Relazione all’incontro di insediamento del Gruppo di Lavoro "Agricoltura" dei Ds di Roma (27 luglio 2005)

Ho accettato volentieri l’incarico di "Responsabile Agricoltura" della Federazione romana dei Ds perché considero l’attivazione  del complesso di funzioni che il settore primario può svolgere nella città di Roma, nel suo duplice ruolo di Capitale d’Italia e di snodo pregiato nell’ambito della rete delle grandi metropoli euromediterranee, una sfida culturale e un terreno stimolante di iniziativa politica.

E’ un bene che il nostro partito abbia deciso di occuparsi di tale questione in prima persona e di farne  una delle priorità della propria impostazione programmatica. Potremo così  confrontarci alla pari e senza soggezione con altre forze politiche del Centrosinistra.

Sono convinto che il futuro di Roma e lo sviluppo sostenibile della sua provincia dipenderanno molto dal dialogo aperto e paritario che riusciremo a promuovere tra le aree urbane e i territori rurali, individuando nuove opportunità per le imprese agricole, nuovi bisogni dei cittadini, possibilità di crescita dei sistemi territoriali  e terreni inediti d’iniziativa programmatoria e gestionale delle istituzioni ai diversi livelli di governo.

Per dare un nuovo e più forte impulso a questo processo politico, occorre un’elaborazione collettiva che coinvolga l’insieme delle nostre forze presenti nel partito e nelle istituzioni; susciti il contributo del mondo scientifico; si avvalga delle competenze e promuova il confronto con le organizzazioni economiche e sociali.

Mi limiterò ad offrire alcuni spunti di riflessione.

A settembre organizzeremo incontri tematici per approfondire le diverse problematiche. E successivamente, in vista della Conferenza programmatica del partito romano, terremo un’iniziativa pubblica per presentare un ventaglio coerente di proposte.

Ovviamente non partiamo da zero.

Nei dodici anni di buon governo delle amministrazioni di Centrosinistra la gran parte del  territorio agricolo è stata salvaguardata da altre destinazioni. Roma ha così potuto conservare il primato europeo di Comune che vanta la più vasta estensione di campagna e di verde urbano.

Tra il 1990 e il 2000 la superficie agricola è passata da 81.968 ettari a 51.729, le aziende agricole da 5.139 a 1.893 e gli occupati a vario titolo nel settore primario da 14.010 a 4.639.  Se consideriamo le grandi trasformazioni che sono avvenute nella città, è un successo aver conservato nel perimetro comunale una campagna ancora vitale e produttiva.

Il Piano delle Certezze e la messa in salvo di una consistente quota della Campagna Romana nelle Aree Protette sono state le scelte che hanno determinato tale risultato.  Pieno è stato il coinvolgimento delle forze ambientaliste e delle organizzazioni agricole attraverso il metodo della concertazione che caratterizza il modello di governo di Roma.

La stessa cosa è avvenuta nei Comuni della provincia che amministriamo.

Durante l’intervallo censuario, nella Provincia di Roma la superficie agricola è passata da 358.177 ettari a 287.544, le aziende da 71.800 a 59.950, le giornate di lavoro sono scese da 9.573.167 a 5.840.708. La crudezza di questi dati ha potuto ingenerare l’idea di trovarci dinanzi ad un declino ormai inarrestabile del settore.

Non è affatto così.  L’agricoltura, la silvicoltura, la pesca marittima e quella nelle acque interne della provincia di Roma rappresentano un terzo della ricchezza prodotta dal complesso agricolo e ittico laziale, ponendosi al primo posto tra le cinque province del Lazio. Se si leggono bene i processi in atto e i dati sulla scomposizione e ricomposizione delle aree di specializzazione produttiva, notiamo che la provincia di Roma contribuisce in modo determinante ad assicurare la vitalità delle principali filiere agroalimentari  e ittiche regionali.

Guardando poi la realtà in una dimensione intersettoriale, possiamo facilmente verificare che il tessuto economico-produttivo delle campagne non si è affatto indebolito e presenta una ricchezza sociale che può contribuire enormemente a spostare i livelli competitivi dei diversi territori.

Oggi l’agroalimentare vive una situazione pesante. Soffre le conseguenze di una flessione strutturale della redditività, non solo della produzione primaria, ma anche del segmento industriale e, nel 2004, per la prima volta, anche della grande distribuzione. E’ investito da gravi emergenze sanitarie e ambientali. Ultima, drammatica quella della Valle della Sacco. Subisce le ricadute perverse del calo dei consumi, dell’aumento dei prezzi per le famiglie e della compressione dei prezzi per i produttori. Il settore della pesca è in questi giorni alle prese con l’impennata del prezzo del gasolio e con modifiche profonde che si preannunciano nella politica comunitaria. Ma non siamo al declino. Vi è una base produttiva che conserva un suo dinamismo imprenditoriale. E vi un’evoluzione dei consumi alimentari verso prodotti con valore aggiunto, etici, salutistici e dietetici. Una domanda variegata alle aziende agricole di servizi nuovi: ambientali, culturali, sociali.

C’è però da ricucire culturalmente, prima ancora che dal versante economico, un rapporto tra i nuovi e più complessi bisogni delle città e le attività che si svolgono nelle aree rurali, oggi separati nelle loro dinamiche di sviluppo dal modo caotico e spesso illegale con cui è avvenuta la crescita.

Per farlo bisogna coinvolgere l’insieme dei sistemi produttivi, le reti distributive, l’ospitalità turistica, i centri di produzione e gestione della conoscenza, il mondo della creatività artistica. Vanno infranti stereotipi culturali, abbattute barriere cognitive, diffuso un sapere scientifico che riguarda anche il livello tecnologico raggiunto dall’agroalimentare.

Le dimensioni ridotte delle imprese agricole, il peso significativo assunto dalle imprese al femminile, la loro prevalenza nelle attività di diversificazione aziendale, la diffusione del part-time e la sovrapposizione di attività non più strettamente agricole ma legate ad una più vasta economia rurale non vanno affatto considerate anomalie negative, fattori di debolezza e di arretratezza, come una visione industrialista dell’agricoltura ha preteso in passato. Ma diventano opportunità e punti di forza da giocare in una riorganizzazione moderna delle campagne, basata sulle reti di imprese, le economie di scopo, la valorizzazione del capitale umano e sociale, l’armonizzazione di risorse come il tempo e lo spazio, la sussidiarietà orizzontale e la responsabilità sociale d’impresa.

Questa visione integrata dello sviluppo territoriale comincia ad affermarsi.

Il Consiglio provinciale, ad esempio, ha approvato una mozione presentata dal nostro Gruppo che impegna il Presidente a promuovere iniziative per esercitare il ruolo di coordinamento di area vasta della Provincia soprattutto per quanto riguarda il territorio del litorale romano con azioni di sostegno per le attività economiche e formative in una logica integrata.

Il nuovo corso avviato alla Regione da Daniela Valentini, con la scelta di puntare ad una programmazione dello sviluppo dell’agricoltura proiettata sul medio e lungo periodo, ci permette ora di proporre una strategia complessiva di rilancio economico e sociale dei territori della provincia di Roma in cui il settore primario possa esprimere tutte le proprie potenzialità.

La priorità assegnata da Daniela alla definizione del nuovo Piano di Sviluppo Rurale (PSR) della Regione Lazio e le linee guida di rilancio del settore - su cui è aperto il confronto al Tavolo Verde - sono riferimenti essenziali della nostra riflessione. Il coinvolgimento di tutte le componenti dell’agroalimentare, l’apertura del Tavolo Blu con le organizzazioni della Pesca, i primi approcci con il mondo venatorio sono segnali di una nuova musica alla Regione Lazio: grande apertura al dialogo coi soggetti sociali e nello stesso tempo determinazione e concretezza nell’aggredire i problemi.

Ma per una forza politica come la nostra dov’è lo snodo da cui partire per abbozzare un disegno teso a conseguire un consenso strategico da parte dell’insieme dei protagonisti che sono diversamente in campo nei territori e nei sistemi produttivi?

A parer mio ha poco senso parlare di filiere agroalimentari, di distretti, di integrazione tra aree urbane e territori rurali, di multifunzionalità in una provincia che ha nel proprio ambito  una metropoli come Roma facendo astrazione dal ruolo che quest’ultima  potrebbe svolgere.

Andiamo ripetendo che, nel mondo globalizzato, sempre di più le città e non gli Stati avranno un ruolo non soltanto simbolico, ma concreto, produttivo. In esse è accumulato quel dinamismo culturale in grado di attirare in misura rilevante gli ingredienti essenziali per vincere nella competizione globale.

Se Roma deve diventare la capitale del dialogo  tra le diverse culture mediterranee, il centro nevralgico dove condividere una visione differenziata, la cerniera tra il Nord e il Sud del mondo, a questa missione occorre fare riferimento nel tratteggiare le linee di sviluppo dei territori della provincia.

Ci vogliono anni per conquistare tale primato. Ma l’obiettivo deve essere condiviso in partenza per integrare coerentemente le azioni di sviluppo in base ad un approccio-mondo, per coinvolgere diversamente ma globalmente i territori nella promozione di un modello che dobbiamo individuare.

Roma è l’unica metropoli euromediterranea il cui sistema urbano può integrarsi con diversi territori rurali potenzialmente competitivi. Ma quale modello di sviluppo rurale, di creazione del valore è in grado di promuovere qualità ambientale e qualità sociale in un’area come quella romana?

Prioritaria è una strategia di lotta all’abbandono degli spazi agricoli per contrastare una loro utilizzazione in attività incoerenti col tessuto rurale.

Le previsioni demografiche ci indicano che la popolazione crescerà ancora. Dunque,  il tema dell’uso degli spazi e del governo del territorio diventerà ancora più dirimente.

Ricucire, aggregare, consolidare processi socioeconomici sarà la sfida permanente nel prossimo futuro. Non bastano i vincoli urbanistici e la mera tutela naturalistica, che finora sono serviti a "limitare i danni". Bisogna rendere produttivi gli spazi agricoli, con attività imprenditoriali sostenibili, se vogliamo davvero difenderli.

Il ricambio generazionale nelle imprese agricole e l’inserimento dei giovani in nuove attività agricolo-rurali dovranno costituire l’impegno prevalente di istituzioni, organizzazioni giovanili, mondo della cooperazione.

Incubatori d’impresa, servizi per l’impiego, formazione, miglioramento della qualità del lavoro diventano strategici. Anche per gestire i flussi immigratori.

Molti considerano un limite il fatto che gran parte dei lavoratori extracomunitari trovi occupazione in agricoltura. Sarebbe indubbiamente esecrabile se tale impiego si dovesse accompagnare a fenomeni di sfruttamento. Ma se l’inserimento lavorativo e la creazione di nuove imprese in agricoltura  sono gestiti responsabilmente, l’inclusione nel mondo rurale di chi proviene da paesi ad economia prevalentemente agricola non è un ripiego, ma un’ occasione di vera integrazione ed anche un modo per attutire impatti culturali, straniamenti.

Lo forma societaria specifica per l’agricoltura, introdotta recentemente nell’ordinamento, apre inedite prospettive. Giovani e anziani potrebbero unirsi in una forma societaria qualsiasi per realizzare quelle attività che l’imprenditore anziano ha meno propensione a svolgere. In questo modo si favorirebbe la collaborazione tra giovani che partono da una condizione di svantaggio e anziani a cui si riapre la possibilità di valorizzare non solo i terreni che possiedono, ma anche il proprio "saper fare".

Oppure Comuni e Università Agrarie potrebbero  conferire terre pubbliche in aziende agricole condotte da giovani, entrando direttamente nella compagine societaria e garantendo in questo modo le finalità dell’impresa a cui si dà vita. 

Ecco un modo nuovo per superare gestioni in perdita come quelle  che si registrano   nelle aziende pubbliche di Castel di Guido e della Tenuta del Cavaliere, che la Regione si appresta a vendere al Comune di Roma.

Con il meccanismo della compensazione edificatoria i comuni acquisiranno in futuro nuove aree agricole, che si aggiungeranno a quelle  di proprietà delle Ipab o affidate in gestione alla società Gepra.

Ebbene, la costituzione di imprese in forma societaria potrebbe essere la formula per assicurare gestioni efficienti e resistere a pressioni che si faranno sempre più insistenti per ottenere cambi di destinazione.

Il rafforzamento dell’imprenditoria femminile,  presente in modo determinante nelle attività innovative, è l’altra priorità per garantire una diffusione di aziende agricole nella produzione d’eccellenza e  nella prestazione di servizi, scongiurando anche in tal modo fenomeni di abbandono.

La disponibilità di nuovi strumenti contrattuali – anche questi un frutto recente della legge di orientamento agricolo per poter regolare i rapporti tra gli imprenditori agricoli e la pubblica amministrazione, dalle Comunità montane ai Comuni, dai Consorzi di bonifica agli Enti Parco, dalle Asl alle aziende ospedaliere - apre finalmente la strada al riconoscimento di funzioni pubbliche svolte dalle aziende agricole, come la salvaguardia   del paesaggio rurale, la manutenzione dei giardini delle ville storiche nonché degli orti botanici, la gestione delle acque,  la tutela e la valorizzazione delle risorse faunistiche, la produzione di energia, la promozione del territorio. E rende possibile anche l’offerta di servizi culturali, educativi, assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio di soggetti deboli. E’ il progetto delle Fattorie Sociali in collaborazione con il Terzo Settore, a cui sta dedicando un’attenzione particolare Tiziana Biolghini alla Provincia.

Impegno etico-sociale e agricoltura darebbero così  vita ad un binomio che contribuirebbe in modo sostanziale a riqualificare il welfare locale.

Quello esistente ha un carattere riparativo degli squilibri prodotti dall’economia fordista ed è concepito esclusivamente per i contesti urbani in una logica di concentrazione dei servizi e degli interventi. Pertanto, esso si è rivelato inadatto alla realtà delle campagne, la cui peculiarità è il carattere diffuso degli insediamenti.

Ma oggi, la scarsità di risorse pubbliche disponibili induce a sperimentare un welfare rigenerativo, fondato su imprese economicamente e finanziariamente sostenibili e capace di rivitalizzare l’autenticità delle risorse rurali per soddisfare i bisogni reciproci che legano città e campagna.

L’evidente necessità di far convergere nei territori misure a sostegno degli investimenti aziendali e infrastrutturali, interventi formativi e tecnologici, diffusione di sistemi di qualità, servizi sociali alle persone e alle famiglie, riconoscimento di funzioni ambientali suggerisce una impostazione del nuovo PSR  secondo la logica della programmazione integrata. Si tratta di superare il tradizionale modello dell’intervento pubblico a domanda, basato su bandi emanati per singola misura. L’uso coordinato di più misure risponde al bisogno di partecipazione sociale alle azioni di sviluppo e consente una più elevata attenzione alle specificità locali.

L’estrema differenziazione dei modelli territoriali richiede un sistema di governance flessibile, in grado di comporre a livello locale conflitti ed interessi mediante processi di autoregolamentazione negoziale in grado di aderire alle vocazioni territoriali e nello stesso tempo di "fare sistema".

E’ per questo che i percorsi distrettuali dovrebbero svilupparsi dal basso  separando la fase dell’individuazione dei distretti da quella del riconoscimento. E’ qui, infatti, che le iniziative dell’Azienda Romana Mercati, i Patti territoriali, i Gusti del Lazio, le Strade dell’Olio e del Vino, i progetti dei Consorzi di Bonifica, dei Parchi naturali e di altre agenzie di sviluppo potranno trovare una sede di verifica e di condivisione.

Andrebbe valutata l’opportunità di prevedere, accanto ai Distretti rurali e agroalimentari di qualità, anche Distretti "r-urbani", per organizzare le funzioni di snodo delle aree intermedie, a cavallo tra l’area metropolitana di Roma e i territori rurali della Regione.

Inoltre, occorrerebbe far dialogare gli strumenti di programmazione degli interventi socio-economici con quelli di pianificazione territoriale. Nei Piani regolatori generali andrebbero previsti anche per le aree agricole piani particolareggiati per consentire quelle flessibilità necessarie alla realizzazione dei progetti integrati e dei piani di assetto delle aree protette.  E per tener conto del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, entrato in vigore il 1° maggio 2004, che estende a tutto il territorio – sia gli spazi naturali che quelli rurali, urbani e periurbani, sia le acque interne che marine, sia le aree di pregio che quelle degradate – la rilevanza paesaggistica e dunque la tutela attiva. Una rivoluzione copernicana che, ribaltando una concezione minimale del paesaggio, permette la predisposizione di strumenti urbanistici volti a valorizzare le attività agricole e gli insediamenti rurali.

Andrebbe altresì verificata la possibilità di combinare decentramento, semplificazione amministrativa e sussidiarietà orizzontale per ottenere risultati tangibili in termini di efficienza e rapidità della spesa pubblica.

L’istituzione dell’Organismo Pagatore Regionale, ad esempio,  per gestire non solo i flussi finanziari comunitari ma l’insieme degli interventi verso gli agricoltori, in convenzione con i Centri di assistenza agricola, garantirebbe senz’altro una razionalizzazione dell’intervento pubblico in agricoltura.

Sul versante dell’agroalimentare occorre interrogarsi su quale modello di catena di creazione del valore del prodotto agricolo dobbiamo puntare. Dovremmo scegliere un modello di reti di imprese (l’impresa agricola, l’impresa industriale, la marca) indipendenti e interdipendenti, un modello che si afferma in quanto crea e distribuisce valore alle reti. L’approfondimento delle recenti crisi industriali conferma la cooperazione come un modello che rende protagonista l’impresa agricola e restituisce valore al prodotto agricolo.

Essa va perciò sostenuta nel suo percorso di riposizionamento nel "mercato-mondo".

La performance del nostro sistema produttivo riguardo all’export - la capacità cioè  di portare il prodotto agricolo presso nuovi consumatori - è solo un aspetto dell’"approccio-mondo". E’ il canale tradizionale a cui abbiamo finora guardato in modo pressoché esclusivo e che ora dobbiamo saper integrare con il nuovo approccio.

Oggi infatti la competizione si è spostata sui sistemi. Ecco perché non ha senso distinguere e separare una politica per l’agricoltura multifunzionale e lo sviluppo rurale rivolta  prevalentemente ai mercati locali da una politica per l’agroalimentare che guarda al "mercato-mondo".

Occorre "replicare" nei nuovi mercati il modello di impresa più consono alla valorizzazione delle risorse locali, con un indubbio vantaggio per  tutti  i soggetti. In gioco non ci sono solo i prodotti, ma le tecnologie, l’economia della conoscenza, i saperi diffusi, i modelli organizzativi di riproduzione dei valori che sottendono la tipicità dei prodotti.

La prospettiva della Centrale del Latte di Roma è tutta dentro questa sfida.

La scelta lungimirante del Comune di Roma di privatizzare l’azienda ha consentito non solo di risanare e rendere efficiente la gestione, ma anche di salvaguardare un marchio percepito dai cittadini come garanzia di origine, qualità e freschezza del latte.

La possibilità per i produttori di acquisire la società dipende dalla capacità

del governo di assumere decisioni strategiche di interesse nazionale per evitare che, in occasione della prossima quotazione in borsa della nuova Parmalat, il settore lattiero-caseario subisca una destrutturazione a tutto vantaggio delle imprese estere. Il gruppo Granarolo – che è appunto dei produttori - ha tutti i numeri per acquisire il gruppo di Collecchio. Ma occorre escludere la cooperazione dai vincoli stabiliti dall’Antitrust, come avviene negli Stati Uniti e in Francia, e sostenere i suoi progetti di sviluppo con una adeguata strumentazione finanziaria.

Non si tratta di accordare preferenze e operare discriminazioni, ma di individuare un modello che si regge sul protagonismo dei produttori, sulle loro cooperative di base, sui valori territoriali e ambientali, e che può essere "replicato".

Anche la grande distribuzione deve rivedere le proprie strategie. Carrefour già opera col nuovo approccio-mondo. Attraverso la "replicazione" dell’impresa commerciale (e del modello) esporta alimenti dell’industria alimentare e anche prodotti agroalimentari del suo paese d’origine.

E’ auspicabile che Coop Italia trovi il modo per "fare sistema" con la cooperazione agroalimentare e con l’agroindustria privata. La rete commerciale romana può farsi portatrice di tale esigenza. Così mentre, da una parte, deve puntare a valorizzare i prodotti agricoli laziali, dall’altra, deve contribuire a costruire un modello di rete esportabile.

La  missione internazionale di Roma si realizza se nel mondo dialogano reti di imprese, sistemi territoriali, reti distributive e distretti ittici, se si "replicano" modelli di imprese industriali e di distretti rurali, se si attuano progetti di cooperazione decentrata allo sviluppo.

Ma tale funzione  va issata sul rafforzamento del ruolo di Capitale.

Roma, ad esempio, non ospita un evento fieristico legato all’agricoltura a livelli comparabili con quelli di Parigi o di Berlino; non svolge cioè la funzione di capitale dell’agricoltura italiana, sintesi e vetrina delle cento Italie agricole.

Questa lacuna andrebbe in qualche modo colmata.

Nel nuovo sito di Ponte Galeria andrebbe perciò allestito, una volta all’anno, il Salone Internazionale dell’Agricoltura, con il coinvolgimento della Fiera di Verona, di Cibus, della Fiera del Levante, del sistema camerale e delle Regioni del bacino del Mediterraneo.  Si tratta di pensare ad un evento che sia momento di attrazione di tutto il Paese e dove i cittadini possano ricongiungersi con le propri radici culturali, dove soprattutto le nuove generazioni possano toccare con mano il progresso tecnologico conquistato dal nostro sistema agroalimentare, rifuggendo da visioni bucoliche e passatiste.

Sul versante della memoria storica va ricordato che Roma è sede delle più importanti biblioteche specializzate nel settore agricolo: da quella del Mipaf a quelle dell’Inea e della Fao. Sarebbe importante  favorire un coordinamento di queste strutture, da cui lanciare un’attività multimediale per far conoscere la storia della nostra agricoltura. Lodevole, in tale quadro, è senz’altro l’iniziativa  "I solchi", organizzata nei mesi scorsi dalla Biblioteca del Mipaf e dall’Agrisian, nel cui ambito studiosi di accertato valore hanno rievocato il pensiero e l’azione di una dozzina di personaggi della storia dell’agricoltura degli ultimi due secoli, da Jacini a Medici, da Serpieri a Sereni.

Roma per essere Capitale dovrebbe, inoltre,  presidiare il sistema delle Regole internazionali. La lotta alla povertà e alla fame nel mondo vede la Città protagonista di primo piano.  Walter Veltroni ha legato si può dire la sua immagine pubblica a questa causa. Un importante sviluppo di questo impegno potrebbe essere una presenza nelle problematiche del WTO, occupando uno spazio di alta politica estera dove i sistemi cosiddetti "r-urbani" potrebbero impostare strategie di opportunità. E dove noi potremmo  svolgere una importante funzione non solo di contrasto alle contraffazioni, ma soprattutto di diffusione e integrazione delle diverse culture della qualità legata al territorio in una logica di espansione dei diritti. In questo senso il ruolo di grande vetrina dei prodotti tipici che Roma può assolvere acquisterebbe un dimensione politica e culturale che va oltre la mera promozione economica.

Un programma per Roma Capitale è tutt’uno con un programma di governo del Paese che concepiamo come rilancio della crescita e della competitività, internazionalizzazione del sistema produttivo, potenziamento delle infrastrutture materiali e digitali, accrescimento degli investimenti in ricerca, formazione e conoscenza.

La ricerca scientifica, la formazione e i servizi consulenziali di sviluppo agricolo e rurale costituiscono quel triangolo della conoscenza senza il quale questo disegno che ho tentato di evocare non ha alcuna possibilità di reggersi. Un triangolo che oggi appare del tutto sbrindellato a causa di una politica del centrodestra che ha favorito il disinvestimento e la smobilitazione. Urge un impegno straordinario per rinforzare e ricucire questi tre pilastri. Si tratta di convogliare risorse umane e finanziarie, mutando radicalmente il rapporto tra produzione di valore e produzione e gestione della conoscenza e applicando il principio di cooperazione tra i diversi soggetti competenti, per poter  assicurare la messa in opera dell’obiettivo comune di produrre e diffondere le innovazioni.

 La provincia di Roma è certamente la capitale della ricerca e della sperimentazione in agricoltura. Qui operano 6 sedi centrali e 3 sedi periferiche di prestigiosi Istituti di sperimentazione agraria. Qui si concentrano centri di ricerca e laboratori scientifici nell’agroalimentare che costituiscono l’eccellenza del Paese. Alla Casaccia opera la più strutturata unità tecnico-scientifica pubblica italiana impegnata sul fronte delle biotecnologie, della protezione della salute e degli ecosistemi, a cui fanno riferimento oltre 250 ricercatori. Qui opera presso il CNR il Dipartimento per la ricerca nell’agroalimentare che coordina una rete di 570 ricercatori. Nelle tre università pubbliche e in quelle private si svolgono attività pregiate di ricerca e di alta formazione nel settore.

Anche il comparto  della pesca, crocevia di ecosistemi rilevanti e  misura delle relazioni tra uomo e ambiente, concentra qui una parte significativa della produzione di conoscenza, con istituzioni e programmi di importanza non trascurabile.

Se diamo poi uno sguardo all’istruzione media superiore della provincia di Roma, si può rilevare una presenza significativa di istituti ad indirizzo agrario: 6 istituti tecnici, di cui 4 solo nel Comune di Roma.

A questo patrimonio si aggiungono migliaia di professionisti, tra economisti agrari, agronomi, architetti, paesaggisti, giuristi agrari, commercialisti, veterinari, biologi, periti agrari, agroterapeuti, che operano in studi privati, in strutture cooperative e in organizzazioni professionali.

Tutto questo mondo è pienamente coinvolto nella difficile transizione dell’agricoltura da un modello fondato sull’incremento della produttività quantitativa dei fattori utilizzati ad un modello multifunzionale fondato su di una moderna ruralità territoriale, fatta di nuovi mestieri e professioni, di nuove connessioni coi temi della salute, dell’ambiente, della qualità della vita.

Il tema delle biotecnologie è paradigmatico della nuova centralità dell’agricoltura nei rapporti tra valori etici e politica, tra scoperta scientifica e diffusione della conoscenza, tra produzione di innovazioni e competitività di sistema.

Oggi prevale l’opinione che gli Ogm siano incompatibili con il modello agricolo europeo fondato sul pluralismo territoriale. E’ l’esito inevitabile di una comunicazione schizofrenica delle potenzialità della scienza (tra l’apocalittica descrizione degli scienziati come novelli Frankestein e l’annuncio sensazionalistico dei benefici della ricerca) e di una scarsa cultura scientifica della nostra popolazione. Ma è compito della politica scongiurare la deriva di un fondamentalismo antiscientifico, elevando il discorso pubblico su questi temi, evitando di  scadere nella demagogia e assicurando risorse a quei programmi di ricerca biotecnologica  che sostengono e rafforzano il nostro modello agricolo. Se non si affronta seriamente il nodo del rapporto tra scienza e vita non supereremo il disinteresse nei confronti della ricerca, non invertiremo la tendenza al calo di iscrizioni alle facoltà scientifiche e agli stessi istituti agrari, non ricostruiremo un nuovo patto tra agricoltura e società.

Soluzioni importanti si attendono dalla ricerca nei settori dell’ingegneria agraria, indirizzata, ad esempio, a valorizzare le tecniche aziendali di irrigazione a basso consumo idrico e a promuovere  metodi dell’agricoltura di precisione.

Gli obiettivi della qualità, della sicurezza e della rintracciabilità degli alimenti lungo tutta la filiera devono vedere un impegno crescente dei ricercatori. Così come la verifica delle possibilità e dei limiti del riciclo di biomasse e della stessa produzione agricola per ottenere biocombustibili  potrà fornirci risposte operative alle regole disposte dal protocollo di Kioto.

Sono soltanto alcune indicazioni esemplificative per poter accrescere quei saperi codificati e contestuali da incardinare nelle filiere agroalimentari e nei distretti per essere competitivi nel mercato-mondo.

Ma negli ultimi anni è caduta verticalmente l’attenzione verso la ricerca in agricoltura. La riforma del Cra, il nuovo ente di programmazione e gestione degli Istituti Irsa, è rimasta incompiuta. Dal 1999 il CNR non ha più lanciato progetti finalizzati in agricoltura. Da parte sua il Mipaf dal 2003 ha interrotto il finanziamento di importanti progetti avviati precedentemente  e non ne ha promosso altri di pari dimensioni a sostegno della sperimentazione in nessuna filiera. Solo l’8,5 per cento della spesa regionale per l’agricoltura, 340 milioni di euro, è riservato alle azioni di supporto del capitale umano (ricerca e servizi allo sviluppo).

I programmi e la riorganizzazione dell’istruzione agraria, sia universitaria che medio-superiore,  non sono affatto contemplati nel dibattito sul futuro dell’agroalimentare.

Il triangolo della conoscenza, infine, non si ricuce senza un rilancio dei servizi di sviluppo agricolo, coniugando capacità programmatoria delle istituzioni e sussidiarietà orizzontale. Si tratta di attivare servizi di animazione dello sviluppo rurale, monitorare i fabbisogni di innovazioni e le esigenze formative, formare i formatori, estendere la consulenza aziendale. Occorre fare dei servizi di sviluppo i centri propulsori di un’agricoltura da orientare sempre più al mercato.

Spero di aver dato il senso di come il riformismo romano si possa arricchire di percorsi inesplorati per accrescere il benessere dei cittadini, in ordine allo stile di vita, alla cultura, alle relazioni sociali, e partecipare a pieno titolo all’elaborazione e alla realizzazione di un programma di governo su versanti da tempo non più praticati.