Nuovo Piano Territoriale Paesaggistico Regionale: ennesima occasione mancata o preziosa opportunità per
cambiare?
Con il richiamo al XV Congresso di Roma del 1977, l’INU
Lazio suggerisce di guardare ai problemi del governo del territorio
contestualizzandoli storicamente. E’ un consiglio prezioso perché ci permette
di collocare tali questioni in una prospettiva temporale che arricchisce la
riflessione e stimola alla modestia.
Evitiamo, infatti, di compiere quattro errori che derivano
proprio dall’incapacità di contestualizzare storicamente i problemi. La
neuropsichiatra Nancy Andreasen, che per studiare la schizofrenia si è rifatta
a ricerche effettuate nell’arco di cento anni,
ha efficacemente definito tale limite “fallacia astorica”. Il primo
errore che schiviamo è quello di ritenere necessariamente vero quello che dice
l’esperto. Il secondo è considerare necessariamente più vero ciò che viene
detto in epoca più recente rispetto a quello che si diceva prima. Il terzo è
pensare che la conoscenza aumenti con la crescita dell’informazione. E infine
il quarto errore comune è quello di ritenere che la crescita della conoscenza
sia un processo progressivo e necessario.
Leggere le considerazioni che gli urbanisti e gli
agricoltori svolgevano nel 1977 e confrontarle con il dibattito odierno ci fa
comprendere il senso e la pericolosità della “fallacia astorica”. Il fatto che
molte cose che si dicevano allora non sono state più ripetute per un lungo periodo
non significa affatto che non siano più vere. Semplicemente si sono ignorate ed
oggi conservano tutta la loro attualità alla luce di un aggravamento ulteriore
dei problemi che il territorio e la sua governance presentano.
Se dunque consideriamo per gran parte ancora oggi attuali le
osservazioni di trent’anni fa, dobbiamo saper individuare le motivazioni di
fondo del sostanziale immobilismo che ha caratterizzato le politiche di
pianificazione territoriale riguardanti le aree agricole e rurali del nostro paese
e in particolare della nostra regione.
Dovremmo chiederci perché abbiamo continuato ad utilizzare,
per valutare la congruità delle trasformazioni nelle aree agricole, automatismi come l’indice di intensità
edificatoria derivante dal rapporto tra volumi costruiti e superfici asservite,
che già trent’anni fa si ritenevano del tutto insufficienti a rilevare la
funzionalità degli interventi e i loro eventuali aspetti economici. Dovremmo
interrogarci sul perché abbiamo evitato di utilizzare qualsiasi piano di
dettaglio preventivo effettivamente legato ad una programmazione territoriale
che ponesse in relazione l’uso ottimale delle risorse e i sostegni pubblici
derivanti da politiche diverse. Dovremmo dirci con onestà intellettuale i
motivi che ci hanno indotto a seguire le vecchie strade anche quando l’UE ci
offriva valide strumentazioni per imboccare strade diverse.
Siffatto immobilismo non è stato privo di conseguenze perché
ha fatto sì che si accentuassero a dismisura tutti gli effetti negativi dei
processi di conurbazione che hanno interessato diverse regioni italiane e che
nel Lazio si sono intrecciati con il noto fenomeno di crescita disordinata e
abnorme dell’area metropolitana di Roma.
Il mancato aggiornamento concettuale, legislativo e
operativo degli strumenti di governo del territorio è, peraltro, diventato
ancor più grave in presenza di due importanti opportunità poste più
recentemente a disposizione dall’UE: 1) lo Schema di Sviluppo dello Spazio
Europeo firmato a Potsdam nel 1999, che per la prima volta ha collocato tra gli
obiettivi prioritari l’integrazione tra spazio urbano policentrico delle aree
metropolitane e gli spazi agricoli periurbani; 2) la Convenzione Europea sul
Paesaggio sottoscritta a Firenze nel 2000, che fa riferimento a territori designati
in base non già ad astratti canoni estetici, come è di fatto avvenuto finora,
ma al modo come sono concretamente percepiti dalle popolazioni e ai caratteri impressi dalla concomitante
azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni.
Non aver approfittato di queste due occasioni per cambiare
l’approccio alla pianificazione territoriale non ci ha permesso una serie di
cose.
Innanzitutto, non ci ha fatto ancora comprendere i caratteri
della crisi della città. Essa si sostanzia di una domanda di migliore qualità
della vita, che ha di fatto spinto
centinaia di migliaia di persone a spostarsi da Roma nei centri più piccoli, e
di una domanda di nuova ruralità, che ha indotto decine di migliaia di cittadini
a trasferirsi dalle città negli spazi aperti circostanti.
Inoltre, la mancanza
di un rinnovato approccio al tema del governo del territorio ci ha impedito di
afferrare il significato più profondo del processo di recupero – che sta
avvenendo nell’agricoltura contemporanea - di un tratto che caratterizzava le campagne prima dell’avvento
della società industriale: la multifunzionalità, cioè l’attitudine a mettere
pienamente a frutto il capitale sociale per svolgere contestualmente funzioni
produttive, sociali e ambientali a beneficio delle comunità locali.
Abbiamo così continuato imperterriti ad affrontare la crisi
della città assecondando i processi caotici di accrescimento delle periferie e
di conurbazione. Ci siamo illusi di mitigarne gli effetti più deleteri con
visioni ecologiste parziali, volte a salvaguardare solo formalmente e
provvisoriamente gli spazi vuoti, dando luogo ad un ampio sistema di aree
protette senza tuttavia coniugare salvaguardia e valorizzazione di tali
territori con una adeguata pianificazione.
Spesso questi spazi li abbiamo lasciati incolti, insicuri
per i cittadini, legandoli al massimo ad una promessa di valorizzazione, senza
progettarne da subito una nuova e sostenibile vivibilità, che è, invece, insita
nella domanda di nuova ruralità.
Di converso, abbiamo continuato ad affrontare il tema di una
rinnovata multifunzionalità della campagna solo come possibile risposta alle
aree di crisi dell’agricoltura industrializzata. Ne abbiamo ridotto la portata
a nicchie di attività diversificate
utili solo a sventare il pericolo di abbandoni e fallimenti, facendo leva sulla
sua innegabile capacità di produrre reddito aggiuntivo per gli agricoltori.
Ma nel dibattito sulle politiche agricole, l’obiettivo di
assecondare l’espansione dell’agricoltura multifunzionale nell’ambito dello
sviluppo rurale è generalmente
considerato marginale rispetto all’obiettivo, che è ritenuto invece strategico,
di conservare uno spazio il più ampio possibile all’agricoltura
industrializzata e specializzata. E questo riflesso conservatore ci deriva dal
fatto che assegniamo a quest’ultima la veste di vera agricoltura, che può dare
occupazione e ricchezza, mentre l’altra la consideriamo utile dove può servire
a risolvere particolari problemi ma essenzialmente priva di importanza
strategica ai fini dello sviluppo.
Non abbiamo, in realtà, saputo collegare la rigenerazione di
questo modello preindustriale di organizzazione della campagna e delle aziende
agricole alla domanda di nuova ruralità
proveniente dalla città in crisi, che è una domanda di vivibilità sostenibile,
di miglioramento della qualità della vita, di ri-appropriazione della cultura
del cibo, di ri-vitalizzazione dei valori di reciprocità e mutuo aiuto propri
delle società rurali tradizionali.
Ma per assecondare l’incontro della domanda di nuova
ruralità con l’offerta di prodotti e servizi della campagna, legati al capitale
sociale delle comunità locali, e irrobustire nello stesso tempo questi nuovi
modelli produttivi e di consumo, avremmo dovuto apprezzare nella sua dimensione
strategica il fenomeno della multifunzionalità dell’agricoltura, che ha tutte le prerogative per evolvere in
una miriade di nuovi modelli di welfare locale in grado di soddisfare più
diffusi e articolati bisogni sociali, da quelli educativi a quelli terapeutici, riabilitativi e di
inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Infine, al di là di quanto fin qui rilevato, c’è un limite
ancor più generale da porre in risalto. Pur dotandosi di un nuovo sistema di
governo dell’acqua e del suolo per bacini idrografici, la Regione ha avuto
difficoltà ad integrare tale riorganizzazione con le politiche territoriali
dello sviluppo e con una concezione della pianificazione urbanistica come parte
costitutiva e non avulsa di queste politiche. In sostanza, la manutenzione e la
valorizzazione del territorio non sono state assunte come parametri qualitativi
di ogni politica territoriale.
Per tenere insieme tali questioni e dare risposte efficaci
al disagio dei cittadini, avremmo dovuto impadronirci della cultura del
paesaggio, ponendo mano a quegli strumenti intersettoriali e interdisciplinari
di programmazione e di gestione che essa propone.
Una cultura del paesaggio da non intendere come
un’alternativa alla crisi della città, una sorta di risposta neoruralista da
contrapporre anacronisticamente al bisogno di città che è proprio della persona
umana e della sua ansia di liberazione, ma come un progetto di crescita
equilibrata e diffusa della città in un territorio eterogeneo, da considerare
come un sistema complesso di funzioni, “un luogo – come diceva Adriano Olivetti
- dove l’uomo possa coltivare il suo cuore, abbellire la sua anima, affinare
l’intelligenza”.
Avremmo, in sostanza, dovuto decodificare i processi sociali
in atto, mettere in correlazione funzioni e attività diverse e considerare la
campagna come patrimonio culturale da porre a base di una migliore qualità
della vita e come luogo dove moltiplicare le attività di abitanti (agricoltori
e cittadini) che sappiano valorizzare tale patrimonio, averlo in cura e
abitarlo re-inventandolo. Avremmo, in definitiva, dovuto considerare
l’agricoltura un’attività urbana come le altre.
Perché questo ritardo? Quali interessi hanno prevalso perché
le cose andassero per proprio conto senza che i pubblici poteri potessero
esercitare una qualche funzione di orientamento?
Da una parte ha esercitato ed esercita un peso esorbitante –
è inutile negarlo - la rendita fondiaria edilizia, la quale si avvale di
orientamenti culturali legati a visioni della città che assegnano la supremazia
solo ad alcune funzioni urbane terziarie, da quella commerciale a quella
finanziaria e a quella decisionale e di comando, mentre trascurano o relegano
in posizione subordinata quelle funzioni produttive e terziarie, da quelle
agricole, industriali, di valorizzazione del patrimonio culturale a quelle
legate al sistema della conoscenza, sottovalutando la loro capacità non solo di
concorrere al raggiungimento di più elevati standard di crescita economica, ma
di migliorare anche la qualità della vita.
Per la rendita fondiaria edilizia mantenere l’agricoltura in
una condizione di precarietà e favorire processi di abbandono della campagna
significa, come si può facilmente intuire, avere più facile gioco nell’acquisire
le aree agricole e porle in attesa che gli strumenti urbanistici
progressivamente colorino gli spazi vuoti con nuove previsioni di alloggi e di centri
commerciali.
Dall’altra parte hanno influito e continuano ad influire
notevolmente nel mantenere le cose come stanno quelle componenti
dell’agricoltura regionale restie a rivedere il proprio rapporto con la
società. Esse sono esigue dal punto di vista quantitativo, ma relativamente
potenti sul piano economico e si giovano dell’appoggio di una parte dell’industria
alimentare. Accomunate dall’interesse a difendere le rendite di posizione
derivanti dalle residue politiche protezionistiche, queste forze hanno
pervicacemente resistito ad ogni riforma della PAC ed ora spingono perché la
politica di sviluppo rurale sia orientata in modo esorbitante a sostegno
dell’agricoltura produttivistica e industrializzata a scapito dell’agricoltura
multifunzionale.
E’ deprimente l’indifferenza con cui tali ambienti
agricoli in questi giorni reagiscono
alla proposta della Commissione UE di escludere dal regime del pagamento unico
coloro che ricevono meno di 250 euro o che possiedono una superficie agricola
inferiore ad un ettaro con la motivazione degli elevati costi per l’erogazione
dei premi.
Nel Lazio questi piccoli produttori sono 54.128, pari al
50,8 per cento del totale, e costituiscono un importante presidio sociale e
ambientale delle aree agricole. Ritenere che questi piccoli produttori e il
part-time agricolo in generale siano un inutile e ingombrante fardello di cui
disfarsi è un errore gravissimo perché proprio in queste tipologie di aziende,
condotte da persone che lavorano in più settori, avvengono oggi le innovazioni
più significative nell’ambito della multifunzionalità in agricoltura.
Non solo si chiudono gli occhi su questa realtà, ma ha
davvero dell’incredibile il fatto che solo l’Italia, rispetto a tutti gli altri
paesi europei, conservi nell’ordinamento la figura dell’imprenditore agricolo
professionale. E’ il retaggio di una pervicace ma fallace convinzione secondo
la quale per accedere all’intervento pubblico più che la qualità del progetto
aziendale e le sue ricadute economiche, sociali e ambientali a beneficio della
collettività, ha valore lo status socio-economico del soggetto richiedente,
quasi che svolgere l’attività agricola contestualmente con altre attività sia
un limite e non già un’opportunità per far confluire nuove risorse umane,
apporti esterni di saperi e di esperienze e investimenti aggiuntivi in
agricoltura.
Bisognerebbe, invece, fare i conti con la nuova realtà del
territorio rurale, che presenta fenomeni di scomposizione dei processi
produttivi e di terziarizzazione e fa emergere nuove attività non collocabili
nei confini tradizionali dei singoli settori economici. I fenomeni di molecolarità
del mondo delle imprese e del lavoro vanno valutati per quelli che sono: né un
residuo del passato da superare, né una patologia socio-economica, ma elementi
congeniti nell’attuale stadio di evoluzione della società italiana. E la
progressiva commistione tra mondo del lavoro e sistema delle imprese va
registrata non già come un processo da esorcizzare, ma come il portato di un
modello produttivo e socio-economico ormai consolidato e di cui tener conto nel
definire gli obiettivi di sviluppo.
E’, inoltre, sconcertante la solitudine in cui si sono
trovate la Regione Lazio ed altre Regioni quando, in occasione del negoziato
con la Commissione UE per l’approvazione dei PSR, si sono viste respingere la
proposta di utilizzare anche nei Poli Urbani le misure dell’Asse III del PSR,
relative alla diversificazione delle attività aziendali ed al miglioramento
della qualità della vita.
Eppure è del 2004 la presa di posizione del Comitato
Economico e Sociale di Bruxelles sulla conservazione degli spazi agricoli delle
regioni urbane e sull’esigenza di riconoscere alle aree rurali periurbane svantaggi specifici e, di
conseguenza, azioni pubbliche volte a rafforzarne il carattere multifunzionale.
Ma quella iniziativa non ha ancora fatto breccia nell’insieme del mondo agricolo
e nei Servizi della Commissione UE.
Sono, dunque, essenzialmente due le forze che spingono per
impedire un’efficace pianificazione delle aree agricole: la rendita fondiaria
urbana che ha tutto l’interesse a ridurre l’agricoltura in una condizione di precarietà
e marginalità e quelle componenti
agricole che sono contrarie alla diffusione di modelli imprenditoriali
pluriattivi e multifunzionali e privilegiano esclusivamente l’agricoltura
professionale. Ha, purtroppo, fatto da sponda a queste forze – anche se
inconsapevolmente - quella cultura ambientalista, che si è, da una parte,
lodevolmente impegnata in questi ultimi vent’anni a costringerci a ragionare
sulla finitezza delle risorse, a farci apprezzare “la natura” nelle aree
abbandonate e ad educarci perfino ad una nuova estetica dell’incolto, ma che,
dall’altra, è rimasta del tutto indifferente dinanzi all’esigenza di rifondare
l’idea di abitabilità dello spazio attraverso nuovi strumenti di pianificazione
urbanistica.
Sappiamo che competizioni e conflitti tra economie agricole
e crescita urbana non si possono eliminare. Del resto lo sviluppo di un
territorio è una funzione del conflitto di cui quel territorio stesso è teatro.
Ma i conflitti si possono ridurre mettendo in gioco nuove convenienze per i
diversi attori e definendo obiettivi strategici condivisi, territorio per
territorio, attraverso processi di crescita partecipativa o - per dirla con
Danilo Dolci – di auto-affermazione creativo-cooperativa.
Soltanto con un’azione forte dei pubblici poteri, in grado
di suscitare la partecipazione delle forze economiche e sociali, di produrre
attraverso questa una crescita culturale nei territori, di armonizzare
l’utilizzo degli strumenti di programmazione, come i distretti e la
progettazione integrata territoriale, e degli strumenti di pianificazione
urbanistica, di ricondurli ad “ambiti di paesaggio” e a “parchi agricoli”,
potrà finalmente farsi strada l’utopia di un’abitabilità sostenibile dello
Spazio Regionale del Lazio.
L’occasione offerta dal dibattito sul nuovo Piano
Territoriale Paesaggistico Regionale, di cui è in corso l’iter di approvazione,
ci deve spingere a compiere fino in
fondo questa scelta. In tale quadro, la disponibilità dichiarata dagli
Assessori Montino e Valentini a rivedere le normative regionali riguardanti il
governo del territorio agricolo e la conseguente costituzione un Tavolo tecnico
di confronto interassessorile, partecipato dalle Organizzazioni Agricole e
destinato a tale scopo, sono un’opportunità da non farci sfuggire per un’attenta
valutazione degli aggiornamenti da apportare alle regole e agli strumenti
esistenti.