ROMA CAPITALE DELL’INNOVAZIONE
NEL SISTEMA AGROALIMENTARE


Auditorium di Via Rieti – 24 marzo 2006

Relazione di Alfonso Pascale, responsabile politiche agricole DS di Roma

Il 4 novembre scorso, in questa stessa sala, lanciammo una sfida a noi
stessi e alle forze sociali ed economiche della città: trasformare il
binomio “agricoltura e metropoli” da suggestivo ossimoro per improbabili
sogni bucolici in un progetto concreto fatto di relazioni tra le complesse
funzioni di Roma Capitale e i molteplici ruoli che la società richiede di
svolgere oggi al settore primario; in un progetto in grado di suscitare
reciproche opportunità in una dimensione euromediterranea.
A quattro mesi dalla nostra conferenza programmatica cittadina, in cui
Esterino Montino rilanciò con grande forza questa sfida, abbiamo già i primi
riscontri negli atti di programmazione socio-economica e di pianificazione
territoriale.
Grazie all’impegno straordinario dell’assessore regionale Daniela Valentini
nella Conferenza Stato-Regioni, le “aree agricole periurbane e
metropolitane” sono considerate negli “Orientamenti strategici nazionali
per lo sviluppo rurale” una tipologia territoriale di cui le Regioni
potranno tener conto nei Piani di sviluppo rurale. Naturalmente l’assessore
ha fatto diventare questo tema un punto qualificante del documento di
indirizzo della Regione Lazio ed ha inserito la stessa indicazione nella
legge sui distretti rurali e agroalimentari di qualità, approvata dal
Consiglio Regionale nei primi giorni di quest’anno.
Roma e la sua area metropolitana potranno finalmente entrare nella
programmazione dello sviluppo rurale con le proprie specificità.
Nel frattempo il Consiglio comunale di Roma ha approvato il Piano regolatore
generale della città. E nell’esaminare le controdeduzioni è stata accolta
un’indicazione che riguarda i 51 mila ettari di superficie agricola
salvaguardati dalle giunte Rutelli e Veltroni. Tali aree si potranno
valorizzare mediante la costituzione di parchi agricoli di rilevanza urbana,
quali strumenti non già vincolistici bensì di gestione di politiche
socio-economiche attive, da affiancare ai piani di assetto delle aree
protette di rilievo regionale. Per ora sono indicati Casal del Marmo e
Arrone-Galeria. Ma altri parchi si potranno proporre.
Anche l’Amministrazione Provinciale di Roma, nel definire il Piano
territoriale generale, sta approfondendo le problematiche relative agli
ambiti di promozione del paesaggio e dell’economia rurale.
In sostanza si fa strada l’idea che lo sviluppo di un territorio si può
progettare se l’impulso all’iniziativa economica è visto nell’ambito di
coerenti politiche territoriali e se il tutto è accompagnato da un
adeguamento del modello di welfare.
In un quadro siffatto l’agricoltura, proprio per la sua rilevanza economica,
ambientale, sociale e culturale, può esprimere al meglio una sua capacità di
produrre innovazione ed essere protagonista nella difficile transizione
dalla società industriale alla società della conoscenza.
L’agricoltura romana manifesta in quest’ultimo periodo una sorprendente
vivacità. I dati ISTAT e le elaborazioni svolte da Prometeia ci dicono che,
nel 2004, il valore aggiunto è cresciuto nella città del 4,1 %, contro una
media nazionale dell’1,3 %. Ma se andiamo a vedere all’interno di questo
dato, notiamo che mentre il settore dei servizi cresce del 4,3 % e
l’industria del 3,1 %, l’agricoltura fa un balzo del 15,8 %. Inoltre, va
prendendo piede nel settore primario un’imprenditoria femminile innovativa,
orientata soprattutto ai servizi multifunzionali.
In sostanza, nella Campagna Romana emergono un capitale sociale
nient’affatto impoverito, una base produttiva non irrilevante, una ricchezza
di risorse ambientali, paesaggistiche e storico-archeologiche di valore
inestimabile, che costituiscono la premessa indispensabile per compiere la
transizione nella società della conoscenza.
Nel frattempo sono mutati profondamente i gusti dei consumatori e si presta
maggiore attenzione alla qualità e alla salubrità degli alimenti,
all’impatto ecologico dell’agricoltura intensiva, allo sviluppo di nuovi
cicli colturali maggiormente rispettosi dell’ambiente e dei valori etici e
culturali che sottendono i processi produttivi.
Tali trasformazioni richiedono ora ulteriori abilità trasversali, nuove
competenze e capacità creative e organizzative che solo una nuova e
coerente politica della ricerca e dell’innovazione potrà alimentare.
La definizione di una tale politica trova a Roma una opportunità senza
precedenti.
Qui hanno infatti le proprie sedi le principali organizzazioni
internazionali per l’agricoltura e l’alimentazione, a partire dalla FAO.
Nell’area metropolitana romana è poi concentrata una parte rilevante delle
competenze di ricerca pubblica nazionale nel settore agricolo e
agroalimentare.
Una ricognizione dettagliata delle diverse istituzioni è contenuta
nell’opuscolo che vi è stato distribuito. In esso è pubblicata una nota
elaborata da un gruppo di lavoro formato da Roberto Finuola, Enrico Arcuri,
Roberta Farina e Norberto Pogna, che ringrazio per la loro disponibilità. Si
tratta di una traccia di discussione su cui vogliamo raccogliere proposte e
critiche e continuare a confrontarci anche dopo, quando saremo al governo
non solo del Comune, della Provincia e della Regione, ma anche del Paese.
Ebbene, questo patrimonio straordinario di forze intellettuali, di
strutture di ricerca, di laboratori e di competenze scientifiche, pur
significative e importanti di per sé, nell’insieme non “fa sistema” ed ha
legami assai scarsi, se non inesistenti, coi sistemi territoriali della
nostra Regione.
Per un verso l’estrema frammentazione delle strutture e la condizione di
precarietà in cui operano molti ricercatori, per l’altro l’inadeguatezza dei
servizi di sviluppo agricolo e la debolezza degli enti preposti al
trasferimento tecnologico fanno sì che il settore agricolo sia abbandonato a
se stesso. E’ inaccettabile che tale incuria abbia luogo in una fase
estremamente delicata di cambiamenti indotti dalla globalizzazione dei
mercati e dalla riforma della PAC.
L’affanno del sistema agroalimentare italiano è per molti versi la
conseguenza della mancanza di una strategia rivolta a riorganizzare su basi
nuove ricerca e innovazione.
Si è coltivata l’illusione che alla domanda di prodotti differenziati
proveniente da consumatori critici e con esigenze individuali molto avanzate
si potesse rispondere senza lo sviluppo e l’utilizzo di nuove tecnologie.
Si è ritenuto che la valorizzazione dei prodotti tipici, di quelli biologici
e delle diversificate qualità del nostro made in Italy agroalimentare, per
sua natura, non avessero bisogno di innovazione.
Si è sottovalutata l’esigenza di innovare nel campo della presentazione del
prodotto, della logistica, della conservazione, della modalità di uso e
preparazione, del formato, proprio in presenza di una domanda di cibo “su
misura” dell’atteggiamento e dell’attitudine del consumatore.
Si discorre a iosa di sicurezza e rintracciabilità degli alimenti senza
tuttavia aprire le porte alle nanotecnologie e all’ICT.
La genetica e la genomica sono state rimosse dal dibattito agricolo proprio
quando queste vanno assumendo una centralità particolare per accrescere la
conoscenza lungo i percorsi dello sviluppo sostenibile e della tutela della
biodiversità.
Nessuno sforzo è stato compiuto per affrontare correttamente il nodo del
rapporto tra scienza e vita. Il tema delle biotecnologie è paradigmatico
della nuova centralità dell’agricoltura nei rapporti tra valori etici e
politica, tra scoperta scientifica e diffusione della conoscenza, tra
produzione di innovazioni e competitività di sistema. Ma senza sviluppare un
dibattito pubblico serio su questi argomenti, l’Italia rischia di rimanere
fanalino di coda in un campo considerato strategico per le sue molteplici
implicazioni.
Certo Berlusconi e Alemanno hanno contribuito a piene mani a determinare
questo arretramento culturale, questo vuoto di creatività. Mai come in
questi ultimi anni le politiche dell’istruzione, della ricerca e
dell’innovazione sono state così povere di indirizzi e le istituzioni così
defilate nell’esercizio dei poteri di direzione; mai i ricercatori sono
stati lasciati così soli.
Tuttavia, la difficoltà del nostro sistema agroalimentare ad entrare nel
nuovo mondo della conoscenza viene da lontano, almeno da quando è stato
messo in discussione il vecchio patto sociale tra l’agricoltura e la
società.
Non si tratta, dunque, di riprendere semplicemente il filo di un impegno
interrotto cinque anni fa, ma di cambiare completamente registro.
Il patto sociale tra l’agricoltura e la società, assorbito nel Trattato di
Roma e nelle politiche agricole nazionali degli anni ’50 e ’60 del secolo
scorso, aveva affidato al settore primario il ruolo di garantire il
raggiungimento dell’obiettivo della sicurezza alimentare. Obiettivo inteso
in un’accezione quantitativa come soluzione alla fame e alla sottonutrizione
e quindi come mezzo per conseguire l’autonomia politica. La Pac era stata,
in sostanza, considerata come strumento dell’Europa per non dover soggiacere
a un eventuale ricatto alimentare.
Nella seconda metà degli anni ’80, il Libro Verde di Delors "Il futuro del
mondo rurale" pose per la prima volta in modo esplicito l’esigenza di
rivedere quel patto sociale alla luce delle nuove condizioni politiche,
sociali ed economiche che nel frattempo si erano determinate in Europa e nel
mondo. Da allora sono state avviate graduali e sempre più incisive riforme
della Pac accompagnate da riflessioni sulla nuova funzione sociale degli
agricoltori e sulla ridefinizione di un nuovo patto.
La difficoltà sta nell’interpretazione che si intende dare al processo di
liberalizzazione dei mercati agricoli. E’ a tutti chiaro che la complessità
di un mercato globalizzato impone di perseguire l’apertura dei mercati e di
lottare contro ogni forma di protezionismo che possa distorcere il
commercio. Ma liberalizzare i mercati non può significare un
ridimensionamento delle politiche agricole, bensì una ridefinizione dei loro
obiettivi.
L’Unione europea deve con maggiore coraggio allineare la Pac alla strategia
di Lisbona. Si tratta di accompagnare il sistema agroalimentare nel fondare
la propria competitività su innovazioni che assicurino la salute dei
cittadini, la qualità ambientale e la tutela della biodiversità. La sfida
consiste nel trasformare questi vincoli in opportunità.
Non siamo ancora riusciti a correggere gli squilibri che caratterizzano la
distribuzione delle risorse comunitarie. E’ del tutto ingiustificato che il
20 % dei beneficiari riceva l’80 % degli aiuti agricoli.
Avremmo, inoltre, dovuto applicare più seriamente la condizionalità. Non
solo non stiamo cogliendo un’occasione per innalzare il profilo del nostro
sistema agricolo dal versante della qualità ambientale. Ma è alto il rischio
che si possa pensare che quello che stiamo facendo sia in realtà una nuova
forma di protezionismo camuffato: prendere gli stessi sussidi, verniciarli
di verde e far finta che servano a pagare servizi per l’ambiente.
Ecco perché il governo Prodi dovrà proporre con nettezza a livello europeo
di spostare le risorse pubbliche dalla politica di mercato alla politica di
sviluppo rurale.
In questo modo si potranno superare le profonde disparità di trattamento che
caratterizzano il I Pilastro e si potrà fare una politica di ampio respiro
a sostegno della competitività del sistema agroalimentare.
La multifunzionalità delle aziende agricole non è una mera caratteristica
del processo produttivo che può esserci o meno. Essa costituisce un valore
da riconoscere. La multifunzionalità è l’insieme di contributi che il
settore agricolo può apportare al benessere sociale ed economico della
collettività e che quest’ultima riconosce come propri dell’agricoltura.
Contributi sul versante dei prodotti, come le agri-energie, come su quello
dell’offerta di servizi, dalle attività turistiche e ricreative al presidio
dell’ambiente e del territorio, dalle attività culturali a quelle
didattiche, dall’inclusione di soggetti a bassa contrattualità alla
rivitalizzazione dei valori della ruralità. Tali apporti al benessere
collettivo vanno riconosciuti dai pubblici poteri destinando adeguate
risorse a queste politiche.
Di fronte a cambiamenti di siffatta portata, che si sono avviati dagli inizi
degli anni ’90, e che dispiegheranno nei prossimi anni tutte le proprie
potenzialità, manca del tutto nel nostro paese una riflessione su come
adattare i programmi di ricerca alle nuove esigenze e su come riorganizzare
nel nuovo quadro istituzionale e delle politiche pubbliche le relazioni tra
ricerca e sistemi territoriali, affrontando il nodo strategico dell’alta
formazione, della formazione, del trasferimento tecnologico e dei servizi di
sviluppo.
Avanziamo qui quattro proposte per incominciare a superare questa condizione
di trascuratezza ed invertire radicalmente il senso di marcia
nell’affrontare tali questioni.

La prima è quella di delineare tra le funzioni di Roma anche quella di
Capitale dell’innovazione nel sistema agroalimentare. Si tratta di ricucire
e rafforzare il triangolo della conoscenza, costituito dalla ricerca,
l’istruzione e la formazione, i servizi ai sistemi territoriali e alle
imprese. Esso appare oggi del tutto incoerente a causa di una politica del
centrodestra che ha favorito il disinvestimento e la smobilitazione. Bisogna
convogliare risorse umane e finanziarie e mutare radicalmente il rapporto
tra produzione di valore e produzione e gestione della conoscenza, mediante
un idoneo modello di governance.
Ciò comporta la messa a punto di una strategia precisa basata su una
pluralità di azioni.
Innanzitutto la raccolta della domanda, la sintesi e il supporto alle
diverse attività di ricerca da parte dell’Agenzia Regionale per lo Sviluppo
e l’Innovazione nell’Agricoltura del Lazio (ARSIAL), che deve essere messa
in grado di potenziare la funzione di interfaccia tra ricerca e imprese; di
stimolare la creazione di spin off ad alto contenuto tecnologico da parte
delle università, dei centri di ricerca e delle imprese; di orientare la
riorganizzazione del sistema dei servizi di sviluppo e la formazione dei
formatori, valorizzando il ruolo di BIC Lazio come soggetto di
accompagnamento sul territorio; di partecipare alla Banca Dati della Ricerca
Agricola messa a punto dall’INEA ed al sistema informativo per la diffusione
dell’innovazione nato proprio in questi giorni da una collaborazione tra
Sviluppo Lazio, Apre, Circe e Filas; di coordinare l’adesione di tutte le
istituzioni pubbliche e private di interesse agricolo presenti nella Regione
all’Agenzia per la promozione della Ricerca Europea.
In particolare l’ALSIAL può essere il luogo privilegiato nel quale collocare
un’apposita sede di concertazione sui temi dell’innovazione e dove le
istituzioni della ricerca, le università, le rappresentanze delle imprese,
le autonomie funzionali e il sistema bancario possano definire i programmi
di ricerca da implementare nella Regione ma anche da presentare all’Unione
Europea nell’ambito del 7° Programma Quadro.
La Regione Lazio, se si fa forte di un proprio modello concertativo
sull’innovazione, potrà dare l’impulso necessario per mettere in moto un
nuovo rapporto tra Stato e Regioni su queste materie. Si tratta di attivare
la Rete Interregionale per la Ricerca agricola, forestale, dell’acquacoltura
e della pesca, e ricollocare così l’agroalimentare italiano nello spazio
europeo della ricerca.
Ma tra i primi impegni del governo Prodi ci dovrà essere quello di aprirsi
ad un rapporto di intensa collaborazione con le Regioni per agire sui temi
della ricerca e dell’innovazione come sistema-paese.
E’ in tale contesto che potrà essere creato un tessuto connettivo unitario
che consenta ai centri di ricerca dell’area romana di esprimere le loro
prerogative di eccellenza.
Si tratta di aggregare quanto più è possibile nei campus che si andranno a
riorganizzare o creare ex novo il meglio che è presente nelle diverse
istituzioni, ciascuna delle quali dovrà assumersi la responsabilità del suo
personale, ma sviluppando azioni sinergiche con le altre.
Un Polo della Ricerca e della Sperimentazione Agricola è previsto a
Monterotondo su un’area di proprietà del Ministero delle Politiche Agricole
sulla base di un finanziamento di 175 milioni di euro reso disponibile
dall’INAIL.
Nel Polo dovrebbero essere collocati alcuni Istituti Sperimentali
disseminati sul territorio e i servizi annessi, nonché l’Osservatorio per le
emergenze e la Scuola per allievi ufficiali del Corpo Forestale dello Stato.
Anche nella Tenuta di Maccarese è stata ipotizzata nella seconda metà degli
anni ’90 la creazione di un Parco scientifico e tecnologico. Già vi operano
diverse organizzazioni: il Consorzio Agrital Ricerche, i laboratori di
analisi sulla qualità delle Associazioni allevatori, l’IPGRI in
collaborazione con la FAO.
Andrebbe rapidamente ricostituito quel tavolo di concertazione di
istituzioni e forze sociali che, per impulso di Agrital e del suo
presidente, il Prof. Scarascia Mugnozza, aveva già predisposto un progetto
ed ora potrebbe aprire un confronto su un’analoga iniziativa dell’Azienda
agricola Maccarese.
Le caratteristiche dell’area, che ne fanno un sistema storico-ambientale di
alto pregio, e l’opportunità di trovarsi al centro di un sistema di
comunicazioni intermodale – ferro, gomma, aria, mare – imprimono al progetto
una forte proiezione verso il Mediterraneo.
In tale dimensione si colloca la nuova Fiera di Roma, che sta per sorgere a
Ponte Galeria, e che potrebbe ospitare un appuntamento annuale di respiro
internazionale da dedicare all’innovazione nell’agroalimentare in stretta
collaborazione con la FAO.

La seconda proposta è quella di allargare le tematiche su cui svolgere le
attività di ricerca e di affrontare i problemi nella loro complessità.
Pensiamo ad aggregati di questo tipo: sviluppo della modularità della
produzione agroalimentare per rispondere ad una domanda di cibo “su misura”
dell’atteggiamento e dell’attitudine del consumatore; genetica e genomica
per lo sviluppo sostenibile e la tutela della biodiversità; utilizzo delle
nanotecnologie e dell’ICT ai fini della sicurezza e della rintracciabilità
degli alimenti; sviluppo dei prodotti e dei processi a base biologica;
sostenibilità ambientale delle attività agroalimentare.
Occorre inoltre dare impulso e sistematicità agli studi riguardanti la
gestione dei sistemi territoriali. Ecco un primo elenco di temi solo a
titolo esemplificativo: sistemi di qualità integrata
prodotto-ambiente-lavoro-etica; risparmio idrico e lotta alla
desertificazione; efficienza energetica e promozione delle agri-energie;
intreccio tra sviluppo rurale e politiche territoriali riferite al nuovo
approccio comunitario al tema del paesaggio; inclusione sociale nelle aree
rurali e modelli di welfare rigenerativo; rapporti di complementarietà tra
aree agricole periurbane ed aree metropolitane.

La terza proposta riguarda l’esigenza di dotarsi di una efficiente strategia
per la valorizzazione delle risorse umane mediante una diffusa e ampia
crescita culturale di tutti gli attori del sistema agroalimentare.
In primo luogo vanno definite azioni specifiche per riaprire le porte della
ricerca ai giovani.
Il problema della frammentazione delle strutture che fanno capo al CRA è
senz’altro di prima grandezza e il piano di riorganizzazione che le riguarda
rappresenta solo una prima e del tutto insufficiente risposta, in attesa di
affrontare la questione con scelte nette ed efficaci. Tuttavia, è necessaria
un’azione energica e tempestiva per aggredire altre due emergenze.
La prima riguarda la penuria di personale scientifico dovuta al mancato turn
over (oltre il 67 % dei ricercatori del CRA ha più di 50 anni). La seconda è
riferita al rischio di impoverimento dell’attuale livello di competenze, non
assicurando un adeguato periodo di affiancamento delle nuove leve da parte
dei ricercatori in uscita per garantire il travaso delle conoscenze.
A questo proposito rubo a Walter Tocci un’immagine molto efficace quando
dice che “dobbiamo tornare a vedere trentenni di valore che gestiscono la
ricerca negli enti, che vanno in cattedra nelle università, che assicurano
l’innovazione nelle imprese, che si scambiano questi ruoli e dunque le
esperienze”.
Riaprire le porte ai giovani dovrà essere una delle prime mosse del governo
Prodi, con un piano straordinario di concorsi per gli enti e per le
università.
Un’attenzione specifica va poi rivolta all’istruzione media superiore della
Provincia di Roma, dove si può rilevare una presenza significativa di
istituti ad indirizzo agrario: 6 istituti tecnici, di cui 4 solo nel Comune
di Roma. Andrebbe promosso un raccordo con le istituzioni della ricerca e
coi sistemi produttivi territoriali per garantire un’attività formativa
maggiormente legata alle nuove problematiche del settore.
Ai sistemi locali di produzione e riproduzione della conoscenza andrebbero
collegate anche le migliaia di professionisti della nostra Provincia: 1650
veterinari, circa 700 agronomi, centinaia tra economisti agrari, ingegneri
idraulici, architetti, paesaggisti, giuristi agrari, commercialisti,
biologi, periti agrari e agroterapeuti, che operano in studi privati, in
strutture cooperative, in organizzazioni professionali e nella stessa
pubblica amministrazione centrale e regionale.
Analoga attenzione occorre indirizzare alla formazione degli imprenditori e
dei lavoratori agricoli.
Per evocare anche sul piano simbolico il legame inscindibile tra ricerca,
innovazione e crescita culturale dei soggetti imprenditoriali andrebbero
istituite borse di studio congiunte per giovani imprenditori disposti ad
innovare e giovani ricercatori, che insieme potrebbero trascorrere periodi
di apprendimento presso poli tecnologici e scientifici di eccellenza.

Infine, la quarta proposta riguarda la definizione di strumenti finanziari
per assicurare – mediante il coinvolgimento delle organizzazioni sociali,
delle fondazioni culturali, delle banche e delle autonomie funzionali –
risorse aggiuntive a quelle pubbliche da destinare alla ricerca agricola.
Nel 2004 la spesa pubblica per ricerca e sperimentazione è stata nel nostro
paese appena lo 0,9 % del sostegno totale assicurato al settore agricolo. Si
tratta di una cifra assolutamente insignificante: 148 milioni di euro. Anche
aggiungendo la spesa sostenuta da altri enti pubblici e privati e dalle
università non si raggiungono probabilmente i 500 milioni di euro.
Per troppo tempo è stato assente nell’agroalimentare un modello culturale in
grado di favorire una forma collaborativa tra imprese e ricerca.
In questo ambito le banche e gli intermediari finanziari rappresentano un
anello fondamentale e cruciale per garantire un adeguato supporto
all’innovazione.
Ma un impulso può venire dal nuovo programma regionale di sviluppo rurale
in corso di definizione e che potrebbe destinare risorse ad azioni per la
ricerca applicata, la diffusione dell’innovazione e la formazione.
Un coordinamento orizzontale della ricerca potrebbe ottenersi mettendo a
punto una legge regionale. In tal modo, un programma concertato con le forze
sociali legato al Fondo per lo sviluppo economico, ricerca e innovazione,
recentemente istituito dalla Giunta Marrazzo e dotato di 60 milioni di euro,
potrebbe costituire lo strumento strategico per definire ed attuare una
politica organica ed unitaria a favore della ricerca e dell’innovazione
nell’agroalimentare del Lazio.
Il centrosinistra al governo nazionale dovrà caratterizzarsi per una
politica della ricerca concertata con le regioni che sappia volare nello
spazio europeo ed atterrare nei progetti di sviluppo locale. Noi DS ci
batteremo con il massimo impegno per realizzarla in questa duplice
dimensione e contribuire così a traghettare il sistema agroalimentare nella
società della conoscenza.