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Dazi alla dogana o innovazione sociale?

Tutti sono consapevoli che la progressiva liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli e alimentari è un processo ineluttabile. E allora, anziché fingere di costruire sterili barricate, cosa impedisce alle regioni olivicole italiane di promuovere una conferenza con la Tunisia ed altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo per trovare il modo concreto di far convivere le diverse agricolture, riducendo gli elementi di concorrenzialità esasperata e costruendo soluzioni collaborative?

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Nell’autunno scorso, la Commissione europea ha adottato una proposta legislativa che autorizza un accesso temporaneo supplementare – in forma agevolata – dell’olio d’oliva tunisino nel mercato dell’UE allo scopo di sostenere la ripresa di quel Paese che versa in una condizione di particolare difficoltà. Si onora così l’impegno di sostenere il governo e i cittadini tunisini, approfondire le relazioni tra l’UE e la Tunisia e proteggere l’economia di quella popolazione a seguito dei recenti attentati terroristici.

Per due anni, il provvedimento permette l’ingresso, senza dazio, di 35 000 tonnellate all’anno di olio d’oliva tunisino nel mercato europeo, in aggiunta alle attuali 56 700 tonnellate previste dall’accordo di associazione UE-Tunisia.

È noto che l’olio d’oliva è il principale prodotto agricolo esportato dalla Tunisia verso l’Europa. E il settore occupa un posto importante nell’economia del Paese in quanto dà lavoro, direttamente e indirettamente, a più di un milione di persone, ossia un quinto della forza lavoro agricola totale. Grazie all’iniziativa della Commissione le esportazioni tunisine di olio d’oliva nell’UE aumenteranno, generando un vantaggio economico a breve termine altamente necessario per la Tunisia.

Le relazioni commerciali tra l’Unione europea e la Tunisia sono disciplinate dall’accordo euro-mediterraneo di associazione, firmato nel 1995, che prevede un contingente annuo senza dazio di 56 700 tonnellate. L’accordo pose le basi di una zona di libero scambio, con progressiva liberalizzazione dell’agricoltura. Ora, tra la Tunisia e l’UE si sono avviati i negoziati per istituire un accordo di libero scambio globale e approfondito che provvederà in particolare a liberalizzare ulteriormente gli scambi del settore agricolo.

La proposta legislativa della Commissione europea è in questi giorni al vaglio del Consiglio e del Parlamento europeo. La Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo ha espresso un parere favorevole condizionato, chiedendo alla Commissione europea di dimezzare il contingente di olio che dovrebbe arrivare senza dazio e di concordare con la Tunisia una verifica dell’accordo dopo il primo anno, alla luce degli effetti del provvedimento sul comparto olivicolo europeo. Anche la Commissione parlamentare Commercio internazionale ha formulato un parere favorevole condizionato, chiedendo alla Commissione europea di effettuare una revisione di medio termine, ma ha sorvolato sulla richiesta di dimezzare il contingente d’olio a dazio zero per impedire che l’UE faccia una brutta figura nella scena internazionale.

Nelle prossime settimane il dossier andrà alla plenaria dell’Assemblea di Strasburgo; ed è prevedibile la definitiva approvazione del provvedimento entro la fine di febbraio.

La stampa ha riportato le rituali proteste delle organizzazioni agricole italiane per i pronunciamenti favorevoli delle Commissioni parlamentari; proteste destinate a non avere alcuna influenza nelle decisioni; ma nessuna riflessione seria si è di fatto aperta sul futuro agricolo nell’area del Mediterraneo. Eppure tutti sono consapevoli che la progressiva liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli e alimentari è un processo ineluttabile. Dinanzi a siffatti mutamenti repentini del quadro geopolitico, nessuno però si sente impegnato a farvi fronte con nuove idee.

Alla fine degli anni Settanta, dinanzi alla prospettiva dell’ingresso di Spagna, Grecia e Portogallo nella Comunità europea, il tenace e lungimirante ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Giovanni Marcora, negoziò il Pacchetto Mediterraneo, cioè una serie di misure strutturali con le quali si avviò di fatto la costruzione delle successive politiche d’investimenti e coesione dell’Unione.

Agli inizi degli anni Novanta, l’indimenticabile Presidente della CIA, Giuseppe Avolio, ebbe l’idea di promuovere e dirigere il Comitato Mediterraneo all’interno della Federazione internazionale produttori agricoli (FIPA) e tentò, con un impegno risoluto e disinteressato, il dialogo tra le organizzazioni dei diversi Paesi. L’intuizione portante alla base della sua iniziativa fu quella di tentare il passaggio dalla concorrenza conflittuale alla collaborazione competitiva. La visione, entro cui quel tentativo fu espletato, consisteva nel perseguimento di uno sviluppo agroalimentare equilibrato dell’intera area, ricercando la complementarietà, la diversificazione e la specializzazione delle produzioni e promuovendo la qualità.

Oggi la FIPA si è molto appannata e non si sente più nel dibattito pubblico. Non ci sono iniziative di rilievo per mettere insieme gli agricoltori mediterranei intorno a progetti economici collaborativi che puntino sull’innovazione sociale. Ma solo mettendo insieme le idee, partecipando culturalmente a processi innovativi e integrando apporti scientifici multidisciplinari, si potrà fronteggiare la nuova situazione che si è aperta nel Mediterraneo, gravida di rischi ma anche di grandi opportunità.

Anziché fingere di costruire sterili barricate, cosa impedisce alle regioni olivicole italiane di promuovere una conferenza con la Tunisia ed altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo per trovare il modo concreto di far convivere le diverse agricolture riducendo gli elementi di concorrenzialità esasperata e costruendo soluzioni collaborative?

Si tratta di mettere in piedi progetti produttivi che vedano la partecipazione di produttori e operatori italiani e di altri paesi del Mediterraneo, accomunati dalla volontà di aggiungere allo scambio economico anche un livello di negoziazione aggiuntiva, fondata sulla dimensione civile. L’obiettivo dovrebbe essere quello di riconoscere una quota di valore ai produttori, specie quelli dei Paesi più poveri del nostro, che sia remunerativa e di assicurare risorse per investimenti che permettano una loro maggiore inclusione nei mercati, affrontando gli aspetti igienico-sanitari, ambientali e di sicurezza del lavoro relativi alla produzioni e costruendo insieme nuovi mercati in Cina, in India e in America.

Progetti innovativi di questo tipo riscuoterebbero senz’altro l’interesse dei cittadini, che potrebbero così farsi parte attiva e responsabile nella realizzazione dell’obiettivo, diventando acquirenti consapevoli di prodotti garantiti innanzitutto dalla qualità delle relazioni tra tutti i partecipanti allo scambio economico: produttori, trasformatori, distributori e consumatori che collaborano indipendentemente dal Paese in cui si trovano.

È in questo modo che i processi economici potranno diventare economia civile. E la democrazia potrà allargare le proprie basi nel mondo, permettendo a tutti di non volgere nostalgicamente lo sguardo all’indietro, ma di guardare al futuro con ragionevoli speranze.

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