Convegno INU Lazio

Roma oltre Roma

Roma – Città dell’altra economia -  20 febbraio 2009

 

I Sessione - Edilizia sociale: un’opportunità per il Piano

 

Edilizia sociale e Agricoltura di servizi: un’opportunità per i cittadini

di Maurizio Di Mario e Alfonso Pascale

 

A quarant’anni dalla sua inchiesta sulle periferie romane, Franco Ferrarotti è tornato nei luoghi indagati negli anni Sessanta ed ha constatato che oggi, a Roma e in tutta la sua area metropolitana, non è più possibile parlare di città e campagna ma di un continuum urbano-rurale, al cui interno collocare a vario titolo il periurbano e il rurale urbanizzato o rurbano, cioè quell’intreccio inestricabile di funzioni produttive, insediative e sociali che non è più possibile considerare in modo distinto e separato.

Questo fenomeno ha caratteristiche di estrema complessità nella Provincia di Roma perché evidenzia un doppio movimento che almeno da un decennio sta avvenendo contestualmente:

 

  1. una progressiva crescita demografica legata allo sviluppo economico dell’intera area metropolitana, che continua ad attrarre popolazione dalle zone più periferiche del Lazio, da altre regioni italiane e da altri paesi, così come avviene in tutte le metropoli del mondo, e che determina una continua e marcata riduzione di superficie agricola utilizzata e di aziende agricole, non solo per effetto della spinta competitiva indotta dalla globalizzazione nelle attività agricole, ma soprattutto a causa delle edificazioni e infrastrutturazioni per far fronte ai nuovi arrivi;

 

  1. un costante ed evidente processo di rurbanizzazione derivante dal progressivo trasferimento di popolazione urbana negli spazi aperti dell’hinterland di Roma e di altre città della Provincia, che ha prodotto una spontanea diffusione di tipologie insediative  a carattere estensivo, le quali non vanno attribuite solo alle “villettopoli” dei ricchi, ma anche, e soprattutto, alla crescita di nuove attività rurali svolte da coloro che rifuggono l’impazzimento urbano. E queste tipologie insediative spesso sorgono accanto ai nuovi ghetti della metropoli contemporanea, dove vivono in surrogati abitativi migliaia di immigrati e di “nuovi poveri”, come Robert Castel chiama quelle persone che, pur lavorando saltuariamente, hanno perduto quelle protezioni che permettevano loro di assicurarsi l’indipendenza economica e sociale.

 

Alla base di tali processi c’è senz’altro l’effetto dei prezzi esageratamente alti delle abitazioni urbane. Ma vi sono anche un’accentuazione del disagio della città e una crescente domanda di nuova ruralità, che inducono persone sempre più numerose ad abbandonare  le attività precedenti e a ricercare una seconda chance, per ricominciare, in un’agricoltura non omologata al modello produttivistico, ma innovativa perché inserita in reti sociali territoriali.

La ricerca di un’attività a forte valenza sociale ed etica da parte di soggetti che provengono da esperienze extra agricole trova spesso le sue motivazioni profonde nel disagio provocato dagli aspetti quantitativi, standardizzati e consumistici del modello di sviluppo della società contemporanea e, dunque, nel bisogno di sperimentare nuove forme di produzione e consumo per dare un senso alla propria esistenza.

Questa propensione etica, che si va manifestando in modo evidente nei soggetti rurbanizzati, può senz’altro incrociare – come alcune esperienze anche nella nostra regione dimostrano - analoghi percorsi personali di agricoltori "tradizionali",  i quali spinti dalla globalizzazione ad abbandonare modelli produttivi eccessivamente specializzati perché non premiati dai mercati, sono indotti, per integrare il reddito, a sperimentare modelli multifunzionali rispondenti alla nuova domanda di ruralità.

Questo fenomeno solo ora si sta mettendo a fuoco.  Può, tuttavia, essere indagato nella sua complessità a condizione che si promuova una ricerca interdisciplinare e si utilizzino nuovi schemi interpretativi che mettano in connessione la dimensione sociale e quella ambientale.

Proviamo a tracciarne uno. Da quando esiste la città moderna, si sono costruite forme idealizzate della natura in città, come i parchi e i giardini, che soddisfano il bisogno di campagna come luogo dove perdersi e spaesarsi lontano dalla vita cittadina e recuperare il senso delle proprie radici.

Questa netta separazione tra città e campagna, che ha poi prodotto in chi vive nelle realtà urbane un bisogno profondo di ruralità, non è esistita sempre, ma è invalsa con la nascita della città moderna.

Prima di allora, lo spazio vitale della città e della campagna era il territorio. Nei classici latini, territorium significa “terra intorno alla città”. E’ ciò che dalla città cui appartiene riceve identità nello stesso tempo in cui restituisce identità, in un rapporto di relazione molto stretto.

Città e campagna sono due facce della stessa medaglia e “l’Italia delle cento città” è affiancata da “mille campagne”. Osservava Fernand Braudel: “Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo, il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città… il borgo e la città sono i luoghi in cui si scambiano i propri prodotti e si vende il proprio lavoro… Si parte la mattina ma si rientra la sera”.

E’ con Newton, l’ispiratore dello spazio della città moderna come spazio dell’astrazione, e successivamente con la separazione delle regole di costruzione della spazialità urbana da quella rurale che la città e la campagna si allontanano o, per meglio dire, si percepiscono distanti e incomunicabili,  insieme ai loro mondi e alle società che le abitano.

Ma fino a quel momento sono la città e il suo territorio lo spazio dove avvengono gli scambi, si accendono e si  controllano i conflitti sociali e si consolidano le pratiche solidali. E sono percepiti così dalla popolazione.

Queste reti sociali che legano da sempre città e campagna non sono state ritenute degne di attenzione dall’urbanistica  perché la costruzione della città moderna doveva avvenire solo dentro le mura di cinta, nello spazio dell’astrazione.

Tutto è andato liscio fino a quando dalle aree rurali le persone si spostavano verso le aree urbane. Ma le cose sono diventate problematiche quando la periurbanità, da fenomeno transitorio ha assunto un carattere permanente, come esito sia delle dinamiche diffusive della città che dei processi di rurbanizzazione derivanti dal trasferimento di popolazione urbana nei territori rurali.

Noi abbiamo colto solo gli aspetti ambientali del problema, chiudendo gli occhi sulla questione sociale. Abbiamo così rincorso un modello urbano di sostenibilità ecologica in grado di opporsi al degrado delle risorse naturali. E si sono considerate le reti ecologiche gli strumenti idonei per progettare attività di tutela e restauro della biodiversità.

E’ giunto ora il momento di guardare al problema della periurbanità complessivamente, ricongiungendo la problematica delle reti ecologiche con quella delle reti sociali e definendole entrambe come strumenti per progettare l’abitabilità non solo della città ma del territorio.

Nelle reti sociali operano persone; le quali, per poter operare, hanno bisogno di abitare il territorio, soprattutto da quando l’agricoltura, recuperando la sua dimensione “terziaria”, non svolge più solamente l’attività di produzione di beni alimentari ma eroga servizi alla persona utilizzando le risorse agricole.

A tale proposito, si è osservato che la lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; e il termine antico di quella stessa voce, buan, significa abitare. Per governare un territorio che non è più agricolo in senso stretto, ma è campagna urbana, dobbiamo anche noi unificare quei significati. E forse riusciremo a comprenderci meglio.

Se questo schema interpretativo - qui sommariamente tracciato - fosse condiviso, si  potrebbe dare un maggiore respiro politico e culturale al dibattito sulle modalità di reperimento delle aree necessarie alla realizzazione di interventi di edilizia sociale da parte del Comune di Roma, nell’ambito del “Piano casa” nazionale.

Come è noto, in campo vi sono due posizioni che si confrontano:

  1. da una parte, la posizione di chi ritiene che i nuovi interventi debbano circoscriversi solo nell’ambito della città compatta, anche a costo di riconsiderare le effettive esigenze in termini di nuovi alloggi da destinare ai “senza casa”;
  1. dall’altra, quella di chi, valutando già insufficiente il potenziale edificatorio residuo che il PRG mette a disposizione, non esclude, se necessario, l’impegno di nuove aree attualmente con destinazione agricola.

Ebbene, da qualsiasi prospettiva si guardi, il dibattito pare ruotare asfitticamente soltanto intorno alla questione su dove - e chi debba decidere dove - costruire le “nuove borgate” nelle “mura di cinta” della città compatta.

Ma perché i “senza casa” devono avere come unica prospettiva quella di vivere ammassati in agglomerati di cemento e in contesti periferici disumani?

Ma perché il disagio urbano e il bisogno di nuova ruralità non devono, invece, tradursi in nuove forme di urbanità che permettano di abitare il territorio a contatto più diretto con il verde, (ri)costruendo paesaggi a misura d’uomo, intensamente inclusivi e caratterizzati da un rafforzamento dei legami sociali?

Ma perché le uniche alternative che si offrono ai “senza casa” o a coloro che rifuggono il disagio urbano devono essere  l’abusivismo o le bidonville o l’inferno di periferie invivibili?

Il mix di funzioni produttive, sociali, insediative e ambientali che le aree periurbane attualmente svolgono  spontaneamente, potrebbe, invece, permettere di coniugare in modo virtuoso il tema dell’Edilizia sociale e quello dell’Agricoltura di servizi  in una nuova cornice di “progettualità dal basso”.

E’ solo così che l’Edilizia sociale e una riorganizzazione e razionalizzazione delle funzioni delle aree periurbane diventano un’opportunità per i cittadini!

Lo strumento può essere il Distretto della Campagna Romana o una Rete di Parchi Agricoli Urbani dove sperimentare, accanto a funzioni produttive e ambientali,  nuove forme di urbanità, a bassa e bassissima densità, anche di autocostruzione, capaci di generare, all’interno di un quadro di regole condivise, maggiore integrazione tra città e campagna.

Si tratterebbe di sfruttare e capitalizzare le contiguità degli insediamenti abitativi con gli ambiti rurali e agricoli in termini di approvvigionamento alimentare, di scambio di servizi e di itinerari paesaggistici storico-architettonici e storico-archeologici.

Il presidio di insediamenti produttivi, terziari e residenziali di tipo rurale garantirebbe non solo sviluppo ma perfino condizioni di sicurezza accettabili, soprattutto a seguito dei ripetuti casi di violenza nei confronti di giovani coppie inermi.

Sarebbe un esempio concreto di effettiva integrazione tra politiche di Welfare, di assetto territoriale, di equilibrio ambientale e, più in generale, di sviluppo socio-economico.

Le siepi della città diffusa (“siepe” è zaun in tedesco, da cui deriva l’inglese town, che significa città) andrebbero finalmente a sostituire le mura di cinta della città compatta (“luogo cinto di mura” è urbs in latino, che significa anche “città”) integrando reti sociali e reti ecologiche in un unico progetto di sviluppo integrale delle persone.