Verso la Comunità di Pratiche Italiana dell’Agricoltura Sociale. Idee e proposte per una Carta dei Valori e dei Principi

 (La presente relazione è pubblicata integralmente su “La Rivista di Servizio Sociale” n. 3  ottobre 2009)

Gentili ospiti, cari associati,

ad un anno  dall’Assemblea di rilancio della nostra Rete, possiamo affermare che l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica nei confronti dell’agricoltura sociale è cresciuta ancor di più. A questo risultato riteniamo di aver dato un contributo significativo insieme ad altre realtà che operano nel nostro paese.

Ringrazio per il lavoro svolto in questi mesi i vice presidenti Antonio Carbone, Anna Ciaperoni, Carlo De Angelis e Michele Zannini, che nella Rete rappresentano rispettivamente ALPA, AIAB, CNCA e ACLI Terra. Con la loro attiva partecipazione e l’impegno delle loro organizzazioni, abbiamo potuto estendere la nostra presenza nella maggior parte delle regioni italiane.

Un grazie particolare a Marzia Achilli, Raffaele Alianiello, Alessandra Domigno, Fabio Ferraldeschi,  Roberto Finuola, Paolo Scarpino, Francesca Zappalà e Simona Zerbinati, che mi sono a fianco nell’attività operativa di direzione della Rete. Senza di loro non avremmo mai potuto realizzare le iniziative promosse quest’anno.  

Di agricoltura sociale si discute nelle sedi dove si decidono le politiche pubbliche e nell’ambito di numerose iniziative di approfondimento promosse da università ed enti di ricerca, nonché da organismi sociali e politico-culturali.

A seguito del recepimento dell’accordo sull’Health Check negli “Orientamenti strategici comunitari in tema di sviluppo rurale” e della disponibilità di nuove risorse derivanti dal “Piano di rilancio economico europeo” (Recovery Package), le Regioni da una parte e il MIPAAF dall’altra stanno modificando in questi giorni rispettivamente i PSR e il PSN alla luce delle “nuove sfide” che occorre affrontare.

Tra queste sfide figurano i cambiamenti climatici e la biodiversità, tematiche che si collegano direttamente all’agricoltura sociale perché esiste un nesso molto stretto tra inclusione lavorativa di persone con svantaggi o disagi nell’attività agricola e introduzione o riconversione di processi produttivi a minore impatto ambientale, nonché tra riqualificazione delle reti sociali nelle città mediante l’utilizzo di risorse agricole e tutela e valorizzazione delle aree agricole periurbane.

Abbiamo consegnato al Tavolo di Partenariato Permanente della Rete Rurale Nazionale e nelle sedi di confronto con le Regioni, laddove siamo presenti, le nostre proposte che sono il frutto di riflessioni  maturate in questa prima fase di attuazione dei PSR.

Una prima lezione che abbiamo appreso dalle reazioni che hanno suscitato i documenti di programmazione e i primi bandi nelle nostre realtà è che senza un’adeguata attività di animazione territoriale, in grado di coinvolgere tutte le componenti private e pubbliche dell’agricoltura, della sanità, dei servizi sociali, della formazione e delle politiche del lavoro,  difficilmente nascono idee progettuali volte ad utilizzare i finanziamenti dello sviluppo rurale.

Laddove questa attività è stata fatta e continua a svolgersi, come nelle Regioni Toscana, Lazio, Sicilia e Friuli Venezia Giulia,  i risultati sono tangibili.

Ad esempio nel Lazio si è registrata una partecipazione qualificata di fattorie sociali alla progettazione integrata della filiera del biologico. E in questi giorni c’è un interesse abbastanza diffuso alla Progettazione integrata territoriale poiché in molte iniziative si fa riferimento a idee progettuali che riguardano l’agricoltura sociale.

Tra gli strumenti di intervento pubblico disponibili, annettiamo un’importanza strategica alla Progettazione integrata territoriale perché essa permette di rivitalizzare le comunità locali e, dunque, quelle forme di cooperazione e condivisione tra soggetti diversi, senza le quali non è possibile innescare processi reali di sviluppo.

L’agricoltura sociale è per sua natura promotrice di legami tra persone, aziende, associazioni, enti pubblici che intendono condividere percorsi comuni di crescita. Ed è per questo motivo che la Rete considera come una sua missione  svolgere direttamente una intensa attività di animazione nei territori per fare in modo che le comunità locali possano cogliere le opportunità della Progettazione integrata. 

Dalle prime reazioni ai bandi da parte delle fattorie sociali possiamo cogliere anche un’altra lezione. L’agricoltura sociale  è una realtà complessa e  si pone quasi come cartina di tornasole di un cambio di paradigma che sta avvenendo in una parte dell’agricoltura europea.

E’ in atto un’evoluzione  del modello agroindustriale e produttivistico verso quello dello sviluppo rurale, all’interno del quale le nostre imprese introducono spontaneamente innovazioni organizzative e di processo nell’ambito di reti informali che vedono coinvolti più soggetti territoriali. Esse sono in condizioni di farlo perché vi operano prevalentemente donne e giovani, con diploma o con laurea, che sanno costruire legami forti con il territorio benché provengano da contesti urbani.  

Nelle nostre imprese si adottano processi di differenziazione del potenziale produttivo aziendale che sono distinti e specifici rispetto ad altri processi di differenziazione che caratterizzano complessivamente la multifunzionalità dell’agricoltura.

L’aspetto prevalente del processo di differenziazione è, infatti, il coinvolgimento nell’attività lavorativa di persone con svantaggi o disagi.

Un siffatto modello ha molte analogie con quello dell’agricoltura biologica e dei prodotti tipici e di qualità, ma ha una sua peculiarità, che vede l’agricoltura produrre e riprodurre contestualmente non solo beni alimentari, ma anche valori, cultura, capitale sociale e risorse naturali.

Tale tipologia richiede  sostegni specifici ad investimenti più immateriali che materiali nell’ambito delle azioni volte a migliorare la competitività delle imprese.

Ebbene, questa particolarità dell’agricoltura sociale non è ancora considerata nella politica di sviluppo rurale.

Il motivo di questa lacuna ha a che vedere con il sistema della conoscenza.

Quando abbiamo, infatti, trasferito nelle politiche e nelle normative le teorie e le analisi scientifiche sulla multifunzionalità - in verità scarsamente suffragate da indagini sociologiche ed economiche, che sono purtroppo divenute sporadiche e frutto dell’impegno di qualche ricercatore di frontiera disposto ancora a “sporcarsi le scarpe” nelle campagne, per usare una efficace espressione di Manlio Rossi-Doria  -  abbiamo confuso la multifunzionalità del territorio rurale con la diversificazione delle attività aziendali, che ne costituisce solo un aspetto.

Tale limite si è riflesso nelle Misure del PSR perché nell’Asse I, che riguarda la competitività, non sono previste azioni specifiche per l’agricoltura sociale. Queste sono state inserite solo nell’Asse III, che riguarda la diversificazione aziendale e l’attrattività dei territori rurali. Un’impostazione siffatta ha senz’altro contribuito a determinare uno scarso appeal dei bandi del PSR tra le nostre strutture.

In realtà, nelle pratiche di agricoltura sociale non c’è solo o non c’è affatto un processo di diversificazione delle attività, ma vengono messe in atto strategie imprenditoriali e territoriali che si fondano sull’innovazione tecnologica e organizzativa del processo produttivo agricolo, sul potenziamento del capitale umano e sulla differenziazione dei mercati dei prodotti agricoli indotta da una domanda composita che va comprendendo sempre più un orientamento dei consumatori verso prodotti ad alto contenuto etico.

Inoltre, nella maggior parte dei casi il servizio sociale e l’esercizio dell’attività agricola primaria sono così intimamente legati l’uno con l’altra che quasi non si distinguono più. E questo avviene perché il servizio sociale esplica la sua efficacia solo se la persona a cui è diretto viene pienamente coinvolta nel processo produttivo agricolo.

Questo intreccio si manifesta essenzialmente con due modalità: innanzitutto con l’inserimento lavorativo di persone con svantaggi o disagi in aziende agricole nella forma dell’assunzione oppure mediante percorsi di autoimprenditorialità; e poi con l’erogazione di servizi terapeutici e riabilitativi a beneficio di utenti. Nel primo caso, il nesso tra beneficio sociale e utilizzo di risorse agricole si realizza nell’attività principale di coltivazione e di allevamento; nel secondo caso, il legame si produce nell’ambito di una diversificazione delle attività aziendali configurandosi in un vero e proprio servizio sociale rivolto ad utenti esterni.

Ma c’è un aspetto rilevante che abbiamo finora sottovalutato: nell’adattare i processi produttivi alle prerogative delle persone coinvolte, le nostre strutture spesso vanno a recuperare modalità di produzione che sono state scartate dalla logica produttivistica insita nel processo di industrializzazione dell’agricoltura e che oggi rivelano tutte le loro potenzialità, non solo perché promuovono le capacità individuali che altrimenti resterebbero inespresse, ma anche perché ci permettono di affrontare le “nuove sfide” ambientali.

Si tratta, dunque, di adattamenti volti ad accrescere la competitività delle aziende e dei territori, la loro capacità di creare occupazione, coesione sociale e sostenibilità ambientale.

Dobbiamo scrollarci di dosso lo stereotipo che vuole l’agricoltura sociale un’agricoltura marginale. Le nostre strutture praticano economie di scopo, sono alla continua ricerca di nuovi prodotti e servizi. E tutto questo rende le loro attività economicamente sostenibili e spesso permette ad esse di assumere il ruolo di pionieri nei propri territori.

Siamo consapevoli che al fondo dello stereotipo non c’è soltanto una scarsa conoscenza, ma c’è anche lo stigma verso le persone le cui capacità intendiamo promuovere attraverso l’agricoltura intendono promuovere. E ciò deve costituire una ragione in più per approfondire la natura dei processi virtuosi di cui noi siamo protagonisti e saperli comunicare alla società.

Mi ha colpito la riflessione di un giovane detenuto del carcere di Siracusa, mentre mi mostrava come produceva dolcetti di mandorle all’interno del penitenziario: “Io devo fare bene questo dolcetto – ha osservato - perché le persone che lo mangeranno e leggeranno sull’etichetta che proviene da qui dentro, quando uscirò dal carcere, penseranno che in fondo sono una persona come tutti gli altri e avranno meno pregiudizi nei miei confronti”.

In questa considerazione è un’indicazione valida per tutta l’agricoltura sociale: più saremo apprezzati per le nostre capacità, più si modificherà positivamente la percezione che i cittadini hanno di noi.

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Soprattutto nelle aree periurbane le nostre strutture presentano anche il modello della diversificazione delle attività perché si sono attrezzate per erogare servizi. In questo caso l’agricoltura sociale è la cartina di tornasole di un altro cambio di paradigma, che investe questa volta il rapporto città e campagna.

Nei paesi ricchi è in atto un’evoluzione epocale  da un rapporto urbano/rurale inteso come polarizzazione tra centralità e perifericità e tra ricchezza e povertà, che giustificava politiche redistributive, ad una relazione che propone il territorio come un continuum di urbano e rurale, con bisogni specifici e modalità per soddisfarli da valutare caso per caso.

Questo cambiamento non è stato recepito nelle politiche di sviluppo e coesione dell’Unione Europea in cui l’approccio allo sviluppo rurale è per un verso accentuatamente settoriale e per l’altro prevalentemente redistributivo. Manca del tutto una visione territoriale che guardi all’insieme dei problemi di un determinato  territorio e cerchi di affrontarli utilizzando in modo duttile i diversi strumenti di intervento.

La politica di sviluppo rurale non interviene nelle aree agricole periurbane per accrescere le opportunità di reddito legate a nuove attività turistiche, artigianali ed energetiche perché in tali settori interviene ampiamente il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR).

Per detti settori è del tutto comprensibile l’impostazione restrittiva nell’utilizzo del Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Regionale (FEASR), ma è del tutto miope applicarla anche per i servizi sociali erogati in ambiti agricoli perché il FESR non ha alcuna ricaduta sulle reti di protezione sociale delle aree urbane. Eppure la Commissione europea insiste in questa sua posizione nonostante le potenzialità dell’agricoltura sociale di contribuire a riqualificare la rete dei servizi sociali, la cui domanda è divenuta particolarmente acuta proprio nelle città e la cui tessitura nelle campagne urbane potrebbe produrre non solo una risposta più efficace dal punto di vista sociale, ma anche un contributo importante alla riqualificazione delle città dal versante paesaggistico.

Oggi nelle aree periurbane e soprattutto nelle aree metropolitane si riversano fenomeni di grande rilevanza sociale, che vanno dall’immigrazione al nomadismo, dalle nuove povertà alle devianze, fino al disagio indotto dalla perdita di posti di lavoro a causa della crisi economica di questi mesi, che inevitabilmente produrranno una pressione sulle aree agricole per la costruzione di alloggi a minor costo.

Nello stesso tempo, soprattutto nelle campagne urbane, sorgono nuove iniziative di agricoltura sociale e cresce la pressione da parte di associazioni di familiari di persone con disabilità e di organizzazioni del Terzo Settore per promuovere progetti di servizi sociali che prevedono l’utilizzazione di risorse agricole. Iniziative progettuali che le politiche sociali non sono in grado da sole di sostenere e che la politica di sviluppo rurale non considera di propria competenza solo perché ricadenti in aree agricole periurbane.

Eppure, solo una saggia programmazione di interventi, capace di integrare risorse di diversa provenienza e organizzare un’offerta efficace rispetto alla domanda di servizi sociali delle popolazioni, potrebbe garantire il mantenimento di una funzione produttiva e ambientale delle campagne urbane e contribuire a fronteggiare la grave questione sociale che ha investito le nostre città.

Sono queste le lezioni che ci vengono dalla prima fase di attuazione della programmazione dello sviluppo rurale e continuiamo, pertanto, a sollecitare il Ministero e le Regioni perché colgano in questi giorni l’occasione dell’adattamento del PSN e dei PSR alle “nuove sfide” ambientali per negoziare con la Commissione UE quelle modifiche che riconoscano le effettive potenzialità dell’agricoltura sociale di rispondere a bisogni plurimi delle popolazioni.

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Ho voluto di proposito dilungarmi su questo aspetto della nostra iniziativa non solo perché è di stretta attualità ma anche perché racchiude il senso di un’azione che la Rete ha sviluppato per un intero anno.

All’indomani dell’Assemblea del luglio scorso abbiamo incontrato il Presidente della Commissione Agricoltura della Camera, On. Paolo Russo, e poi l’intera Commissione per presentare le nostre proposte. Successivamente abbiamo avuto continui scambi con dirigenti del Ministero delle Politiche agricole.

E’ stata da noi posta l’esigenza prioritaria di costituire una “task force” presso la Rete Rurale Nazionale con il coinvolgimento delle Regioni, dei Ministeri interessati e delle reti di agricoltura sociale.

Tale struttura dovrebbe avere i seguenti compiti:

a) elaborare e monitorare le informazioni sulla presenza e sullo sviluppo delle attività nel territorio nazionale, anche al fine di facilitare la diffusione delle buone pratiche;

b) raccogliere e valutare in modo coordinato le ricerche concernenti l’efficacia delle pratiche di agricoltura sociale ai fini del loro inserimento nella rete dei servizi territoriali;

c) sviluppare azioni di informazione, formazione e animazione territoriale finalizzate al supporto delle iniziative delle Regioni e dei sistemi territoriali anche in collaborazione con strutture pubbliche e private che hanno cumulato esperienze.

A nostro avviso è essenziale promuovere sul territorio attività di ricerca-azione volte a conseguire nuove e migliori conoscenze sui meccanismi di funzionamento delle pratiche di agricoltura sociale con metodologie interdisciplinari, multiattoriali e partecipative. Si tratta di coinvolgere il sistema della ricerca e dell’alta formazione e il patrimonio di conoscenza tecnica e contestuale dei diversi territori nei campi delle terapie con le piante e con gli animali e della medicina, dell’inclusione sociale e delle terapie occupazionali, dell’agricoltura e della formazione, delle ricadute economiche delle pratiche per le componenti pubbliche e private e degli strumenti di politica.

Se non sviluppiamo queste attività non saremo in grado di orientare bene le scelte pubbliche e supportare in modo efficace le strutture operative.

La costituzione di un Tavolo Interistituzionale per gli Interventi Terapeutici e Riabilitativi in Agricoltura (TITRA), presso l’INEA , di cui fanno parte il MIPAAF, il Ministero dello Sviluppo Economico, il Dipartimento Salute del Ministero del Welfare, l’Istituto Superiore di Sanità e alcuni rappresentanti di istituzioni di ricerca e di alta formazione, e la partecipazione della Rete Fattorie Sociali al Tavolo Permanente di Partenariato dello Sviluppo Rurale sono i primi atti concreti che vanno nella direzione da noi auspicata; ma resta ancora molto da fare per concretizzare quel minimo di azioni necessarie, a livello centrale, per lo sviluppo dell’agricoltura sociale.

Nel frattempo, ci siamo dotati della Rete dei Saperi e delle Conoscenze, a cui stanno aderendo numerosi esperti provenienti dalle Università, dagli Enti di ricerca, dalla Pubblica amministrazione e dalle professioni, che contribuirà a collegare le strutture operative dell’agricoltura sociale con il sistema della conoscenza.

Vi è tutto un mondo che opera in ambiti molto vicini al nostro con cui dobbiamo entrare in contatto e collaborare. Penso ad organismi come il Laboratorio di studi economici e giuridici “Ghino Valenti”, all’INU, all’ISTISSS, al SIQuAS (Società Italiana per la Qualità dell’Assistenza Sanitaria), all’Associazione “Legale nel Sociale” che raggruppa avvocati specializzati sui temi del Terzo Settore.

Roberto Finuola, a cui abbiamo affidato il compito di coordinare questa Rete, sottoporrà tra poco all’Assemblea le proposte operative per il funzionamento di tale struttura e gli ambiti di lavoro che si intendono sviluppare.

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Desidero ringraziare l’INEA, l’ARSIA e l’ARSIAL per le attività di formazione, informazione e animazione che da tempo svolgono in materia di agricoltura sociale.

A queste iniziative si sono aggiunti due progetti innovativi per l’agricoltura sociale e per l’agriturismo sociale (ReMI) realizzati in modo coordinato da un vasto partenariato di associazioni ed enti, compresa la  Rete Fattorie Sociali, che ha partecipato al bando della Regione Lazio “Nuova Ruralità”.

Per impulso della Commissione Agricoltura di questa Regione si è dato vita da quasi due anni al Tavolo Regionale dell’Agricoltura Sociale, che vede la partecipazione delle forze sociali e delle diverse articolazioni dell’Amministrazione regionale (agricoltura, sanità, politiche sociali, formazione).

In tale sede abbiamo esaminato recentemente la proposta di un bando dell’Arsial per sostenere iniziative di agricoltura sociale e ci attendiamo che la platea dei beneficiari si estenda a cooperative sociali e associazioni onlus, le cui strutture siano collocate in aree agricole e le cui attività prevedano l’utilizzo di processi produttivi agricoli.

Per sottolineare l’importanza del carattere intersettoriale del Tavolo, ricordo che in tale sede abbiamo anche esaminato una proposta di legge regionale che riguarda i servizi e gli interventi socio-sanitari e come Rete abbiamo consegnato una serie di emendamenti per fare in modo che nella riorganizzazione dei servizi si potesse tener conto dell’agricoltura sociale. 

Ultimamente Arsia e Arsial hanno sostenuto congiuntamente la partecipazione dell’agricoltura sociale nazionale a Terrafutura. Presentandoci in un unico spazio espositivo abbiamo avuto maggiore visibilità e soprattutto abbiamo potuto avviare una fase nuova di scambio delle esperienze e di autoapprendimento collettivo che ci porterà nel prossimo autunno a svolgere a Roma una riunione  della Comunità di Pratiche italiana dell’agricoltura sociale in analogia con quanto avviene in altri paesi.

Perché consideriamo importante questo appuntamento?

Secondo gli studiosi Etienne Wenger e Jean Lave, che per primi hanno utilizzato questa definizione nei loro studi sulle tecniche di apprendimento, “le Comunità di Pratiche sono gruppi di persone che condividono un’attività o una passione e imparano a farla meglio attraverso una loro regolare interazione”.

Ebbene, noi vogliamo contribuire a dar vita ad una Comunità di Pratiche dell’agricoltura sociale nel nostro Paese per dotarci di uno strumento che ci permetta di crescere insieme, di superare la condizione di isolamento in cui spesso operiamo, di imparare a fare meglio approfondendo la conoscenza delle buone pratiche.

La Comunità di Pratiche è uno strumento indispensabile soprattutto in questa fase in cui dobbiamo in primo luogo prendere coscienza di quello che effettivamente siamo, del valore che apportiamo alla società e farcelo riconoscere dalla collettività.

In chiusura del Convegno del 29 maggio scorso a Firenze, abbiamo convenuto di dar vita ad un Comitato promotore, aperto a tutti i portatori di interesse, che stabilisca le modalità di svolgimento e organizzi l’evento. Diamo ora la nostra disponibilità affinché  la prima riunione si possa svolgere entro la fine di luglio.

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Nell’ultimo anno, si sono svolti due seminari in Sicilia organizzati congiuntamente dalla Regione e dall’INEA; un convegno organizzato dal Forum delle Fattorie Sociali di Pordenone, in cui si è delineata l’ipotesi di un Distretto Rurale di Economia Solidale; cinque incontri promossi dal Formez; una serie di iniziative legate alla Società della Salute in Provincia di Pisa; iniziative di animazione per promuovere il Progetto integrato “Norba, Ninfa, Cora, Tres Tabernae”, che vede soggetti pubblici e privati delineare nuovi modelli di welfare di comunità; i seminari dell’INEA nell’ambito del progetto sulla Cultura Contadina, il Convegno organizzato dal Consiglio Regionale del Lazio in collaborazione con l’Arsial, dove si è svolta una seria riflessione sulle politiche regionali per l’agricoltura sociale con la partecipazione dell’Assessore all’Agricoltura Daniela Valentini, e una vivace iniziativa di condivisione di esperienze e di progettualità promossa dal Forum delle Fattorie Sociali della Provincia di Roma con il Presidente Nicola Zingaretti.

Ulteriori iniziative di approfondimento si sono realizzate per impulso di organismi politico-culturali, come la Fondazione Cloe, e del mondo associativo, come l’INU Lazio, il CNCA Sicilia in collaborazione con l’AIAB, l’Associazione Oasi in collaborazione con l’Istituto di Ricerche  sulla Popolazione e le Politiche Sociali IRPPS-CNR, l’Università Popolare per Tutte le Età di Latina, la Cooperativa “Ritorno alla Terra” di Servigliano (AP), la Cooperativa “Dimensione Natura” di Amandola (MC), l’Associazione “Insieme per l’Aniene”, la Cooperativa “Agricoltura Capodarco”.

Ovunque la Rete è stata presente portando il proprio contributo di idee e di proposte.

Desidero menzionare, inoltre, il progetto dell’AIAB su “Agricoltura e detenzione”, che ha posto in evidenza la capacità dell’attività agricola di umanizzare la condizione carceraria e di sostenere il reinserimento sociale dei detenuti.

Leggendo il bel libro di Marco Verdone, “Il respiro di Gorgona”, pubblicato recentemente, si possono comprendere le enormi potenzialità dell’agricoltura nel dar vita ad esperienze di “carcere aperto” non solo sulle isole.

Nelle carceri italiane ci sono oggi 63.460 detenuti, ben 20 mila in più rispetto alla capienza regolamentare, “oltre il tollerabile” per usare l’efficace espressione con cui l’Associazione Antigone, che opera per la difesa dei diritti dei detenuti, ha intitolato il 6° Rapporto sulle carceri, presentato qualche giorno fa a Roma. Tra quanti scontano una pena definitiva, il 32,4% ha un residuo di pena inferiore ad un anno e addirittura il 64% ha un residuo di pena inferiore a tre anni. Per detenuti con buona condotta e pene lievi si potrebbero progettare altre Gorgone magari in aree agricole periurbane per preservarle dal cemento o in centri rurali spopolati per sottrarre risorse agricole e ambientali di pregio ad un destino di abbandono. Si garantirebbe maggiore sicurezza ai cittadini con persone a fine pena che abbiano imparato un mestiere e siano pronte a reinserirsi nella società.

Costruire nuove modalità di abitare il territorio è stato il tema dell’ultima edizione di UnbanPROMO a Venezia, dove abbiamo partecipato attivamente ad una iniziativa con l’INU e l’ISTISSS, sul tema delle aree periurbane.

Noi concepiamo l’agricoltura urbana come un insieme di attività produttive di beni e servizi che contribuiscono a forgiare modelli di visione capaci di dare valore estetico alle città”.  

Ma come attuare un adeguato processo per individuare e consolidare specifiche politiche di sviluppo per le aree periurbane? Per rispondere correttamente avremmo bisogno di ricerche e approfondimenti di casi studio.

Commentando su un quotidiano il recente volume “Ruritalia”, curato da Corrado Barberis  e uscito in occasione del cinquantenario dell’INSOR, ho avuto modo di rilevare che le continue e rapide trasformazioni che stanno avvenendo nelle campagne italiane difficilmente si possono osservare utilizzando solo i freddi numeri delle statistiche.

Dovremmo, invece, tornare all’inchiesta militante -  quella dei De Martino, degli Olivetti e dei Dolci per intenderci - e dare voce  a persone non idealizzate ma a quelle in carne ed ossa, che abitano territori determinati, per leggere la realtà così com’è percepita da chi vive in un determinato luogo, senza generalizzazioni spesso prive di senso.

E’ così che potrebbero venire indicazioni concrete anche per una legge nazionale sul governo del territorio volta a salvaguardare le nuove vocazionalità agricole con criteri da intendere come “giusta misura” in cui la generazione attuale dovrebbe garantire le aspettative di quelle future.

Al convegno dell’INEA e dell’Associazione “Manlio Rossi-Doria” sul tema “La Costituzione e l’agricoltura” abbiamo ragionato con il Prof. Francesco Adornato sugli spazi per una normativa nazionale di principi a cui le Regioni dovrebbero attenersi nel governo del territorio. Si tratta di approfondire ulteriormente questo tema impegnando giuristi, urbanisti, sociologi, economisti, geografi, passando dalla mera denuncia del consumo di suolo agricolo a proposte di riforma che tengano conto delle recenti trasformazioni sociali. 

Desidero ringraziare le centinaia di cittadini che hanno aderito alla petizione popolare,  che abbiamo lanciato due anni fa sul sito della nostra Rete, per chiedere l’utilizzo a fini sociali delle terre di proprietà pubblica. Si tratta di una iniziativa di sensibilizzazione che ha già conseguito un primo importante risultato.

La Regione Lazio ha, infatti, approvato il Regolamento che disciplina  la gestione dei beni immobili di  proprietà dell’Arsial.  Si tratta di un provvedimento atteso da tempo, con cui si dispongono le modalità di vendita agli agricoltori dei terreni espropriati con le leggi di riforma fondiaria 
del 1950 e rimasti ancora nella disponibilità dell’Agenzia.

Il  Regolamento accoglie nella sostanza la nostra richiesta perché  dispone, per una parte cospicua di tali beni, anche un vincolo di inalienabilità. Si tratta delle aree agricole di particolare ampiezza aventi significativo rilievo ambientale e paesaggistico che – con questo provvedimento - vanno a costituire un patrimonio fondamentale della Regione da tutelare e valorizzare ma non da vendere.

Tali aree potranno essere date in affitto, in locazione o in  concessione, anche a titolo gratuito, nel caso di iniziative di particolare rilevanza sociale.

Ebbene, in virtù di questa norma, noi potremo adesso aprire un confronto al Tavolo Regionale  dell’Agricoltura Sociale per individuare le  proprietà dell’Arsial rilevanti dal punto di vista ambientale e  paesaggistico, e dunque inalienabili, e concordare le modalità con cui 
rendere disponibili tali beni per progetti di utilità sociale.

Analoghe iniziative potremo avviare anche in altre regioni con le associazioni del Terzo Settore, a cui proponiamo un patto di collaborazione sulle tematiche di comune interesse, a partire da progetti di utilizzo delle terre pubbliche per sperimentare nuovi modelli di welfare.

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“Non voglio mica la luna!” titolava Fiordaliso una canzone di qualche decennio fa. Anche noi non stiamo chiedendo cose impossibili ma solo alcune condizioni minime per ripristinare un nesso tra etica ed economia. 

C’è un passaggio dell’Enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate” che descrive in modo semplice la transizione che viviamo nelle politiche di welfare. “Forse un tempo – si legge nel testo - era pensabile affidare dapprima all’economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l’autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale (…) Occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che traggono origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che ciò è concretamente possibile”.

L’agricoltura sociale si iscrive in tale tracciato come espressione dell’economia civile  che può contribuire direttamente  e in modo decisivo a ridurre le ingiustizie, sviluppare le capacità delle persone e proteggere la natura oltre le politiche redistributive.

Per fare i conti con la crisi economica, con le nuove paure, le insicurezze e i disagi della modernità, diffusi in modo impressionante nelle odierne società, occorre tornare a riprogettare il nostro futuro e a perseguire un benessere non meramente consumistico ma inteso come ricerca di un senso da dare alle nostre vite e alle nostre capacità e come esito di più conoscenza, più inclusività, più mobilità, più cura dei giovani.

Noi ci battiamo per un progetto di cambiamento in cui l’efficienza economica e la crescita siano il risultato del benessere delle persone e dell’ecosistema.

Pensiamo ad un modello di sociale in cui i titolari di bisogni siano posti nella condizione di responsabilizzarsi, liberarsi dalle catene e di farsi riconoscere i meriti.

E’ per questo che proponiamo all’Assemblea di discutere e varare il documento che avete trovato allegato all’invito. Sono idee e proposte per una Carta dei Valori e dei Principi dell’Agricoltura Sociale, che noi vorremmo portare come nostro contributo alla “Comunità di Pratiche”.

Abbiamo apprezzato il “Manifesto dell’Agricoltura Sociale”, frutto del lavoro dei partner del progetto europeo SoFar - Social Farming e discusso dalla Comunità di Pratiche internazionale che si è riunita nel maggio scorso a Pisa.

Ma riteniamo necessaria una riflessione sui Valori e i Principi rapportata ai caratteri dell’Agricoltura Sociale del nostro Paese, in cui convivono una pluralità di modelli organizzativi che dipendono dalle differenti motivazioni etiche ed economiche alla base delle singole iniziative; dalla varietà di figure sociali, competenze e risorse coinvolte e dalla molteplicità dei sistemi territoriali e delle forme di possesso della terra, dalla proprietà privata a quella pubblica e collettiva; dalla diversità di politiche di riferimento, non solo agricola che è per lo più europea, ma quelle sanitarie, sociali, del lavoro, della sicurezza, urbanistiche, dell’istruzione che sono invece prevalentemente nazionali e con tipicità molto marcate.

E’ dunque un apporto che guarda all’evoluzione di alcuni fenomeni, come la nuova ruralità, la periurbanità, l’economia sociale, la transizione della medicina dal modello “Io ti curo” a quello “Io mi prendo cura”, l’immigrazione, le nuove povertà, il rapporto tra detenzione e sviluppo locale.

E’ un contributo che intende definire quali sono le persone interessate all’agricoltura sociale, che per noi sono innanzitutto coloro che presentano bisogni speciali, cioè problematiche sanitarie o difficoltà sociali di particolare gravità, e le cui necessità sono spesso rappresentate da associazioni di familiari.

Vi sono poi coloro che trovano le loro motivazioni profonde nel disagio provocato dal modello di sviluppo e, quindi, nel bisogno di sperimentare nuove forme di vita, di produzione e di consumo per dare un senso alla propria esistenza; le persone che hanno perduto il lavoro in forma continuativa e sicura o che lo mantengono in condizioni precarie e nelle attività agricole trovano un modo per integrare il reddito.

A questi soggetti si aggiungono molti produttori agricoli innovatori e poi numerosi animatori sociali, amministratori, professionisti, tecnici, ricercatori interessati a progettare nuove iniziative.

Pensiamo che i valori di riferimento dell’agricoltura sociale siano quelli contenuti nella Carta costituzionale e, in particolare, nell’art. 3 che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e nell’art. 44 che finalizza l’intervento pubblico in agricoltura alla cura della qualità del territorio e al perseguimento della giustizia sociale.

Riteniamo che almeno tre potrebbero essere gli obiettivi strategici da condividere tutti insieme:

  1. migliorare le condizioni affinché le persone in difficoltà possano con l’attività agricola dare un senso alle proprie capacità;

  2. riconoscere l’agricoltura sociale come un’opportunità per migliorare la competitività delle imprese e dei territori rurali;

  3. creare un nuovo nesso tra sviluppo, protezione sociale e tutela ambientale nelle aree rurali.

Pensiamo, infine, che i principi a cui attenersi nel delineare le politiche siano i seguenti:

  1. riconoscere le specificità, il pluralismo e la pari dignità di tutte le esperienze di agricoltura sociale, indipendentemente se ad attivarle sia un’azienda agricola;

  2. passare da una politica di sviluppo rurale di tipo settoriale e redistributivo ad una politica di sviluppo rurale territoriale;

  3. rafforzare le politiche sociali nelle politiche europee di sviluppo e coesione integrandole nello sviluppo locale;

  4. orientare il governo del territorio  ad una piena integrazione degli spazi agricoli nella pianificazione dei sistemi territoriali in modo che si possano consegnare alle generazioni future in uno stato tale che anch’esse siano in grado di abitarli e ulteriormente coltivarli;

  5. promuovere stili di vita e modelli di produzione, di investimento e di consumo compatibili con la protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima, nella consapevolezza che il benessere umano coincide con il benessere dell’ecosistema;

  6. individuare sedi e modalità efficaci di coordinamento centrale delle diverse politiche con il coinvolgimento delle Regioni, dei Ministeri interessati e delle reti di agricoltura sociale.

E’ un documento che non affronta in modo particolareggiato le problematiche specifiche in cui si dibattono le fattorie sociali. Abbiamo ritenuto utile dotarci di un testo che susciti passioni e crei un interesse tra i cittadini, convinti come Antoine de Saint-Exupéry che “Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma fai nascere in loro la nostalgia del mare ampio e infinito”.