che sono pur decisivi per il giudizio, la scelta e l’azione anche economica: valori che sono decisivi nell’uomo per giudicare dell’economicità o meno di una determinata azione. Finché dunque l’economia non potrà tenere sistematicamente conto di valori che entrano nel reddito reale degli individui e delle società, non potrà darne misura quantitativa o si sforzerà di valutare a prezzi di mercato valori che non sono oggetto di mercato, non avrà la possibilità di misurare con sufficiente approssimazione la convenienza di determinati impieghi di denaro, di forze di lavoro, di strumenti tecnici e di risorse naturali. Né potrà stabilire con sufficiente approssimazione una corrispondenza fra livello di reddito e grado di sviluppo”.

La sociologia

Accanto all’impegno nella SVIMEZ, Sebregondi continuò a svolgere una intensa attività in gruppi che agivano sul piano culturale e tecnico-politico intorno alla figura di Balbo. Nel 1951, si strutturò un gruppo multidisciplinare che si era dato il compito di ripensare le diverse discipline in vista di una rifondazione del quadro culturale ed economico nazionale, una fucina per la formazione di una nuova classe dirigente. Parteciparono in fasi diverse, oltre Sebregondi, Fè d’Ostiani, Motta, Napoleoni, Scassellati, anche Achille Ardigò, Aimone e Paolo Balbo, Ernesto Baroni, Bartolo Ciccardini, Gianni Baget Bozzo, Renzo Caligara, Franco Maria Malfatti, Italo Martinazzi, Nino Novacco, Ettore Sobrero.

Nel gruppo, Sebregondi era responsabile per l’area sociologica. Egli non aveva una preparazione specifica su tale materia e, nelle Università italiane, questa disciplina era stata di fatto bandita per iniziativa di Benedetto Croce, d’intesa con Giovanni Gentile. La sua curiosità intellettuale lo portò, dunque, ad attingere direttamente alle esperienze di altri Paesi. Dopo una prima produzione, il gruppo fu costretto a rinunciare alle sue ambizioni per alcune divaricazioni interne e per contrasti con i dirigenti democristiani e la gerarchia ecclesiastica.  Nel 1953, il gruppo si sciolse e in parte si frammentò. In particolare, Balbo e Scassellati daranno vita – con un gruppo di dossettiani rimasti senza la loro guida che si era ritirata dalla politica – alla rivista Terza Generazione e contribuiranno alla costruzione di una sinistra democristiana.

I rapporti con Economie et Humanisme

Sebregondi s’era, nel frattempo, messo in contatto con la rivista francese Economie et Humanisme – diretta da padre Louis Joseph Lebret e specializzata sui temi del sottosviluppo a livello mondiale – per approfondire le sue teorie sullo sviluppo del Mezzogiorno. E da quel punto di osservazione egli influenzò enormemente i contributi di Terza Generazione, la quale ebbe a caratterizzarsi, nel suo breve periodo di vita, per le inchieste sociali che conduceva nei territori e per l’approfondimento dei temi dello sviluppo locale e di quello meridionale, in particolare.

Lo scambio tra Sebregondi e padre Lebret fu molto fecondo soprattutto perché permise allo studioso italiano di cimentarsi sui temi dei movimenti sociali, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli avanzati, e di approfondire le possibilità di una loro più rapida espansione.

L’economista dello sviluppo, Enzo Caputo, in un saggio del 2012 ha analizzato lo scambio epistolare tra Sebregondi e Lebret. E ne vien fuori un ritratto davvero sorprendente sulla capacità dello studioso d’indagare fenomeni così lontani dalla sua esperienza quotidiana. Con grande acume etico e politico, egli avverte il religioso sui rischi di derive populiste e terzomondiste nel dedicare energie intellettuali in una teorizzazione organica di un modello sociale nuovo capace di superare il capitalismo e il socialismo. E consiglia il leader di Economie et Humanisme di orientare il movimento che si batte per l’autodeterminazione dei popoli verso un’azione pragmatica di costruzione di soluzioni fattibili, dialogando con le diverse ideologie in campo e differenziandosi da esse con la testimonianza di un umanesimo moderno.

Egli pone l’esigenza di una nuova governance che rifletta la centralità dello sviluppo nell’epoca contemporanea, favorendo l’incontro e il confronto tra uno Stato garante e promotore di soluzioni corrispondenti agli interessi dei diversi soggetti sociali e i movimenti di questi soggetti organizzati. Tali movimenti presentano problematiche complesse che non s’identificano con quelle di una classe o di una categoria, ma riguardano “pezzi di società” in contesti specifici (nazionali, sub-nazionali). E gli Stati moderni, nelle loro dimensioni nazionali, sovra-nazionali, regionali, possono aprirsi alle diverse istanze dei movimenti e proporre soluzioni di garanzia perché la loro stessa natura è cambiata. “Il ceto medio… diviene la vera base sociale dello Stato, concepito come nuovo centro d’iniziativa autonoma, visto come unico elemento capace di moderare l’antagonismo delle posizioni estreme, di evitare le rotture, di garantire il diritto, la stabilità dell’occupazione, il contenuto reale del salario, la continuità di un progresso del tenore di vita”.

Secondo Sebregondi, di fronte a questo tipo di Stato, i movimenti devono essere in grado di organizzarsi e d’interloquire, dandosi forme nuove di rappresentanza: “una nuova organizzazione che sia insieme di tutela e rappresentanza dei nuovi interessi: una controparte non meramente oppositrice ma integratrice dell’iniziativa statale… I partiti regolano la forma di potere e organizzano le forze che sostengono quella forma… agiscono per il rispetto o per la trasformazione costituzionale, per la formazione delle leggi, per la composizione del governo, per la determinazione dei metodi di governo. Ma si trovano disarmati per quanto riguarda la formazione, la determinazione e la scelta della materia di governo, potremmo dire del contenuto del potere”.

Nella società contemporanea – egli afferma – “i partiti non hanno strumenti propri per giudicare in sé e per manovrare direttamente questa materia: e se, come oggi avviene, per carenza di altre appropriate istituzioni o per timore di perdere un predominio assoluto, tentano di penetrare in questa sfera di competenza, riescono soltanto a creare confusioni di sedi e di termini, a mostrare la propria inadeguatezza… La crisi odierna dei partiti consiste per buona parte nel sentirsi e mostrarsi incapaci di dominare una realtà che non è di loro competenza. I partiti stessi, pertanto, potranno ritrovare una propria solidità istituzionale e chiarezza operativa via via che nuove istituzioni e organismi verranno ad assumere e a condurre, in forma propria, i nuovi rapporti tra cittadini e Stato”.

La democrazia diretta

A questo punto, Sebregondi affronta i problemi della ‘democrazia diretta’ tanto consona alla mentalità e all’organizzazione istituzionale dei popoli anglosassoni, e così poco di casa fra altri popoli, specie latini. Ma anche per questi il problema dell’organizzazione di nuovi istituti di democrazia diretta avrebbe dovuto porsi, dal momento che in tutti i paesi lo Stato si stava trasformando, “da spettatore o regolatore delle iniziative altrui, in attivo e autonomo operatore”.

Insomma, egli è convinto che se si vuole intervenire per lo sviluppo di una comunità, sia essa nazionale, sub-nazionale o locale, bisogna discuterne con la comunità. E questa, per poter discutere, deve organizzarsi, prepararsi, darsi forme adeguate di partecipazione e di rappresentanza.

Nelle pagine esaminate da Caputo, c’è la visione – per quanto embrionale – di un nuovo sistema di governance, in cui si intrecciano: da una parte, lo Stato garante e promotore dello sviluppo e le comunità organizzate con forme specifiche di rappresentanza diretta e, dall’altra parte, i diversi livelli della democrazia rappresentativa. La modernità di questa visione è sorprendente: un modello articolato di governance di questo tipo sarà sperimentato e in parte attuato nelle politiche di coesione regionale dell’Unione Europea. Si tratta del sistema di governance multilivello, comprensivo di forme di democrazia diretta (i gruppi Leader), in cui i piani d’azione locale sono sottoposti a processi di messa a punto e verifica orizzontali e verticali, con la partecipazione dei vari livelli territoriali e di diverse aggregazioni di cittadini.

Sebregondi scrive: “Si tratta di promuovere quella nuova forma di organizzazione dei cittadini che solleciti, guidi ed esprima il formarsi di un’autonoma capacità tecnica, politica e giuridica dei cittadini stessi a concorrere alla determinazione della politica di sviluppo economico e sociale: ciò può e deve farsi senza pretendere di sostituire ed eliminare i partiti e i sindacati, bensì liberando tali organizzazioni da compiti che sono loro impropri , e rendendo perciò stesso più sane e più ampie le condizioni della loro specifica attività”.

Come si è già detto, il contesto italiano non valorizzò le sue elaborazioni. Forse le sue proposte politiche erano troppo laiche, in un contesto nel quale lo scontro tra democristiani e comunisti era dominante e sembrava difficile concepire uno sviluppo che dovesse essere tenuto “al riparo dall’invadenza dei partiti”. Forse dal punto di vista teorico era troppo spregiudicato e attingeva al marxismo, al keynesianesimo, agli scritti di diversi economisti anglosassoni contemporanei e pianificatori di ogni parte del mondo, in un contesto accademico ancora ingessato, nel quadro di un dibattito economico dominato dal confronto tormentato tra Marx, i classici e i neoclassici.

Una sintesi per l’oggi

Caputo così sintetizza i punti salienti del pensiero di Sebregondi che potrebbe oggi essere riproposto e fatto circolare nelle attività formative, finalizzate alla costruzione di nuove classi dirigenti:

  • arretratezza e sviluppo. Rottura e ricomposizione del rapporto tra Stato e società. L’area depressa si dà in presenza di un sistema sociale bloccato, che non riesce ad approfittare delle opportunità esistenti dentro e fuori di esso. Il processo di sviluppo si ha quando questo collegamento si ristabilisce: lo Stato (sia esso nazionale o sovranazionale) offre la prospettiva e i mezzi dell’emancipazione; il sistema sociale riaccende le sue tensioni al cambiamento e si riorganizza per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo.
  • la centralità del contesto istituzionale. L’inadeguatezza del sistema istituzionale è alla radice della bassa redditività degli investimenti nelle aree depresse. E finché tale inadeguatezza permane, qualunque intervento pubblico è destinato a fallire. Per modificare il sistema istituzionale bisogna partire da un incontro costruttivo tra Stato e comunità interessate.
  • Centralità e universalità dello sviluppo. L’idea dello sviluppo come prospettiva divenuta realistica di espansione sociale, superamento di un blocco e di una frattura tra dinamiche della società e istituzioni, incontro fra la proiezione delle aspettative sociali e la capacità di garantirle e organizzarle da parte dello Stato è attualissima e riguarda il Ghana come la Cina, l’Italia e gli Stati Uniti, o il Vietnam.
  • Dimensione pedagogica dello sviluppo. Una corretta azione educativa rappresenta l’anello di congiunzione fra il concetto di società e quello di sviluppo. Autoinchiesta, autoeducazione, autosviluppo sono percorsi fattibili che trovano riscontro in un ampio ventaglio di esperienze socio-educative in diverse aree del mondo.
  • Partenariato, assistenza e aiuti. Questa idea può essere addirittura rivoluzionaria se applicata alle attuali politiche di cooperazione allo sviluppo, ponendo al centro della cooperazione la “integrazione di interessi”, la condivisione di nuovi spazi di partenariato che esaltino i commerci, gli scambi istituzionali (compresa la legalità e la sicurezza) e culturali, anziché gli aiuti che – in assenza di solide partnership – ribadiscono la subalternità dei destinatari.
  • L’auto-organizzazione e la democrazia diretta. Sono le società interessate (nazioni, comunità) che devono organizzarsi e interloquire ai diversi livelli con gli Stati promotori di sviluppo, per definire e porre in atto i programmi necessari. A livello sub-nazionale, devono nascere nuovi istituti di democrazia diretta, di natura comunitaria che promuovano e permettano questo incontro e questo dialogo, al riparo dall’invadenza dei partiti. Occorrono movimenti specializzati nell’appoggio al sorgere di queste forme, alla formazione delle leadership comunitarie.
  • Nuovi sistemi di governance. Sperimentare un’adeguata dialettica tra le forme di democrazia diretta e i diversi livelli rappresentativi di governo. Così come l’integrazione tra dimensioni comunitarie sub-nazionali e sovranazionali con apertura verso l’alto e verso il basso dei processi decisionali.

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