Seminario Progetto Europeo:
I primi passi della Riforma PAC, le nuove opportunità in agricoltura
Catania, 20-21-22 marzo 2006

La condizionalità e la multifunzionalità in agricoltura. I vincoli e le
prospettive future per gli agricoltori.
(Relazione di Alfonso Pascale)

La condizionalità

Con lo scopo di migliorare l’integrazione delle istanze ambientali nella
PAC, già a partire dalla fine degli anni Novanta, si era proposto il
cosiddetto sostegno condizionato (o condizionalità).
Dal 2000 gli Stati Membri hanno avuto l’opportunità di vincolare i pagamenti
diretti al rispetto di determinati criteri ambientali.
Tale scelta ha generato una proliferazione di svariati “livelli di
riferimento”: “Requisiti minimi”, “Buone Pratiche Agricole”, “Criteri
Obbligatori di Gestione”, “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” e
“Buone Pratiche Zootecniche”.
Da un lato, questa pluralità di “livelli di riferimento” ha consentito di
graduare e finalizzare meglio gli interventi, dall’altro rischiava di
generare confusione tra gli operatori e notevoli complicazioni gestionali
per le autorità amministrative.
La riforma della PAC del giugno 2003 ha reso obbligatoria la condizionalità,
cioè l’impegno per tutti gli agricoltori di rispettare la corretta gestione
agronomica dei terreni e la salvaguardia dell’ambiente, pena l’attivazione
di un meccanismo di riduzione dei pagamenti diretti in caso di non
conformità, e l’ha estesa ad altri campi, quali la sanità pubblica e la
salute delle piante e degli animali.
Gli agricoltori che beneficiano dei pagamenti diretti devono rispettare
alcuni impegni suddivisi in due grandi categorie: Criteri di Gestione
Obbligatori (CGO) e Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali (BCAA).
I CGO sono disposizioni di legge indicate con il termine “Atti”, cioè le
direttive e i regolamenti che figurano nell’allegato III del Reg. (CE) n.
1782/03, relativo ai CGO, così come recentemente individuati nell’allegato 1
del Decreto MIPAF 15 dicembre 2005.
Le BCAA sono invece indicate con il termine “Norme” e riguardano gli
obiettivi fissati dall’Unione Europea in materia di corretta gestione
agronomica dei terreni e di salvaguardia dell’ambiente, attuati in base alla
normativa definita nell’allegato 2 del Decreto MIPAF 15 dicembre 2005.
Pertanto, rispetto alla prima riforma Fischler del 2000, adesso i “livelli
di riferimento” si sono ampliati ulteriormente. Ed è mutata la qualità
dell’approccio. Si è passati, in sostanza, da una politica di “tutela
dell’ambiente” tout court ad una più ampia politica di “gestione della
tutela dell’ambiente”. Se consideriamo che in Italia la superficie
assoggettata alla condizionalità si attesta intorno agli 11-12 milioni di
ettari e che le precedenti misure agroambientali avevano interessato solo 3
milioni di ettari e con uno scarso legame alla gestione del suolo, si
comprende la valenza strategica di tale innovazione.

I limiti applicativi della condizionalità in Italia

Purtroppo, l'applicazione in Italia della recente riforma della PAC non è
stata conseguente alle attese. Con le norme messe a punto a livello
nazionale, il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali e le Regioni
hanno congiuntamente rinunciato ad utilizzare gli spazi di autonomia che il
regolamento comunitario lasciava ai Paesi Membri.
Tali norme sono state ispirate prevalentemente ad assicurare il mantenimento
dell'acquisito nazionale e la riserva dei premi comunitari alle filiere
prevalenti (cereali, soia, girasole) e a non ammettere differenze
applicative fra le Regioni. Si è preferito il ritorno alla uniformità delle
norme, caratteristica della PAC precedente e della gestione centralizzata
del MIPAF. E' in sostanza prevalso un recepimento di taglio
amministrativo-burocratico, con scarsa attenzione ai contenuti che
avrebbero dovuto considerare e premiare le caratteristiche di qualità e
distintive delle nostre molteplici agricolture.
In particolare, si sarebbe dovuto tener conto della prevalente composizione
di aziende medie e piccole, del part-time, dei lavoratori-produttori, della
vasta e diversificata presenza dell'agricoltura integrata ed
eco-compatibile, delle nuove aziende (che non hanno percepito premi negli
anni di riferimento 2000-2002 per il calcolo del premio unico aziendale) e
quindi dei giovani agricoltori che pur ci sono e stanno aumentando.
Le cosiddette “Norme” sono state stabilite a livello nazionale anche se
potevano essere definite dalle Regioni. Le Regioni possono fare solo certe
specificazioni di una normativa che resta solo nazionale. Orbene tali
“Norme” non solo sono carenti proprio dal punto di vista del miglioramento
agronomico e ambientale, ma sono in gran parte già osservate dagli
agricoltori, oppure si possono considerare adempimenti facili, di esecuzione
ovvia, ancorché di difficile controllo per le numerose deroghe previste nel
Decreto.
Ancora una volta si è cercata la scappatoia. Una condizionalità più
virtuosa, stabilita dalle Regioni, sarebbe stata più aderente alle realtà
ambientali e paesaggistiche locali e alle rispettive modalità e qualità di
svolgimento delle operazioni colturali. Avrebbe inoltre contribuito ad
assicurare ai cittadini garanzie ambientali, a migliorare l'immagine delle
nostra agricoltura e quindi la caratterizzazione della sua produzione, anche
di quella destinata all'esportazione, sia dal punto di vista della qualità
che della sicurezza alimentare.
Tale esito dipende anche dal fatto che la multiforme rappresentanza
dell’agricoltura non è posta in condizione di far valere le proprie esigenze
con pari dignità. L’ALPA è sicuramente una forma associativa originale di
lavoratori-produttori agricoli ma non è posta nelle condizioni di stare al
Tavolo Agricolo. Antesignana di modelli organizzativi che dovrebbero sempre
più diffondersi nei prossimi anni nelle campagne per dare rappresentanza ad
agricolture molteplici ed a funzioni agricole e rurali diversificate, l'ALPA
va considerata co-protagonista a pieno titolo nei processi di ricollocazione
del settore primario all'interno del nuovo contesto globalizzato. Tuttavia i
rapporti all’interno del mondo agricolo vengono ancora affrontati come in
passato. Nella fase fordista dello sviluppo agricolo, i processi di
omologazione al modello produttivistico ritenuto vincente suggerivano,
conseguentemente, strategie unitarie volte a semplificare e uniformare in
modelli organizzativi unici sia la rappresentanza delle imprese che quella
del lavoro dipendente.
Adesso, il nuovo assetto sociale che si va delineando nelle campagne e
l'esigenza di costruire sistemi territoriali a rete, per conseguire spazi
competitivi e livelli adeguati di sostenibilità sociale e ambientale,
suggeriscono, invece, strategie unitarie fatte di micropatti, accordi
parziali, progetti su singoli obiettivi tra entità distinte, salvaguardando
e moltiplicando le forme della rappresentanza sociale in modo tale da farle
aderire meglio alla realtà molteplice della moderna ruralità.
E' la capacità di "fare sistema" la vera sfida di una rappresentanza
agricola che, per pesare, deve sostituire i comportamenti concorrenziali con
le pratiche collaborative e cooperative. Ma a tale obiettivo dovrà
necessariamente concorrere una nuova stagione della concertazione tra le
istituzioni e le forze sociali, dopo che il centrodestra ne ha teorizzato e
praticato la fine. Una concertazione che non può ripercorrere i modelli del
passato, bensì dovrebbe sperimentare tracciati fortemente inclusivi,
rispettosi della pluralità delle forme organizzate e capaci di produrre
condivisione e cooperazione.
Solo in questo modo riforme di una certa incisività, come la recente riforma
della PAC, si sarebbero potute e si potranno in seguito applicare in modo
più rispettoso degli interessi generali.

I problemi aperti dal sostegno alla consulenza aziendale

L’esigenza di monitorare la condizionalità ha indotto l’Unione Europea a
prevedere nel regolamento sullo sviluppo rurale misure a sostegno della
consulenza aziendale. L’occasione offerta dalle nuove disposizioni è
importante per avviare un profondo rinnovamento dei servizi di sviluppo
agricolo nel nostro Paese. Infatti, il regolamento affida ai servizi un
ruolo di accompagnamento delle imprese nell’attuazione della condizionalità
e un ruolo di supporto alla realizzazione di tutti gli obiettivi prioritari
dello sviluppo rurale, in particolare di quelli degli Assi I (Competitività
del settore agroalimentare) e II (Tutela dell’Ambiente).
A tale proposito due sono gli ordini di problematiche che dovrebbero essere
affrontate: 1) l’applicazione del regolamento e di quanto dispone; 2) i nodi
strutturali che, se non risolti, potrebbero rendere l’azione dei servizi
assai meno efficace.
Le Regioni hanno la possibilità di affrontare entrambe le questioni, a patto
che esse non si limitino ad affidare ai servizi esclusivamente il compito di
informare gli agricoltori sulle tecniche da introdurre per ottemperare agli
impegni sulla condizionalità ed evitare i rischi di errori e quindi le
sanzioni, ma riorganizzino complessivamente il sistema dei servizi. Si
tratta di ridefinire gli obiettivi nella consapevolezza che occorrono
modelli organizzativi orientati sia verso le imprese, affidando ai servizi
il ruolo di supporto nelle scelte gestionali e produttive, di aggregazione
della domanda di innovazione organizzativa e tecnologica e di anello
fondamentale del trasferimento delle conoscenze a partire dai risultati
della ricerca e della sperimentazione, sia verso i sistemi territoriali,
individuando nei servizi la funzione essenziale per accrescere il capitale
sociale e avviare processi di sviluppo dal basso.
Un’attenzione particolare le Regioni dovrebbero riservare ai criteri di
selezione dei soggetti abilitati all’erogazione dei servizi per assicurare
la qualità degli stessi. In particolare si dovrebbero considerare i seguenti
requisiti: 1) presenza di personale adeguatamente qualificato; 2) idonea
dotazione di infrastrutture amministrative e tecniche; 3) competenze
specifiche in generale e anche specifiche negli ambiti individuati come
prioritari dalle Regioni.

La multifunzionalità

Negli ultimi anni la domanda della società nei confronti dei beni e dei
servizi generati dall’agricoltura ha subito una profonda evoluzione.
L’agricoltura svolge ormai da diversi anni un ruolo che non è più
identificabile solo nella sua funzione di produzione di beni di prima
necessità, ma che è legato allo svolgimento di altre funzioni (ambientali,
paesaggistiche, turistico-ricreative, culturali, didattico-educative,
terapeutiche, riabilitative…).
Queste varie funzioni nell’insieme vengono compendiate nel termine di
“multifunzionalità”.
Esistono diversi approcci alla tematica della multifunzionalità in
agricoltura e quindi diverse definizioni di multifunzionalità
Il concetto di multifunzionalità delle aziende agricole origina dall’idea
generale che l’attività economica possa dar luogo a più prodotti e servizi
(legati da vincoli tecnici, economici, sociali e legali) e che, in virtù di
tali interazioni funzionali, possano aversi effetti sociali (positivi o
negativi).
E’ questa la definizione di multifunzionalità data nel 2001 dalla
Organization for Economic Co-operation and Development (OECD). Si tratta di
un concetto che indica che un’attività economica può dare luogo a più
prodotti e servizi congiunti e, in virtù di questo, può contribuire a
raggiungere contemporaneamente vari obiettivi sociali.
La multifunzionalità non è una specificità dell’agricoltura. Molti esempi
si possono trovare in altre attività economiche, ma la rilevanza politica
della multifunzionalità dell’agricoltura probabilmente va attribuita ai
seguenti fattori: 1) la dispersione sul territorio delle imprese agricole
che le rende idonee a contribuire in modo determinante ai processi di
sviluppo territoriale; 2) l’alto livello di sostegno pubblico al settore
agricolo che potrà incontrare il consenso della società solo se sarà
giustificato da un’esplicita ed attuale indicazione di obiettivi di
interesse generale.
Gli elementi essenziali della multifunzionalità sono due: il primo è
l’esistenza di molteplici prodotti e servizi commerciali e non commerciali
che sono congiuntamente ottenuti con l’attività agricola; il secondo è il
fatto che alcuni di questi prodotti e servizi non commerciali hanno le
caratteristiche di esternalità o di beni pubblici con il risultato che non
esiste un mercato per questi beni o non è sviluppato.
La multifunzionalità non è solo una caratteristica che l’agricoltura può
manifestare o meno. Essa è un valore perché attraverso il riconoscimento
della mulfunzionalità l’agricoltura garantisce diverse funzioni nella
società.
Quindi la multifunzionalità dell’agricoltura non è una mera caratteristica
del processo produttivo ma acquista un suo proprio valore, diventa un valore
dell’attività agricola. In questo caso mantenere o promuovere la
multifunzionalità dell’agricoltura può diventare un obiettivo politico da
conseguire con interventi a favore delle imprese.
Da questo punto di vista, una definizione convincente di multifunzionalità è
la seguente: “l’insieme di contributi che il settore agricolo può apportare
al benessere sociale ed economico della collettività e che quest’ultima
riconosce come propri dell’agricoltura” (IDDA 2002).

Dal vecchio al nuovo patto sociale

Il patto sociale tra l’agricoltura e la società, assorbito nel Trattato di
Roma e nelle politiche agricole nazionali degli anni ’50 e ’60 del secolo
scorso, affidava al settore primario il ruolo di garantire il raggiungimento
dell’obiettivo della sicurezza alimentare. La sicurezza alimentare era
intesa in un’accezione quantitativa come soluzione alla fame e alla
sottonutrizione e quindi come strumento di autonomia politica. La Pac era,
in sostanza, considerata come strumento dell’Europa per non dover soggiacere
a un eventuale ricatto alimentare.
Il travaso di risorse in prevalenza dai contribuenti e dai consumatori a
beneficio del settore primario assumeva peraltro la funzione di parziale
redistribuzione della ricchezza prodotta dallo sviluppo economico a
vantaggio dei soggetti (gli agricoltori) e dei territori (le aree rurali)
più penalizzati da una strategia di sviluppo concentrata sulla grande
industria e sulla grande città.
Nella seconda metà degli anni ’80, il Libro Verde di Delors "Il futuro del
mondo rurale" ha posto per la prima volta in modo esplicito l’esigenza di
rivedere quel patto sociale alla luce delle nuove condizioni politiche,
sociali ed economiche nel frattempo determinatesi in Europa e nel mondo. Da
allora sono state avviate graduali e sempre più incisive riforme della Pac
accompagnate da riflessioni, sul piano scientifico ed a livello politico e
sociale, sulla nuova funzione sociale degli agricoltori e sulla
ridefinizione di un nuovo patto sociale.
In gioco a livello europeo ci sono, da una parte, il 40 per cento del
bilancio comunitario destinato alla Pac e, dall’altra, tutte le questioni
che all’evoluzione dell’agricoltura sono interrelate: ambientale, sociale,
territoriale, culturale, alimentare, sanitaria e tecnologica.
Non ha senso associare, come fa Blair, il peso dell’agricoltura sul PIL (2%)
alla quota del budget (40%). Avrebbe un significato se l’Unione Europea
avesse una politica comune per la difesa, l’istruzione o la salute. La
posizione liberista di Blair nasconde in realtà il fatto che la Pac non gli
è mai piaciuta, perché la Gran Bretagna ne beneficia poco e si rifiuta di
rinunciare al rimborso ottenuto ai tempi della Tatcher.
Le nuove e diversificate funzioni che la società richiede all’agricoltura
ben giustificano a livello mondiale politiche agricole da parte degli Stati.
Liberalizzare l’agricoltura deve significare ridurre le sovvenzioni che
distorcono il commercio, migliorando l’accesso ai mercati ed eliminando le
restituzioni alle esportazioni. Ma non può significare smantellare le spese
che la collettività deve necessariamente assicurare al settore per i
benefici sociali e ambientali che esso è chiamato a svolgere.
E’ evidente che se applichiamo in modo blando la condizionalità, come stiamo
facendo in Italia, l’agricoltura si attirerà le critiche dei cittadini e
l’Europa avrà scarsi argomenti per difendere la Pac a livello di WTO. E’
alto il rischio che si possa pensare che quello che stiamo facendo sia in
realtà una nuova forma di protezionismo: prendere gli stessi sussidi,
verniciarli di verde e far finta che servano a pagare servizi per
l’ambiente.
Da qui nasce l’esigenza di spostare le risorse pubbliche dalla politica di
mercato (I Pilastro) alla politica di sviluppo rurale (II Pilastro). In
questo modo si potrà fare una politica di ampio respiro a sostegno della
multifunzionalità dell’agricoltura e si potranno superare le profonde
disparità di trattamento che caratterizzano il I Pilastro della Pac: la
destinazione del 80 % delle risorse al 20 % delle imprese.
Continuano a resistere ad una prospettiva di rinnovamento e di riequilibrio
i Paesi che beneficiano di più della Pac e le grandi aziende. Essi paventano
il timore che l’agricoltura nel suo complesso possa perdere una parte del
budget. Ma non è così. Si andrebbe solo ad una allocazione più equa delle
risorse e si accrescerebbero le opportunità per gli agricoltori di
soddisfare le richieste dei cittadini.
Si potrebbe partire in tale direzione mettendo in discussione il fatto che
la politica di mercato è finanziata interamente dal FEOGA mentre le misure
del II Pilastro sono co-finanziate dall’Unione Europea e dagli Stati Membri.
La strada da percorrere dovrebbe essere quella di co-finanziare anche il I
Pilastro, come tutte le politiche dell’Unione Europea. Del resto aveva senso
finanziare al 100 % la Pac quando questa era fondata sulle organizzazioni
comuni di mercato e dunque funzionava con la “preferenza comunitaria”, gli
“alti prezzi unici” e la “solidarietà finanziaria”. Era ovvio finanziarla da
una fonte comune, altrimenti il costo sarebbe caduto sul Paese che produceva
il surplus. Ma dopo la riforma Mac Sherry del 1992 tale impostazione non ha
più una sua giustificazione tecnica. Ai Paesi, come la Francia e la Spagna,
che hanno beneficiato della PAC più degli altri, occorre il coraggio
politico di rinunciare alla rendita di posizione ereditata dai meccanismi
del passato e puntare su un profondo rinnovamento della Pac, rafforzando la
politica di sviluppo rurale. E i piccoli produttori devono far sentire
maggiormente la loro voce denunciando con maggiore vigore l’enorme
squilibrio che caratterizza ancora la Pac. I cittadini, in quanto
contribuenti e consumatori, non potranno che trarre solo benefici da una
politica più dispiegata di sviluppo rurale.

La responsabilità verso le risorse

E’ in questo quadro che gli agricoltori dovrebbero interrogarsi sulle
responsabilità da assumere per stabilire il nuovo patto sociale. Tra le
diverse responsabilità figura in modo marcato quella verso le risorse che
appartengono a tutti, che non sono infinite, che non sono riproducibili.
Ebbene, assumerci una responsabilità verso le risorse significa che alcuni
temi, quali l’erosione del suolo, la scarsità dell’acqua, la perdita della
biodiversità, non possono essere per noi dei fuori-tema o dei temi
aggiuntivi, ma devono diventare: 1) una variabile interna ai nuovi mestieri
agricolo-rurali; 2) una nuova condizione dell’autogoverno del territorio;
3)una nuova concezione della ruralità come rivitalizzazione di valori.

1) La sostenibilità ambientale come variabile interna ai nuovi mestieri
agricolo-rurali.
La manutenzione del territorio e la gestione della tutela ambientale sono
funzioni pubbliche del tutto misurabili. Come tali possono essere
riconosciute dall’intervento pubblico all’impresa agricolo-rurale. Ed agire
anche come valore aggiunto ad attività di produzione di beni alimentari e di
fornitura di servizi remunerate dal mercato.
Si tratta di funzioni che diversificano le imprese insediate nelle aree
rurali e operano a pieno titolo nell’ambito di strategie imprenditoriali
della qualità legata al territorio.

2) La sostenibilità ambientale come nuova condizione dell’autogoverno del
territorio.
La manutenzione del territorio e la gestione della tutela ambientale sono
funzioni pubbliche che hanno reso obsoleto il concetto di "bonifica".
Infatti, è in atto una difficile e ancora incompiuta transizione dei
Consorzi di Bonifica verso una pluralità di compiti, quali la manutenzione
dei corsi d’acqua e degli scoli, il riciclo ed uso plurimo delle acque, la
difesa del suolo, la salvaguardia ambientale, che si presentano complessi e
forieri di conflitti tra differenti interessi.
Noi potremo meglio difendere e rilanciare l’"autogoverno" del territorio se
dimostreremo senso di responsabilità e capacità gestionale, perseguendo
trasparenza e innovazione. E se apriremo un dialogo con altri soggetti
economici e sociali interessati a sistemi territoriali competitivi da
realizzare unitamente ad un governo efficiente delle risorse ambientali.
E’ noto, peraltro, che in alcune realtà la contribuenza extragricola sta
ormai superando quella del nostro mondo. E’, dunque, nell’interesse degli
agricoltori ricercare alleati e favorire la partecipazione all’autogoverno
da parte di quei soggetti che, come noi, utilizza le risorse naturali ed è
disponibile a collaborare per una loro efficiente gestione. Anche in questo
modo potremo più efficacemente difendere i Consorzi e rilanciare la loro
insostituibile funzione.

3) La sostenibilità ambientale come rivitalizzazione dei valori della
ruralità.
Prima ancora che l’industria si appropriasse della problematica della
"responsabilità sociale d’impresa" l’attività agricola è sempre stata
associata a determinati valori etici: assicurare il benessere dei cittadini,
agire in modo solidale, relazionarsi in base a criteri di reciprocità,
risparmiare le risorse irriproducibili.
Si tratta di quei valori che caratterizzano le aree rurali e che, però, a
seguito dei processi di urbanizzazione e di industrializzazione, si stanno
erodendo. Tale prosciugamento sta ora mettendo pericolosamente a
repentaglio le potenzialità dei territori rurali di essere competitivi nelle
nuove condizioni dell’economia postfordista.
Di qui l’importanza di avviare processi di rivitalizzazione dei valori che
sottendono la tipicità e la ruralità. Non è affatto sufficiente la
valorizzazione economica di un distretto rurale o agroalimentare di qualità
per ottenere condizioni di sviluppo senza integrare in quel territorio
processi economici, processi socio-culturali e processi ecosistemici.

Le prospettive dell’agricoltura sociale

Le attività agricole che permettono di realizzare percorsi terapeutici,
riabilitativi e di integrazione sociale, lavorativa e imprenditoriale di
persone svantaggiate sono di enorme importanza per rivitalizzare i valori
della ruralità e ricostituire nelle aree rurali quelle reti di protezione
sociale la cui debolezza produce marginalità e disagio.
Parlare in tal senso di “agricoltura sociale” non deve indurre ad equivoci.
Tale aggettivazione non ha nulla a che vedere con l’assistenzialismo. Con il
termine “sociale” intendiamo, infatti, riferirci alla capacità delle imprese
agricole di generare benefici nei confronti di gruppi vulnerabili della
popolazione a rischio di esclusione sociale mediante l’attività produttiva e
l’utilizzo di beni e strutture aziendali.
Una prima caratteristica che rende l’agricoltura un contesto potenzialmente
inclusivo di soggetti fragili riguarda l’organizzazione aziendale.
L’impresa agricola si caratterizza, infatti, per una duttilità ed una
versatilità che difficilmente si riscontrano in unità produttive di settori
extra-agricoli. Le attività che si svolgono in campagna possono essere
scelte tra un ventaglio molto ampio di possibilità che include attività in
pieno campo e al coperto, di coltivazione e di allevamento, a ciclo breve o
a ciclo lungo, ecc.
Le stesse modalità con cui può essere svolto un processo produttivo sono
molteplici. Infatti, se l’obiettivo che guida le scelte dell’imprenditore
non è solo quello della massimizzazione di un parametro economico, ma tiene
conto anche di risultati di carattere sociale, quale la partecipazione
attiva ai lavori agricoli di soggetti con svantaggio, le tecniche di
produzione, che in una logica puramente economica risulterebbero
inefficienti, in una prospettiva di efficienza sociale possono essere
proficuamente condotte.
Diversi altri aspetti rendono l’attività agricola assolutamente unica in
percorsi di inclusione di soggetti deboli: il senso di responsabilità che
matura quando ci si prende cura di organismi viventi; i ritmi di produzione
non incalzanti; la non aggressività delle piante e di molti animali da
allevamento; la varietà dei lavori, quasi mai ripetitivi; la consapevolezza
che tutti, anche coloro che svolgono mansioni minori o marginali, sono
partecipi del risultato finale, un bene alimentare, la cui utilità è
agevolmente riconoscibile.
La "fattoria sociale" è, dunque, un’impresa economicamente e
finanziariamente sostenibile, condotta in forma singola o variamente
associata, che svolge l’attività produttiva agricola e zootecnica proponendo
i suoi prodotti sul mercato, in modo integrato con l’offerta di servizi
culturali, educativi, assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio
di soggetti deboli (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti,
anziani, bambini e adolescenti) e di aree fragili (montagna e centri
isolati), in collaborazione con istituzioni pubbliche e con il vasto mondo
del terzo settore.
Nelle fattorie sociali le attività assistenziali si potranno estendere alla
cura degli anziani che non sono più autosufficienti, prevedendo soggiorni
periodici che potrebbero coincidere con le visite scolastiche, e dar luogo a
forme organizzate di trasmissione delle esperienze dalle generazioni più
mature ai ragazzi. In esse si potranno insediare asili nido, ludoteche,
centri di produzione artistica.
Si sperimenterà la possibilità di ospitare persone che per la degenza
post-ospedaliera, invece di occupare posti letto utilizzabili da altri
pazienti in lista di attesa, potrebbero riabilitarsi, in minor tempo ed a
costi più contenuti, stando in campagna. Si potranno installare servizi
internet e postali, punti vendita di libri, giornali e materiale
multimediale, sportelli di enti ed associazioni, soprattutto nei piccoli
centri dispersi dove queste attività non sono economicamente sostenibili se
svolte in via principale.
La fattoria sociale, in sostanza, è un centro di servizi sociali, ma anche
di aggregazione delle aree rurali, dove la comunità si ritrova, con le
persone che vi operano, nelle più svariate iniziative, da quelle culturali a
quelle ricreative e turistiche.
La fattoria sociale è, pertanto, una impresa che utilizza in gran parte
fattori di produzione locali ed eroga i propri servizi alla comunità nella
quale è inserita. Attiva sul territorio reti di relazioni, crea mercati di
beni relazionali, offre risposte a domande sociali latenti o alle quali i
sistemi di welfare non sono più in grado di rispondere, genera capitale
sociale, ingrediente fondamentale in qualunque ricetta di sviluppo locale.
La fattoria sociale è, inoltre, un potente agente di sviluppo delle aree
rurali. Tali territori, infatti, non saranno mai competitivi se si
affideranno solo ai beni e ai servizi in sé e alla loro tipicità, senza
riprodurre i valori etici, culturali, umani, che la sottendono, e senza
riattivare in forme moderne la specificità delle relazioni interpersonali.
Oltre queste valenze di carattere generale, la fattoria sociale presenta
anche una sua peculiarità nella diversificazione dell’offerta di beni
alimentari.
I prodotti che si ottengono dalle attività agricole svolte in una fattoria
sociale non portano i segni di eventuali difficoltà delle persone che hanno
contribuito al processo produttivo. A parità di altre condizioni, dalle
olive raccolte da un soggetto ad esempio con ridotte capacità mentali, si
ricaverà un olio del tutto comparabile con quelle raccolte dal più esperto
degli olivicoltori. Lo stesso può dirsi dell’annaffiatura di un orto o
dell’alimentazione di galline da uova, e via discorrendo. Questa proprietà,
indubbiamente più presente in agricoltura rispetto ad altri settori
produttivi, risulta di estremo interesse per le potenzialità di
commercializzazione che i prodotti dell’agricoltura sociale presentano.
Le opportunità sono molteplici, dalla vendita diretta in azienda al
rifornimento da parte dei gruppi di acquisto solidale, dalla costruzione di
una rete di negozi dell’agricoltura sociale alla creazione di spazi nella
grande distribuzione.
A tal fine diventa essenziale la valorizzazione dei prodotti delle fattorie
sociali mediante l’etichettatura etica. L’Associazione “Rete Fattorie
Sociali” (www.fattoriesociali.com) ha registrato un marchio collettivo e si
è dotata di un regolamento d’uso per valorizzare i prodotti e i servizi
delle aziende associate. La possibilità in un contesto produttivo agricolo
di ottenere prodotti di qualità apre ampi spazi per l’impresa sociale in
agricoltura.
Esperienze di imprenditorialità sociale in agricoltura sono attive in tutte
le regioni italiane da molti anni, ma sono state erroneamente considerate
come oggetti ‘anomali’ e comunque appartenenti alla sfera delle politiche
sociali e non a quelle dello sviluppo rurale.
Vi sono poi numerose situazioni, peraltro mai quantificate, che vedono
aziende agricole erogare implicitamente un servizio sociale nei confronti di
soggetti deboli. Si tratta di famiglie conduttrici di imprese agricole che
presentano tra i propri componenti un soggetto con svantaggio: persona con
disabilità fisica o psichica, soggetto con ritardo cognitivo o con
difficoltà di integrazione sociale. Per questi casi manca una normativa in
grado di riconoscere l’apporto professionale del disabile e di sostenerne
l’ulteriore qualificazione.
Fra le poche iniziative assunte dalle istituzioni pubbliche in materia di
agricoltura sociale si ricorda quella della Regione Veneto che, nel proprio
Piano di Sviluppo Rurale (PSR) 2000-2006, ha previsto espressamente
incentivi per le fattorie didattiche e quelle sociali nell’ambito della
misura 16 relativa alla diversificazione delle attività legate
all’agricoltura. A seguito di tale previsione nel 2003 è stato emesso un
bando rivolto a fattorie didattiche ed a quelle sociali, senza alcuna
definizione particolare di fattoria sociale. Con quel bando venivano
previsti finanziamenti pubblici ad imprese agricole il cui carattere
‘sociale’ veniva dato dalla presenza di un accordo o un protocollo con le
autorità sociosanitarie locali. Nulla si sa dell’esito che ha avuto
quell’avviso pubblico.
La Regione Toscana ha, invece, previsto al momento della stesura del PSR
2000-2006 una misura specifica per il sostegno allo sviluppo sociale delle
aree rurali ( e non all’agricoltura sociale): la misura 9.4. Questa misura
aveva per titolo “Servizi essenziali alla popolazione e all’economia
rurale”. In verità tale misure era presente anche in molti altri PSR, ma
solo in Toscana ha avuto una implementazione tesa a finanziare progetti
sociali rivolti a fasce sociali ‘deboli’, o comunque ben individuate, quali
anziani, disabili, giovani e minori.
La peculiarità di quella misura era che i finanziamenti venivano approvati
sulla base della presentazione di un progetto. I bandi emessi indicavano i
criteri di premialità e in base alle graduatorie che si venivano a
determinare applicando quei criteri venivano finanziati i progetti fino
all’esaurimento delle risorse finanziarie disponibili.
Tuttavia, l’esperienza toscana ha riguardato per il 95% il sostegno a
progetti sociali, presentati da enti pubblici ( che coinvolgevano nel
partenariato altri soggetti pubblici, privati e del terzo settore), inerenti
l’istituzione o il consolidamento di servizi sociali sul territorio: servizi
di prossimità ad anziani soli, asili nido, ludoteche, istituzione di centri
giovani, centri per disabili ecc. L’agricoltura in tutti questi progetti non
c’entrava per nulla. Solo 3-4 progetti su 60 finanziati hanno avuto un
rapporto con le attività agricole.
Altre esperienze si ritrovano a livello di Province, in particolare in
quella di Roma dove, attraverso l’Ufficio del Consigliere delegato alle
politiche dell’handicap, si stanno assumendo iniziative rilevanti quali il
Forum delle Fattorie Sociali, convegni e workshops di collegamento e
riflessione comune fra le varie esperienze.
Se da parte delle Regioni venisse favorita l’integrazione delle politiche di
sviluppo rurale, quelle della ricerca, formative e di trasferimento delle
innovazioni tecnologiche, con le politiche socio-sanitarie e assistenziali,
sarebbe possibile sperimentare un nuovo modello di welfare di tipo locale.
La nuova programmazione dello sviluppo rurale 2007-2001 dovrebbe affrontare
il problema della complementarietà del sostegno all’agricoltura sociale con
gli interventi previsti nelle politiche sociali. Inoltre, andrebbero
coinvolti tutti e 3 gli Assi (Competitività, Ambiente e Qualità della vita
delle aree rurali) prevedendo diverse misure e legando concretamente
l’incentivazione dell’agricoltura sociale alla progettazione integrata
territoriale. Ciò presuppone, infine, la definizione dei ruoli e delle
responsabilità nell’ambito del partenariato pubblico-privato per realizzare
la progettazione integrata a sostegno dell’agricoltura sociale.

Le agri-energie

Coniugando il valore della multifunzionalità con la responsabilità verso le
risorse si sta affacciando nello scenario agricolo-rurale in tumultuosa
trasformazione un nuovo soggetto: l’impresa agri-energetica, cioè un’impresa
agricola che si organizza per coltivare, produrre e vendere energia.
Ci riferiamo a forme organizzate d‘impresa che hanno lo scopo finale di
generare reddito per l’agricoltore, ma il cui settore produttivo non è
quello agroalimentare bensì quello energetico.
Il continuo rialzo del costo del petrolio e dei suoi derivati, unitamente
agli effetti negativi sull’ambiente provocato dal ricorso massiccio alle
fonti fossili, rende sempre più vantaggioso il ricorso alle rinnovabili.
Attraverso l’utilizzo di produzioni agricole e forestali dedicate, oggi è
possibile generare energia pulita e rinnovabile.
La gamma di combustibili di origine agricola e forestale destinati alla
produzione di energia rinnovabile è principalmente composta da: 1)
combustibili solidi o biomasse agricole e forestali (cippato di legno,
pellet, legna da ardere, briquettes, colture agricole dedicate); 2)
combustibili liquidi o biocarburanti ( bioetanolo, biodiesel, olio vegetale
puro); 3) combustibili gassosi o biogas da fermentazione di reflui
zootecnici e biomasse vegetali.
I modelli di organizzazione delle imprese agri-energetiche sono abbastanza
variegati, ma possono essere aggregati in tre principali gruppi.
Nel primo gruppo sono comprese le imprese agricole che, attraverso la
coltivazione del fondo o dei boschi, producono e vendono la materia prima
(girasole, soia, colza, barbabietole, ecc.) che a sua volta diventerà
combustibile (biodiesel o bioetanolo) per mezzo di un processo di
trasformazione industriale. Si possono inoltre aggiungere a questo primo
gruppo anche le imprese che coltivano colture erbacee, arboree e arbustive
destinate a fornire biomasse da conferire ad impianti per la produzione di
energia termica e/o elettrica. Infine, si possono annoverare in questa
categoria anche le imprese agri-boschive che, attraverso la gestione di
superfici boscate ricavano e vendono legname a scopo energetico sotto varie
forme (legna da ardere a pezzi, legno cippato, briquettes) destinato ad
impianti a legno-energia per la produzione di energia termica e/o elettrica.
Nel secondo gruppo si possono considerare le imprese agricole che non solo
coltivano specie energetiche, ma da queste producono direttamente energia in
azienda e che, a tale scopo, dispongono o si dotano delle tecnologie
necessarie. Un esempio concreto è l’azienda agrituristica che, attraverso la
gestione del proprio patrimonio arboreo, produce legno cippato destinato a
fornire l’energia termica necessaria a tutto il proprio complesso ricettivo,
utilizzando un moderno impianto automatico ad alto rendimento. Ed un altro
esempio ancora è quello di un’ azienda agricola che, attraverso l’olio
vegetale puro prodotto dalle proprie coltivazioni di girasole, alimenta un
generatore che assicura l’energia elettrica necessaria al proprio complesso
aziendale.
Un terzo gruppo considera le imprese agricole che non si limitano alla
produzione dei combustibili ed al loro utilizzo aziendale, ma che attraverso
una forma organizzata - anche associativa - vende energia a terzi. Per
esemplificare potremmo fare il caso della cooperativa agri-energetica che
produce il carburante dalle colture energetiche coltivate dai soci e/o,
attraverso il digestore dei liquami zootecnici dei soci, produce il biogas.
Inoltre, attraverso i propri impianti produce e vende energia elettrica
immessa nella rete o ancora vende alla comunità locale l’energia termica
distribuita da una rete di teleriscaldamento. In questo caso l’impresa
agri-energetica completa il ciclo della filiera per massimizzare il valore
aggiunto, organizzando il processo, “coltivando” i combustibili, investendo
sulle tecnologie e sugli impianti, gestendo gli stessi, e vendendo l’energia
prodotta.
Per l’affermazione ed il successo delle imprese agri-energetiche, che
rappresentano a pieno titolo un esempio significativo della
multifunzionalità dell’agricoltura, sono necessarie politiche di promozione
e sviluppo, formazione e divulgazione, sostegno all’innovazione tecnologica,
incentivi fiscali.
Proprio nell’ultimo scorcio della legislatura che si è appena conclusa sono
state approvate alcune norme importanti per lo sviluppo del settore
agri-energetico. Innanzitutto sono confermati fino al 2013 gli incentivi
già in vigore per la produzione e la commercializzazione del bioetanolo,
dando continuità e certezza ad una filiera che non è ancora decollata.
Vengono, inoltre, attivate le cosiddette “obbligation” poste a carico dei
produttori di carburanti diesel e benzina. A partire dall’1 luglio 2006
questi produttori saranno obbligati ad immettere al consumo biocarburanti di
origine agricola sulla base di un’intesa di filiera o di un contratto quadro
o di un contratto di programma agri-energetico in misura pari all’1 % dei
carburanti diesel e della benzina consumati nell’anno precedente. Tale
quota, espressa in termini di potere calorifico inferiore, verrà ogni anno
incrementata di un punto fino al 2010 quando avrà raggiunto il 5 %.
Tali intese avranno rilevanza nazionale e saranno finalizzate a creare nuovi
impianti e nuova occupazione. Verrà data priorità ai contratti che
assicurano agli imprenditori agricoli una quota dell’utile conseguito, in
proporzione ai conferimenti della materia prima agricola. Verrà inoltre
assegnata la preferenza ai sottoscrittori di un contratto di coltivazione e
fornitura o di un contratto di programma che presenteranno istanze nei bandi
pubblici di finanziamento di progetti per la produzione delle energie
rinnovabili agricole. Analogo trattamento preferenziale verrà riservato agli
stessi soggetti che attiveranno contratti di fornitura di biocarburanti per
il trasporto e il riscaldamento pubblici. Non mancano infine incentivi per
la promozione, la ricerca e lo sviluppo di specie e varietà vegetali
destinate a scopo energetico mediante accordi tra le pubbliche
amministrazioni e i soggetti interessati.
Atteso da tempo è arrivato anche il riconoscimento dell’equiparazione del
biogas al gas naturale. Ciò significa che il biogas prodotto anche negli
impianti che utilizzano liquami zootecnici, frazioni vegetali e animali sarà
ora privo di accise se impiegato per il riscaldamento.
Per quanto riguarda la produzione di elettricità da biomasse e biogas
oggetto di intese, contratti o programmi di filiera, viene stabilita una
precedenza per una quota annuale del 30 % a valere sui “Certificati Verdi”,
cioè su uno specifico riconoscimento economico previsto per i produttori di
“elettricità pulita”.
Ultimo aspetto riguarda il riconoscimento della produzione di energia
termica da fonti agroforestali – compresi i pannelli fotovoltaici collocati
presso l’azienda - come attività agricola connessa e assoggettata al reddito
agrario qualora sia effettuata da un imprenditore agricolo.
Sono tutte misure che dovranno superare la prova della fattibilità. E in
ogni caso solo la costruzione di reali opportunità di reddito per gli
agricoltori è la chiave di volta per far crescere il settore agri-energetico
nel quadro di uno sviluppo sostenibile.

La modalità contrattuale tra pubblico e privato

La modalità contrattuale tra pubblico e privato è quella che meglio si
attaglia ad un agire economico delle imprese agricolo-rurali fortemente
impegnate sul fronte della responsabilità.

1) La legge sulla montagna.
Nelle aree montane esiste già una esperienza consolidata, vigendo dal 1994
una norma (art. 17 della legge n. 97) che prevede la possibilità di
appaltare lavori di manutenzione del territorio agli agricoltori. E che, in
caso di scambio di servizi tra soci di una stessa associazione, fa scattare
i benefici fiscali. Si tratta della prima enunciazione dell’impresa agricola
di servizi che, successivamente, coi decreti di orientamento trova il suo
compimento. Significative sono state le esperienze che in questi anni si
sono realizzate nei rilievi in virtù di questa legislazione antesignana, pur
tra le difficoltà dovute alla mancanza di coordinamento delle norme.

2) La legge di orientamento agricolo.
Ma è la legge di orientamento agricolo ad introdurre fin dal 2001 una nuova
normativa che finalmente riconosce anche all’impresa agricola la capacità di
produrre quel mix di beni e servizi che caratterizza le imprese di tutti i
settori economici. Inoltre, ha previsto la possibilità di individuare i
distretti rurali e agroalimentari di qualità ed ha messo a disposizione dei
sistemi locali strumenti amministrativi – come i contratti di promozione e
di collaborazione, nonché le convenzioni con gli operatori agricoli – per
realizzare la modalità distrettuale.
Coi nuovi strumenti pattizi tra pubblico e privato si potranno ricucire
meglio le fasi frantumate dei processi produttivi e le attività di servizio;
remunerarle se non lo fa il mercato. E si potrà superare l’inefficacia dei
provvedimenti imperativi e unilaterali nel perseguimento di finalità di
interesse generale. A tale proposito, va segnalato che si aprono nuove
prospettive anche in campo urbanistico, perché gli impegni assunti
contrattualmente dai soggetti privati possono diventare il criterio
regolatore nelle scelte di localizzazione all’interno delle aree rurali e la
leva più efficace per integrare, salvaguardare e valorizzare le risorse
naturali.
Tali innovazioni si sono inizialmente rivelate di difficile applicazione per
la mancanza di coordinamento con le norme previdenziali, assicurative e
fiscali. E il ritardo dovrebbe farci riflettere se davvero sia conveniente
rimanere in regimi normativi speciali o individuare nuovi strumenti
selettivi di sostegno della competitività delle imprese simili a quelli
operanti in altri settori.
Con le modifiche apportate nella Finanziaria 2004 al regime fiscale delle
imprese agricole per le attività di servizio i contratti e le convenzioni
tra la pubblica amministrazione e gli agricoltori sono ora operativi.
Bisognerà esaminare ancora solo alcuni aspetti particolari, quali l’esigenza
di adeguare i criteri di omologazione delle macchine agricole utilizzate
esclusivamente per le attività aziendali ed ora utilizzabili all’esterno, la
normativa delle agevolazioni sui carburanti, la regolazione dei rapporti di
lavoro.

3) Il Piano di Sviluppo Rurale della Regione Lombardia
La Regione Lombardia è stata tra le prime a recepire nella propria
legislazione le novità dei decreti di orientamento. Ed ha definito,
nell’ambito dei criteri e delle procedure per la concessione di contributi
finalizzati ai regimi di aiuti, quali le "misure forestali" e le
"sistemazioni idrauliche forestali", le forme di coinvolgimento delle
aziende agricole.
Esse, infatti, si possono attivare secondo due modalità: 1) indirettamente,
come affidatarie di lavori pubblici; 2) direttamente, in qualità di
beneficiarie di contributi, in particolare in quanto concessionarie a titolo
gratuito di terreni di proprietà pubblica. Per quanto riguarda la prima
modalità, la circolare regionale fornisce alle amministrazioni pubbliche gli
indirizzi a cui attenersi ai fini dell’affidamento dei lavori e mette a
disposizione degli enti pubblici che intendono avvalersi di imprese agricole
la modulistica necessaria. Per quanto concerne, invece, la seconda modalità,
viene definita la procedura da adottare nel caso in cui un’impresa agricola,
in assenza di un contratto d’affitto o di una concessione temporanea a
titolo gratuito dei terreni di proprietà pubblica, intenda eseguire
interventi selvicolturali finalizzati a miglioramenti ambientali e
paesaggistici su proprietà pubbliche.

4) I contratti tra Consorzi di Bonifica e agricoltori
Naturalmente anche i Consorzi di Bonifica, annoverati a pieno titolo tra le
"pubbliche amministrazioni", possono stipulare "in deroga alle norme
vigenti" contratti di appalto con gli imprenditori agricoli per affidare ad
essi lavori che rientrano nelle proprie competenze. Attraverso la
derogabilità, si può realizzare, infatti, quella "flessibilità" della
disciplina, necessaria per renderla adeguata alle esigenze specifiche delle
singole opere che si intendono affidare alle imprese agricole.
E’ dall’ottobre 2001 che l’ANBI ha predisposto uno schema di contratto che
si può adattare ai diversi casi che si possono presentare. Se l’opera che si
intende affidare è di una certa complessità tecnica, sarà necessaria la
progettazione vera e propria; se, invece, il lavoro consiste ad esempio
nello sfalcio di erbe, sarà sufficiente una semplice perizia. Ancora. Di
fronte ad un lavoro di importo significativo si potrà procedere ai pagamenti
attraverso stati di avanzamento; per un lavoro semplice e di importo modesto
il pagamento potrà avvenire a consuntivo. Inoltre, se il lavoro è di importo
considerevole si potrà chiedere la cauzione definitiva nella misura del 10
per cento; mentre se l’importo è di lieve entità sarà opportuno rinunciare
alla cauzione. Infine, se il lavoro, per le modalità di esecuzione, può
presentare rischi di danni a terzi, il Consorzio potrà richiedere la polizza
assicurativa; a tale polizza specifica potrà rinunciare se l’impresa è già
in possesso di una polizza a copertura generale dei rischi a terzi; nessuna
polizza sarà da richiedere se il rischio dei danni a terzi è insussistente e
irrilevante.
Pertanto, è rimesso al prudente apprezzamento dei Consorzi valutare di volta
in volta, a seconda della rilevanza tecnica ed economica del lavoro, nonché
delle modalità di esecuzione dello stesso, se procedere o meno a
progettazione, se richiedere cauzione, polizza assicurativa, se pagare per
stati di avanzamento o a consuntivo.
La sperimentazione di detto contratto ha dato esito positivo in diverse
Regioni e non sono state segnalate particolari difficoltà nell’adozione di
tale strumento. Tant’è che nella legislazione regionale sulla bonifica,
prodotta negli ultimi anni, si è recepita la nuova strumentazione, dandole
un più forte valore giuridico. Ad esempio, la legge regionale della Regione
Calabria, approvata nel luglio 2003, prevede espressamente all’art. 19 che
"i Consorzi possono stipulare convenzioni, ai sensi e con le modalità di cui
all’art. 15 del decreto legislativo n. 228/2001, con gli imprenditori
agricoli, di cui all’art. 2135 c.c., iscritti al Registro delle Imprese, in
particolare per realizzare attività ed opere di tutela e conservazione delle
opere di bonifica e del territorio". In tal modo, i Consorzi non solo
contribuiscono a rafforzare la multifunzionalità delle imprese agricole, ma
accrescono la loro rilegittimazione nei confronti dei consorziati.

5) Le aree protette
Anche gli enti parco possono stipulare contratti con gli agricoltori che
operano nelle aree protette per affidare loro compiti specifici di tutela
ambientale e di promozione della biodiversità. Il contratto-tipo elaborato
dall’ANBI potrebbe essere preso come riferimento e adattato alla realtà
delle aree protette.

6) La nuova società in agricoltura.
Nella logica negoziale tra pubblico e privato si potrebbero infine
annoverare anche le potenzialità dello strumento societario agricolo. Il
Decreto Legislativo 99/2004 ha previsto la possibilità per una società di
persone, di capitali o cooperativa, che abbia al suo interno la presenza di
almeno un imprenditore agricolo professionale, di godere di tutti i benefici
previsti per questa figura. Si tratta di un’opportunità notevole:
cooperative che potrebbero assumere la configurazione agricola aprendosi
agli agricoltori; operatori sociali e imprenditori che potrebbero dar vita a
società agricole; giovani e anziani che potrebbero unirsi in una forma
societaria per realizzare quelle attività che l’ anziano ha meno propensione
a svolgere; comuni ed altri enti, come le Ipab, che potrebbero apportare
terreni pubblici in fattorie sociali, entrando nella società e garantendo
così le finalità dell’impresa; fattorie sociali che potrebbero mettersi in
società con gestori di punti vendita o ristoro nei centri urbani e ricercare
insieme le forme per valorizzare i propri prodotti.
Ecco un modo concreto per integrare territori diversi, vincere distanze
fisiche e culturali che ancora appaiono insuperabili, trovare nuove
occasioni per l’accesso al capitale fondiario. Ecco come favorire la
collaborazione tra giovani che partono da una condizione di svantaggio e
anziani a cui si apre la prospettiva di continuare a valorizzare non solo i
terreni che possiedono, ma anche il proprio "saper fare". Ecco come
l’utilizzo produttivo dei terreni pubblici nell’ambito di programmi di
sviluppo locale potrà trovare in tal modo nuove possibilità di
realizzazione.

E per finire… una citazione!

“I sistemi di welfare vanno programmati ex ante insieme a qualsiasi idea di
azione economica o produttiva. Se decido di installare un impianto di
produzione di automobili, occorre decidere contestualmente quali variabili
di welfare devo considerare al fine di consentire a quell’impianto di
produrre il massimo della ricchezza collettiva e di generare il minimo dei
danni collettivi. Per variabili di welfare intendiamo: l’ambiente, la
cultura, i servizi sociali ed educativi, il sistema di relazioni sul
territorio, la crescita umana e di capitale sociale comunitario, la salute
dei cittadini. …… I sistemi di welfare quindi, vanno stabiliti ex ante
insieme alla programmazione pubblica dello sviluppo del territorio” (M.
Finizio, Dieci discorsi sul welfare).
Sviluppare le aree rurali rimodellando i sistemi di welfare è la condizione
per coniugare crescita economica ed equità sociale. Come abbiamo potuto
vedere, se si punta sulla multifunzionalità dell’agricoltura si potranno più
facilmente raggiungere entrambi gli obiettivi.