Presentazione del volume “Campagne urbane” (a cura di Anna L. Palazzo)
Campidoglio – Sala del Carroccio – 17 marzo 2006


Dobbiamo essere grati agli autori dei saggi raccolti nel volume “Campagne
urbane” ed in particolare alla curatrice Anna Palazzo per averci messo a
disposizione i risultati di una ricerca di straordinario interesse..
Sia per noi attori sociali, sia per i decisori politici, impegnati sui temi
dello sviluppo dell’area metropolitana di Roma, l’enorme messe di dati, di
analisi, di riflessioni e di ipotesi di soluzione dei problemi che in essa
sono racchiusi è materiale prezioso.
A mio avviso il pregio maggiore del libro è quello di aver posto con estrema
chiarezza l’esigenza di integrare le politiche di intervento economico e
sociale con le politiche di pianificazione territoriale.
Nell’introduzione di Anna Palazzo questo tema è affrontato in modo efficace.
Lo spazio agricolo e forestale – è detto - deve entrare realmente nella
categoria delle infrastrutture pubbliche di natura, ossia degli spazi di
interesse pubblico. Spazi su cui intervenire con politiche attive,
promuovendo la partecipazione degli attori sociali e la realizzazione di
progetti integrati di sviluppo.
Oggi sempre più si fa riferimento per la zonizzazione degli interventi di
sviluppo ai Sistemi Locali del Lavoro, che sono unità territoriali
intermedie tra i Comuni e le Province individuate dall’Istat in base ai dati
relativi agli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro e che sono
rilevati in occasione dei Censimenti generali della popolazione.
I Sistemi Locali del Lavoro rappresentano i luoghi della vita quotidiana
della popolazione che vi risiede e lavora. Si tratta di unità territoriali
costituite da più comuni contigui fra loro, geograficamente e
statisticamente comparabili. I Sistemi Locali del Lavoro sono uno strumento
di analisi appropriato per indagare la struttura socio-economica dell’Italia
secondo una prospettiva territoriale.
E’ già la terza volta che l’Istat individua i Sistemi Locali del Lavoro.
Ebbene, in questi elaborati Roma è inserita in un Sistema Locale del Lavoro
che progressivamente viene sempre più a coincidere con l’intera Provincia.
E’ dunque questa l’area metropolitana di Roma. Un’area interessata da un
moto ondulatorio dell’andamento della popolazione residente nella Capitale.
Tra il 1991 e il 2001 vi è stato un calo di residenti da 2.730.000 a
2.545.000. Non sappiamo quante persone delle 185 mila che sono mancate
all’appello nel 2001 avevano spostato la residenza nell’hinterland; ma si
può facilmente supporre che fossero tante.
Al gennaio 2005 si è, invece, registrato un recupero. I residenti sono,
infatti, di nuovo saliti a 2.690 mila, con un aumento di 150 mila persone,
accanto all’ulteriore crescita dei Comuni più grandi della Provincia.
Per il 2015 il Censis stima un numero sempre più elevato di residenti fino a
toccare il tetto di 2.750 mila: 60 mila persone in più a cui si
aggiungeranno le decine di migliaia di residenti in più a Fiumicino, Tivoli
e Velletri.
Un’area metropolitana nei fatti, ma che ancora non viene riconosciuta
nell’assetto istituzionale, tant’è che è stata coniata per Roma
l’espressione di “metropoli senza area metropolitana”, che riprende e
aggiorna quella secolare di “città senza contado”. Quello che esisteva, in
realtà era infestato dalla malaria.
Anna Palazzo racconta come nel 1804 si attribuì una porzione dell’Agro
Romano al Comune di Roma e come, nonostante questa misura, non si attivasse
alcuna forma di solidarietà strutturale tra città e contado che
caratterizzava invece altre realtà italiane.
Oggi invece l’area metropolitana di Roma mostra una forte interazione tra
territori urbani e campagne. Il part-time presente nell’agricoltura romana
concorre a determinare quella mobilità che, come ha scritto Claudio Cecchi
nei suoi studi sui sistemi locali rurali, “appare essere un potente
indicatore della capacità della località di mantenere al suo interno una
quota consistente di risorse umane”.
I contributi di Biancamaria Rizzo, che compongono il volume che qui si
presenta, ci spiegano, con dovizia di argomenti e in modo convincente, come
la tipologia della Campagna Romana, più che alla “campagna urbanizzata”,
espressione con cui Giacomo Becattini definisce gli spazi agricoli dei
distretti industriali, si avvicini invece al “paesaggio della diffusione”.
Una tipologia che di rurale conserva ben poco. Qui le funzioni di tipo
urbano sono mescolate a quelle rurali. E le logiche socio-economiche,
culturali e urbanistiche sono quelle di tipo urbano.
Tale esito è il risultato non solo della disordinata espansione urbanistica,
ma anche della metamorfosi di un territorio che, da mosaico di aree a
diverso grado di specializzazione, si va trasformando in un sistema
territoriale che presenta i caratteri della multifunzionalità.
L’evoluzione della Pac sta contribuendo enormemente a determinare tale
condizione, se si guarda soltanto alla forte riduzione del patrimonio
zootecnico.
Tale cambiamento è ulteriormente analizzato da Elena Battaglini, specie dal
versante sociologico.
Le trasformazioni avvenute nella Campagna Romana hanno generato nuove
figure di imprenditori rurali-urbani e specifici stili di gestione aziendale
che integrano comportamenti tipicamente urbani.
Vi è da chiedersi se anche questi mutamenti siano il frutto dell’azione
dissolvente esercitata dalla nuova modernità post-industriale nei confronti
delle rappresentazioni e dei miti della prima modernità.
In realtà, se esaminiamo attentamente l’evoluzione sociale della Campagna
Romana, notiamo che il mito della città quale luogo della crescita economica
e del potere non pare messo in discussione.
Mentre si esalta il mito urbano della crescita, si idealizza contestualmente
la campagna come ambiente più salubre, più plasmabile e fondato su reti
relazionali meno spersonalizzanti. Un mito che ha conquistato anche i
cittadini romani.
I miti sono forza trainante nei cambiamenti sociali. Ebbene, la crescente
domanda di ruralità, se da una parte non significa rinnegare il mito urbano,
che continua invece ad essere esaltato, contiene al suo interno un implicito
bisogno di socialità.
Si cerca la campagna perché in essa si intravede la possibilità di entrare a
far parte di una cerchia di persone e di cose conosciute, affidabili.
In campagna si ritrova con maggiore compiutezza una comunità, dove tutti si
riconoscono e la comprensione è reciproca; dove si può contare sugli altri
in modo gratuito e senza necessariamente competere per avere accesso a
risorse e servizi; dove si possono gestire relazioni con tranquillità e
sicurezza.
E questa appropriazione degli aspetti positivi della campagna avviene senza
abbandonare le opportunità offerte dai lati migliori della condizione
urbana, quali l’individualità e la libertà.
In questo tentativo costante di trovare un equilibrio tra ricerca della
comunità e tutela dell’individualità, tra senso di appartenenza e
salvaguardia degli spazi personali di libertà, si riscontra una sorta di
comunanza di vedute, di identità, direi di solidarietà, tra coloro che
restano ad abitare nei quartieri cittadini e ricercano la ruralità solo in
quanto consumatori di un bene o utenti di un servizio, e i nuovi
rurali-urbani, che vivono o vanno a vivere la campagna adottando uno stile
di vita che si avvicina di più a quello di tipo urbano, cioè più rispettoso
dei valori individuali e di libertà.
Coltivare queste attrattive reciproche tra i cittadini che vivono nei
quartieri e quelli che vivono in campagna è una condizione per rafforzare le
relazioni e gli scambi nell’area metropolitana romana.
Si tratta, dunque, di rispettare quel mix di urbano e di rurale che rende
gradevole e affascinante lo stare insieme.
Ma occorre chiarire un aspetto su cui spesso si fa confusione. L’incanto non
cresce aumentando il tasso di ruralità, magari riproponendo stili
architettonici, usanze o modalità di produzione che gli uomini e il tempo
hanno provveduto a rimuovere. Anzi c’è il rischio che l’incanto si rompa se
la ruralità si dovesse avvertire come un artificio privo di autenticità.
E questo pericolo è sempre dietro l’angolo se la percezione della ruralità
resta affidata esclusivamente all’offerta di prodotti tipici o di servizi
agrituristici.
La tipicità di un prodotto e l’ospitalità in campagna alimentano senza
dubbio una componente relazionale, ma vengono richieste ed offerte come se
fossero beni posizionali, cioè nella logica del consumo vistoso di beni
limitati.
Questo paradosso potrebbe alla lunga intaccare l’autenticità dell’offerta di
beni legati alla ruralità, qualora non si dovessero sviluppare anche quelle
attività che generano veri e propri beni relazionali.
Si tratta di quelle attività agricole in grado di tutelare e promuovere i
valori ambientali, il paesaggio agrario e il patrimonio storico e
archeologico, ma anche di rafforzare le reti di protezione sociale e
rivitalizzare i valori della reciprocità, del mutuo aiuto e della
solidarietà che sono tipici dell’agricoltura.
L’attività agricola è in grado di generare benefici di carattere terapeutico
e riabilitativo nei confronti di soggetti svantaggiati. Questa peculiarità è
sempre esistita. L’estrema differenziazione delle attività e il contatto con
le piante e con gli animali fanno dell’agricoltura il settore produttivo più
adatto ad innescare processi sociali inclusivi.
Nel linguaggio corrente vengono definite disabili quelle persone che sono
accomunate dall’assenza o dalla insufficienza di una o più “abilità”. Ma
questa accezione negativa della disabilità si accentua man mano che si passa
dalla società rurale alla società urbana e industriale.
L’agricoltura contadina tradizionale non conosceva la “disabilità”, almeno
nei termini in cui la conosciamo noi. Quella agricoltura era in grado di
trovare una mansione, un ruolo per tutti i componenti della famiglia
contadina.
L’agricoltura può tornare a svolgere in forme moderne e con l’aiuto della
scienza una funzione sociale che ha sempre avuto. Nel campo della disabilità
in primo luogo, ma anche nella cura degli anziani non autosufficienti, nelle
situazioni di dipendenza, tra i condannati a pene detentive.
Conoscenze mediche e conoscenze agronomiche vanno integrate per ottenere
risultati di benessere sempre più lusinghieri.
L’agricoltura sociale può così contribuire in modo significativo ad
accrescere conoscenza contestuale e dare sostanza alla ruralità della
Campagna Romana.
E’ sempre Cecchi a distinguere un sistema locale urbano da uno rurale non
già in base ad astratti parametri economici, bensì in virtù della capacità
dell’agricoltura di essere parte fondante della conoscenza contestuale.
L’agricoltura romana dovrà sapersi collegare ai centri di ricerca e alle
università, che a Roma sono presenti in misura significativa, per
contribuire all’incremento del capitale sociale ed all’innovazione
nell’intero sistema metropolitano.
Nei prossimi 10 anni a Roma gli anziani aumenteranno del 20 %; saranno 65
mila in più e 17 mila saranno non autosufficienti. I bambini e gli
adolescenti aumenteranno del 18 %.
Le fattorie sociali potranno essere un luogo ideale dove prendersi cura di
queste persone. Ludoteche, asili nido, centri didattici, di educazione
ambientale e alimentare, di trasmissione dei saperi da parte degli anziani
ai ragazzi, potranno moltiplicarsi negli spazi agricoli, diversificando le
attività delle imprese.
Per generare benefici sociali l’attività agricola deve essere reale e non
finta. Essa va svolta come una normale attività d’impresa in aziende che
producono beni e servizi per il mercato.
L’agricoltura romana dovrà, pertanto, essere considerata a pieno titolo
negli strumenti di programmazione dello sviluppo rurale. E’ una scelta che
l’Assessore regionale Daniela Valentini ha già annunciato. Una opzione
coerente con la legge regionale sui distretti rurali che – per iniziativa
dello stesso Assessore – prevede la possibilità di comprendere in tali
ambiti anche le aree agricole periurbane.
Tutto questo va integrato con le scelte degli strumenti urbanistici e dei
piani di assetto delle aree protette.
Anna Palazzo richiama con condivisibile ottimismo la Convenzione europea del
paesaggio. Essa traccia un percorso che rende possibile la prospettiva di
una interazione tra politiche di sviluppo e politiche territoriali. Infatti,
recupera e attualizza in modo efficace la concezione che pervade gli studi
storici di Emilio Sereni sul paesaggio agrario. Un pensiero, il suo, attento
a cogliere e misurare le tracce di una permanenza storica, ma anche ad
accettare il corso di una trasformazione che si vuole produttivamente
orientata.