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Dalle signorie dei poveri alle reti di economie civili

Intervento al Convegno “Agrico(u)ltura e Cooperazione”, organizzato da Alleanza delle Cooperative Italiane e che si è svolto il 27 luglio 2012 a Madonna del Piano di Corinaldo (AN)

Monastero della Santa Croce della Fonte Avellana

Monastero della Santa Croce della Fonte Avellana

Ringrazio Teodoro Bolognini, Mauro Scattolini e Sandro Buatti per avermi invitato a questa iniziativa di riflessione su un tema che considero cruciale per affrontare la crisi che stiamo vivendo.

Vorrei partire da una premessa che a me pare fondamentale: l’agricoltura e la cooperazione costituiscono un binomio inscindibile dal punto di vista storico e antropologico. Si tratta, infatti, di culture, attività e regole con cui le persone, nel rapporto con le risorse naturali e con gli obblighi che il loro uso determina, si incontrano su un piano di parità e generano comunità. I valori dell’agricoltura sono, infatti, la reciprocità e il mutuo aiuto. Quando l’agricoltura ha potuto esprimere questi valori, ha promosso uomini liberi che si sono congiunti tra di loro con uno stretto legame di amicizia, dando vita alle grandi civiltà.

La nascita dell’agricoltura, combinandosi con l’uso di simboli, misure, calcolo e scritture, rese possibile, a partire da circa 10 mila anni fa, lo sviluppo della scienza applicata. E ciò consentì alle società umane di evolvere verso forme di organizzazione complesse. L’invenzione e la diffusione dell’agricoltura hanno probabilmente, da una parte stimolato lo sviluppo del pensiero matematico, dall’altra avviato la narrazione mitologica come forma di trasmissione culturale dei saperi pratici. Successivamente, con l’invenzione della metallurgia e l’introduzione dell’architettura, i ceti rurali hanno incominciato a fare ipotesi da mettere alla prova, cioè a sperimentare, acquisendo così i rudimenti di un atteggiamento scientifico.

La terra è un bene comune

Questa attitudine è alla base dei saperi esperienziali e degli ordinamenti cooperativi del mondo rurale per la gestione dei beni comuni a partire dalla terra. “Terra” come spazio agrario intorno ad un centro abitato; “terra” come borgo in cui i contadini scambiavano i propri prodotti e vendevano il proprio lavoro, da dove partivano la mattina per andare in campagna, ma dove rientravano la sera; “terra” come spazio del coltivare, del costruire e dell’abitare senza distinguere l’urbano e il rurale; “terra” insomma come comunità.

Come ci ha ricordato recentemente Carlo Alberto Graziani, la terra che viene coltivata o che serve al pascolo degli animali o, ancora, quella ricoperta di boschi nasce come “bene comune”, cioè come bene a cui tutti possono accedere. Ha dunque fin dalle origini del genere umano una funzione di inclusività.

È opinione diffusa che la terra sia sottoposta solo al regime escludente dei diritti di proprietà (privata, pubblica e collettiva). Ma nonostante i diritti escludenti, la terra resta sempre un bene comune perché esprime utilità che corrispondono ai valori che la nostra Costituzione indica nell’articolo 44 dedicato alla terra: “Al fine di conseguire il  razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone…”

I diritti inclusivi e i diritti escludenti sulla terra non sono, dunque, in contraddizione ma complementari tra loro e vanno continuamente ricomposti con le pratiche derivanti dalla scienza agricola e gli ordinamenti cooperativi. E’ questo  il modo per rigenerare comunità.

Ancora oggi, ricostruire la “terra” laddove non c’è più, perché abbandonata o distrutta, significa ricostruire comunità. Ma per vivere la terra nella sua interezza bisogna amarla e tale amore si coltiva  mediante un’opera educativa e di trasferimento della conoscenza, come insegna l’esperienza di Fonte Avellana posta in luce con maestria e passione da Manlio Brunetti nel suo bel lavoro pubblicato dall’Inea.

L’incontro fecondo nella modernità tra i saperi esperienziali e la conoscenza scientifica ha dato vita all’economia di mercato e alla società del benessere.

Oggi i meccanismi moltiplicativi tipici della modernità, indotti dalla miscela globalizzazione – innovazioni tecnologiche, hanno messo in discussione i beni relazionali e lo spirito comunitario e stanno erodendo i beni comuni materiali e immateriali. Ciò è all’origine dei problemi globali che attanagliano l’umanità, dall’insicurezza alimentare all’aggravamento della povertà e all’arresto della crescita, dai cambiamenti climatici alla crisi energetica.

In tale situazione di crisi, l’agricoltura e la cooperazione potrebbero costituire un “correttivo di civiltà” e contribuire a ricostruire le premesse su cui si reggono i processi moltiplicativi della modernità, qualora fossero messe nelle condizioni di modificare i meccanismi dissipativi dei beni comuni.

Concordo con Teodoro Bolognini sul ruolo che potrebbero svolgere oggi l’agricoltura e la cooperazione. Desidero aggiungere a quanto da lui esposto che detto binomio potrebbe contribuire, adattando le forme e le modalità concrete alla condizione attuale, a creare le premesse di una modernità sostenibile, a patto però che si recuperi la sua originaria funzione di generatrice di comunità.

Si tratta, infatti, di dare più spazio alla mano fraternizzante della gratuità e della reciprocità rispetto a politiche pubbliche e mercati finanziari che hanno depresso e continuano a deprimere il capitale sociale accumulato da millenni nelle campagne.

Il binomio “agricoltura – cooperazione” nel Risorgimento

L’esistenza in età medievale di assetti agricoli come quelli di Fonte Avellana a Madonna del Piano e a Frattola, dove gli homines de terra vissero pienamente in una condizione – definita efficacemente da Brunetti – di umanesimo sociale o di signoria dei poveri, ci dice che il binomio “agricoltura – cooperazione” riemerge di continuo nella storia come un fiume carsico; ripercorrerlo vale dunque la pena per trovare il bandolo di fili che si collegano ai problemi dell’oggi.

Se ci esercitassimo a leggere la storia della democrazia nel nostro paese in rapporto al binomio su cui stiamo riflettendo, potremmo scorgere elementi molto interessanti per comprendere meglio alcuni snodi della vita nazionale.

Le èlite risorgimentali persero l’appuntamento con la modernità perché pensarono di fare a meno di questo binomio. Non compresero, infatti, l’importanza dei movimenti religiosi nel medioevo come fattori formidabili di innovazione sociale e civile in ambiti ben più complessi della sola dimensione di fede.

Basti considerare l’opera dei monaci camaldolesi di cui ci ha parlato Dom Salvatore Frigerio.

Nel descrivere i tratti dell’agricoltura italiana tra l’VIIII e il X secolo, Emilio Sereni sottolinea la funzione importante nell’invenzione e nella diffusione delle nuove tecniche e delle nuove colture svolta non solo nell’Italia centro-settentrionale, ma ancor più nell’Italia meridionale e in Sardegna, dalle grandi abbazie, specie benedettine, e dai centri monastici basiliani, che non solo avevano potuto più facilmente conservare la tradizione e i testi agronomici dell’antichità classica, ma avevano potuto altresì beneficiare di più larghi contatti con il mondo bizantino ed orientale in genere.

Poi ci sono stati i monti di pietà, le confraternite, le chiese ricettizie e le misericordie: enti che gestivano enormi patrimoni fondiari derivanti da lasciti e donazioni ed erano regolati da statuti così minuziosamente rispettosi delle prerogative dei soci e dei principi mutualistici da farceli apparire quasi come cooperative o fattorie sociali ante litteram.

A siffatte pratiche solidali vanno aggiunte quelle che non s’ispiravano a idealità religiose, come i “consorzi di bonifica” su vasti territori agricoli.

La parola “bonifica” indica da tempi remoti l’insieme delle azioni per sottrarre la “terra” al dissesto idraulico e all’impaludamento e renderla abitabile dagli uomini. La bonifica (bonum facere = “render buono, migliore”, ma anche “far bene a”, “curare” ) della terra, che nasce dall’amore per la terra, è dunque parte integrante dell’umano incivilimento. E a questa grande opera di riscatto degli spazi vitali e a questa continua elaborazione di una cultura della responsabilità nei confronti della terra, hanno partecipato i ceti rurali in forme diversificate di cooperazione: i contadini organizzati in “comunità rurali” e i proprietari in “consorzi” liberamente costituiti.

Altre istituzioni promosse dalla società civile erano gli enti associativi per la gestione dei beni demaniali di proprietà diretta delle popolazioni locali. Costituiva, infatti, senso comune l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità nella lotta per la sopravvivenza. E pertanto le popolazioni, considerate nella loro collettività, avevano acquisito sul loro territorio i domini civici che esercitavano lavorando questi terreni per renderli coltivabili e fruttiferi.

Gli enti che li gestivano originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane. Non costituivano mai solo comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita.

Un’altra pratica solidale da sempre esercitata in modo del tutto informale nelle campagne era lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, che sarà recepito nel nostro codice civile. A seconda dei territori questa pratica collaborativa assumeva una denominazione diversa: la “prestarella” o anche l’”aiutarella”.

Quando le attività economiche legate alla terra sono cresciute si è formato il mercato. Un’economia di mercato paritaria, che, secondo la lezione di Fernand Braudel, precede il capitalismo che si struttura nelle forme che conosciamo quando nascono gli Stati nazionali.

 È con la nascita delle grandi potenze nazionali che nelle relazioni economiche entrano la logica di dominio e il “diritto del più forte”. Originariamente il mercato è società civile che si autorganizza. L’economia di mercato assume forme civili o incivili, ma è sempre frutto della società che può autorganizzarsi per essere mercato in modo consapevole.

Si deve a due francescani del XIII secolo, Pietro Di Giovanni Olivi e Alessandro di Alessandria il superamento sul piano teologico delle difficoltà giuridico-morali sorte a seguito della condanna canonica dell’usura, distinguendo “tra guadagno usuraio e compenso per l’utilità di chi scambia le monete per favorire lo scambio delle cose, senza il quale non c’è vita sociale”.

Nasce allora il mercato moderno. Le fiere di cambio nascono in Italia nel XII secolo, che raggiunsero il livello di attività più intensa nel 1500. Soprattutto quella di Lione. Queste fiere operavano sulla base della lettera di cambio, una “trovata” italiana che rivoluzionò le transazioni commerciali. E il tutto veniva organizzato in forme che possiamo definire cooperative.

In un libro recente intitolato “Fine della finanza”, due giovani economisti e storici delle istituzioni finanziarie, Massimo Amato e Luca Fantacci, si sono richiamati alla fiera di Lione per proporre una forma moderna di sistema finanziario che restituisca alla moneta e alla finanza il loro ruolo originario di servizio negli scambi commerciali.

Ebbene, tutta questa fioritura di istituzioni era stata nei secoli precedenti autenticamente società civile con il coinvolgimento diretto dei ceti rurali.

Ma purtroppo, quando si parla di società civile, generalmente non si associa mai tale idea alle campagne e al ceto contadino. La cultura agricola non è stata mai identificata dalle élite intellettuali come una cultura portatrice di valori e pratiche capaci di contribuire a realizzare livelli sempre più ampi di civiltà. Del resto, nell’uso corrente il termine “civile” significa “cittadino” e si contrappone a “rurale” che significa “campagnolo”. Ma si usa anche come sinonimo di “educato” in contrapposizione a “villano” che significa “contadino”, “uomo di campagna”. Allo stesso modo del termine “cortese” che indica chi vive nelle corti in antitesi con “rustico” che connota invece gli abitanti della campagna. Insomma, nel senso comune “urbanità” e”cortesia” indicano “educazione”, “conoscenza”, mentre “inurbanità” sta per “inciviltà”, “ignoranza”.

Se si considerano, invece, la storia delle forme con cui si è edificata nel tempo la società civile e il contributo offerto dalle campagne e dal ceto contadino al processo di incivilimento della società, si comprende quanto ingiusto e irritante sia lo stigma – perfino nel vocabolario – inflitto dalle culture dominanti ai ceti rurali.

Alimentando ulteriormente tali pregiudizi, il Risorgimento travolge la società civile, che aveva basi prevalentemente rurali, affermando una concezione statalista di stampo giacobino e illuministico. Sicché, la società civile viene per gran parte occupata e assorbita da uno Stato che, così facendo, si preclude la possibilità di acquisire autorevole forza regolatrice e disciplinante.

Le forme di possesso comune delle risorse naturali sono in gran parte soppresse da una legislazione volta, invece, ad affermare e generalizzare la proprietà privata. In tale periodo prevale la volontà di eliminare o “liquidare” i beni comuni in tutte le loro forme e manifestazioni, vedendole come delle anomalie rispetto all’ordine giuridico ed economico dato. Il Codice Civile del 1865 risente di questo clima politico e culturale.

Il binomio “agricoltura – cooperazione” alla fine dell’800

Ma già, a cavallo tra anni ’80 e ’90, una nuova legislazione sulle foreste e sulla bonifica esprime la necessità di mantenere le forme di possesso comuni laddove per l’altitudine e la natura dei fondi, le terre non possono essere migliorate dal punto di vista agricolo e di bonificare le aree paludose.

Il mio amico Antonio Parisella, docente di storia all’Università di Modena e presidente del Museo della Liberazione di Via Tasso a Roma, mi ha ricordato che Corinaldo è il paese di origine della famiglia di Maria Goretti. Erano “guitti” che, a seguito dei quelle leggi, migravano nell’Agro romano e nell’Agro pontino alla ricerca di lavoro nei latifondi dell’aristocrazia romana sottoposti ad opere di bonifica.

La legislazione forestale è il risultato di analisi attente, nell’ambito delle grandi inchieste ministeriali sulle campagne italiane, da parte di studiosi come Stefano Jacini per la Lombardia e Ghino Valenti per le Marche. L’idea che prevale in tali studi, volti a capire come affrontare la Grande Crisi agraria, è che la proprietà collettiva non nega il progresso, ma assicura invece forme associative di uso del territorio, essendo essa stessa una sorta di cooperazione.

Nello stesso periodo, l’incontro tra le leghe bracciantili e i primi “apostoli” del socialismo alimenta una proliferazione di cooperative agricole. Si tratta di una specificità italiana. A differenza di tutti gli altri movimenti socialisti europei, il nostro si diffonde prevalentemente nelle aree rurali e questo elemento lo segnerà per un lungo periodo.

Successivamente è la volta delle casse rurali promosse dai cattolici sull’onda dell’enciclica “Rerum Novarum”. E poi arrivano a ruota i consorzi agrari, costituiti da gruppi di agricoltori e banchieri di estrazione ebraica e massonica.

Dopo le esperienze dei secoli precedenti e la battuta d’arresto nel Risorgimento, il binomio “agricoltura – cooperazione” riappare così di nuovo come un possibile percorso simbiotico per affrontare la Grande Crisi agraria. Ma quella fase si chiude rapidamente.

Il binomio “agricoltura – cooperazione” nel ‘900

Ma la nascita del sindacalismo nelle campagne agli inizi del Novecento, sull’onda della parola d’ordine dellasocializzazione della terra che in realtà voleva significare statalizzazione della terra, e poi l’egemonia esercitata dai partiti di massa sulla società civile nel secondo Dopoguerra e, infine, l’evoluzione della Politica Agricola Comune (PAC) come declinazione del Welfare State nelle aree rurali, con una forte connotazione protezionistica, saranno ostacoli fortissimi al rafforzamento del binomio “agricoltura – cooperazione”.

Dalla Grande Crisi del ’29 si esce non già restituendo la moneta e la finanza alle loro originarie funzioni, risolvendo così alla radice i problemi aperti dalla grande depressione, ma rafforzando il rapporto tra le nuove forme assunte dal capitalismo e Stati nazionali e individuando nuove modalità d’intervento pubblico che tendono di fatto a marginalizzare il ruolo dell’agricoltura e della cooperazione, perché non si fondano sul riconoscimento della capacità della società civile di autorganizzarsi.

Sicché, in Italia i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” che “la Repubblica deve richiedere”, come recita l’articolo 2 della Costituzione, sono assunti completamente nelle politiche pubbliche attraverso molteplici forme, ma sempre in una logica statalista:

1) i pubblici poteri che si fanno essi stessi produttori di beni e servizi mediante attività economiche non dissimili da quelle dei privati (partecipazioni statali, nazionalizzazioni, consorzi bancari, ecc.); 2) le riforme socio-economiche come l’agricoltura, l’istruzione e la sanità che sono gestite essenzialmente da enti pubblici (enti di riforma, asl, distretti scolastici, ecc.);

3) i servizi sociali che vengono pensati di tipo centralistico e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri;

4) il riequilibrio territoriale che viene affidato alla Cassa per il Mezzogiorno;

5) il regionalismo che viene attuato come articolazione dello Stato unitario per ridistribuire le provvidenze pubbliche.

Si è trattato dell’esperimento di economia mista (pubblico-privata), tra i più estesi del mondo occidentale, che all’indomani della guerra ha permesso una rapida ricostruzione del Paese e un principio – benché parziale – di modernizzazione delle sue strutture fondamentali.

Ma la commistione perversa tra pubblico e privato (che in agricoltura ha trovato il suo inglorioso emblema nella Federconsorzi e nel suo fallimento) ha fatto sì che a partire dagli anni ‘70 tale sistema si avviasse verso un’inarrestabile degenerazione, i cui segni più evidenti sono stati la crisi del sistema politico e i livelli vertiginosi raggiunti dal debito pubblico. E ciò ha richiesto interventi energici volti a separare l’economia dall’autorità pubblica.

Quali spazi per il binomio “agricoltura – cooperazione” nelle politiche di oggi?

Con la globalizzazione, la caduta del Muro di Berlino, la costruzione dell’Unione europea, il federalismo, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato nel Dopoguerra i doveri di solidarietà si sono frantumate e non ci sono più le condizioni per ripristinarle. La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico; e tale stato di cose si è adesso aggravato con la crisi finanziaria.

Sembrano, dunque, aprirsi le condizioni perché l’agricoltura e la cooperazione riprendano un percorso comune.

Tale possibilità è, però, condizionata dalla capacità di sviluppare un pensiero coerente tra diversi elementi, quali: a) le soluzioni concrete ai problemi mondiali (insicurezza alimentare, volatilità dei prezzi agricoli, crisi dei mercati finanziari legati allo scambio di derrate, erosione delle risorse naturali, crisi energetica, ecc.); b) la costruzione di una governance mondiale; c) la definizione delle politiche europee e nazionali.

Nelle ricorrenze fissate dall’Onu, si parla tanto della drammatica crisi alimentare mondiale, ma poi non si coglie il nesso tra questo tema e il nuovo assetto che assumerà il capitalismo.

L’insicurezza alimentare ha diverse cause: a) una produzione strutturalmente insufficiente, senza che il paese in questione sia in grado di rimediare a questo deficit con le importazioni di derrate alimentari; b) una domanda insufficiente dovuta alle condizioni di povertà della popolazione, che ne limita l’accesso al cibo;  c) una forte instabilità della produzione alimentare e/o della domanda di derrate alimentari, collegata alla forte volatilità dei prezzi; d) problemi di accesso alle derrate alimentari per via di una situazione di conflitto o di crisi.

Il compito che ha questa generazione è, pertanto, quello di situare dentro la crisi finanziaria che stiamo vivendo le antiche questioni della fame e del sottosviluppo in  termini analitici e nell’agire politico.

L’Europa e l’Occidente devono agire affinché i popoli che stanno in una condizione di insicurezza alimentare  possano nutrire se stessi. E, prima di tutto, non devono impedirglielo con le loro politiche.

Le riforme della PAC che da oltre vent’anni  si realizzano restano all’interno di uno schema statico: aiuti diretti al reddito e graduale smantellamento di interventi di mercato. Un modello nato quando i mercati erano prevalentemente chiusi e protetti. Ma oggi – nel nuovo e ineliminabile contesto di mercati aperti e prevalentemente non regolati – tale schema contribuisce all’instabilità dei mercati e dei prezzi.

Se la PAC continua ad essere intesa come una sorta di rendita di posizione, non solo si arrecano danni irreparabili alle popolazioni dei paesi poveri, si blocca anche l’innovazione da noi. E la conseguenza è che, a livello nazionale, ci rifugiamo in una visione pericolosamente e inconcludentemente autarchica della tipicità e del “made in Italy”. Una visione clamorosamente contraddittoria coi caratteri permanentemente di mescolanza, ibridazione e contaminazione della cultura alimentare mediterranea e con l’immagine che l’Italia ha da sempre offerto di sé al mondo: l’idea di un popolo di esploratori, scopritori, innovatori. Per essere coerenti con l’idea di italianità che la storia ci restituisce e il mondo ha sempre percepito, dovremmo caratterizzarci per le nostre capacità di distinguere, confrontare e integrare le diverse culture alimentari e non già di conservare gelosamente e nostalgicamente quelle che sono ormai alle nostre spalle.

Il binomio “agricoltura – cooperazione” potrebbe, pertanto, riprendere quota se le politiche pubbliche superassero le visioni protezionistiche e autarchiche e guardassero agli scambi nella loro pienezza per poterli regolare effettivamente. Sia i mercati locali che quelli globali sono luoghi di vita e di socialità, dove la società civile coopera e nel contempo rigenera comunità.

Le reti di economie civili

Per far avanzare il nostro binomio c’è, inoltre, da sollecitare la responsabilità che fa capo a ciascuno di noi in quanto cittadini e in quanto società civile e ci sono doveri individuali e collettivi da adempiere. Nessuna persona potrà, infatti, sopravvivere senza volerlo, senza operare la sua rivoluzione, così come nessuno potrà fare la rivoluzione senza sopravvivere. Diceva Gandhi: “Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.

Dovremmo contribuire a far emergere una nuova società civile diversa da quella plasmata dagli Stati nazionali e dall’approccio utilitaristico all’economia di mercato. Una nuova società civile che si sta organizzando nelle reti e mette in discussione i vecchi modelli corporativi della rappresentanza, forgiati dall’economia fordista, dal vecchio Stato sociale e dalle appartenenze ideologiche. Reti trasversali di cittadini e non più organizzazioni di categorie, settori, professioni, mestieri o aggregazioni di portatori di bisogni speciali (disabili, non autosufficienti, anziani, ecc.) o ancora associazioni di consumatori contrapposte a quelle dei produttori. Reti d’incontro, di partecipazione, di autoapprendimento collettivo, di economie civili fatte da persone disposte a cambiare le convinzioni più intime, gli stili individuali di vita, i modelli di produzione e consumo per ridurre l’uso di sostanze chimiche; contenere la produzione di proteine animali; arginare gli sprechi; ridurre l’uso dell’acqua; considerare l’accesso all’alimentazione e il piacere del cibo un diritto di tutti; scambiare le culture alimentari per aprirci agli altri.

La fraternità civile

Per consolidare tali reti, dovremmo attingere linfa vitale dal terzo pilastro dalla triade della Rivoluzione francese (liberté, egalité, fraternité): la fraternità, da non confondere con la solidarietà. Una fraternità dei moderni da distinguere nettamente dalla fraternità degli antichi, che era fondata sui legami di classe e di ceto, delle affiliazioni ideologiche e religiose.

 È noto che la dimensione religiosa della fraternità si è manifestata solo potenzialmente aperta e includente ogni uomo e ogni donna perché, in realtà, l’incarnazione storica, politica e civile del cristianesimo è rimasta molto simile alle forme gerarchico-sacrali pre-cristiane e non si è alimentata della novità evangelica. L’epilogo dell’esperienza di Fonte Avellana, causato dell’intervento esoso dello Stato pontificio, dimostra la fragilità della dimensione religiosa della fraternità.

La fraternità dei moderni dovrà dunque essere civile, cioè legata ad un’idea di giustizia imparziale e  universalistica. E ciò può avvenire se il concetto di prossimità perde il connotato di vicinanza geografica, etnica, ideologica e assume una dimensione sovranazionale e interculturale.

Anche il mondo delle associazioni e quello delle imprese dovrebbero adottare il concetto di prossimità in termini universalistici e l’idea di competizione come virtù per crescere insieme (cum-petere = cercare insieme) e non come mezzo per distruggersi a vicenda.

Come ha rilevato Mario Campli, intervenendo nella sessione pubblica del CESE sul “Dopo Rio+20”, entrambi questi mondi potrebbero unire gli sforzi per far emergere un modello europeo di sviluppo sostenibile qualora superassero le reciproche riserve ideologiche e riconoscessero vicendevolmente i diversi ethos del mercato, di cui sono portatori.

La fraternità civile è indispensabile per salvaguardare i beni comuni globali che oggi rischiano un rapido dissolvimento con alcune scelte di corto respiro dell’attuale governo. Tali beni non si dovrebbero privatizzare ma trasferire a comunità di cittadini per farne un pilastro su cui costruire una forte e diffusa economia civile e modelli efficienti di welfare produttivo.

L’articolo 43 della Costituzione prevede che “la legge può (…)  trasferire (…) a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che (…) abbiano carattere di preminente interesse generale”.

Si dovrebbero immaginare soluzioni come quelle che si affacciarono nella seconda metà degli anni Settanta quando gruppi di giovani dettero vita a cooperative per la gestione delle terre pubbliche e incrociarono nel loro percorso gruppi di operatori sociali, che costituivano cooperative per la gestione di altri beni comuni, come i servizi sociali e sociosanitari.

Nacque così l’esperienza italiana della cooperazione sociale che oggi potrebbe proporsi di gestire non solo le terre pubbliche e i servizi alla persona, ma anche l’acqua e l’energia.

In questo modo, non solo si determinerebbero le condizioni per accrescere l’economia civile, ma si risponderebbe finalmente anche alla diffusa domanda di partecipazione dei cittadini nelle scelte che riguardano i beni comuni.

Favorire la decrescita della politica e dell’economia

Luigino Bruni ha recentemente osservato che la teoria della decrescita potrebbe aiutare molto in tali percorsi qualora venisse declinata in un modo più completo rispetto a chi si limita ad auspicare semplicemente una diminuzione del Pil. C’è, infatti, un problema più ampio di escrescenza della politica e dell’economia all’interno della vita civile che va affrontato. Quanto più complessa è la società, tanto meno pesante dovrebbe essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche: sia quella dello Stato che quella delle transazioni monetarie, anonime e strumentali. Si tratta di ridare spazio alla mano fraternizzante della reciprocità e gratuità.

In questo senso decrescita non assume il significato di un ritorno nostalgico a società, economie e mercati del passato ma quello molto più ricco di edificazione di una buona economia e di una buona vita immettendo fraternità civile anche dentro i mercati. E perché ciò avvenga bisogna che la politica e le istituzioni decrescano e cresca invece la capacità della società civile di autorganizzarsi.

La funzione della politica e delle istituzioni doveva essere preminente quando lo scambio economico era concepito ideologicamente, sia nella versione liberale che in quella socialista e quella cattolica, come spazio dove vigeva necessariamente il diritto del più forte e dove il movente era racchiuso esclusivamente nell’interesse personale e nel mutuo vantaggio e l’intervento pubblico concepito come azione di riequilibrio della ricchezza. Ma se la convivenza umana e tutte le forme di scambio tra le persone si giovano della fraternità civile, il primato della politica e delle istituzioni non è più necessario per conseguire una buona vita.

La solidarietà non basta più senza la fraternità civile

Dopo la Rivoluzione francese, la fraternità ha avuto una reputazione marginale non solo per i suoi connotati di equivocità e pericolosità, ma anche perché la vita sociale veniva inquadrata nella dialettica tra lo Stato interventista e un mercato necessariamente spinto dall’interesse utilitaristico. E in tale contesto il convincimento più diffuso è stato, pertanto, che alle necessità delle persone avrebbero dovuto provvedere le politiche pubbliche di solidarietà.

Come dice Stefano Zamagni, “oggi la solidarietà non basta più senza la fraternità civile”. E la crisi apre nuove opportunità per fare in modo che l’agricoltura e la cooperazione possano continuare a riprodurre valore di legame e innovazione sociale, ossia fraternità civile. Bisognerebbe continuare a setacciare gli archivi, come si è fatto a Fonte Avellana, per ritrovare i fili che legano vicende solidali remote alle reti che stanno nascendo e far sì che le nuove economie relazionali e civili siano percepite dai protagonisti e dall’insieme della società come una tradizione innovativa.

 

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