Nuove forme di collaborazione tra
il pubblico e il privato per la manutenzione del territorio
1.
Ridefinire la
professione agricolo-rurale
Ringrazio Gianluca Cristoni e
Matteo Ansanelli di avermi coinvolto in questa riflessione collettiva su
tematiche che considero strategiche per il futuro dell’agricoltura. Affronterò
il tema che mi è stato assegnato partendo da alcune premesse che spiegano
perché oggi l’impresa agricola si trova ad essere partner della pubblica
amministrazione nella gestione del territorio in una funzione sussidiaria.
Gli agricoltori stanno
fronteggiando una serie di fratture che si sono prodotte nel settore primario.
Soprattutto quelle più recenti, come quella ambientale e quella territoriale,
dovuta all’eccessiva specializzazione di alcune aree. Infine, c’è stata la
rottura alimentare, determinata dal venir meno del rapporto di fiducia tra
produttori e consumatori.
Il nuovo scenario in cui gli
agricoltori agiscono non si configura più come un mondo a parte. Sono, infatti,
entrati in campo nuovi portatori di
interesse: consumatori, ambientalisti, operatori del terzo settore, residenti
non agricoli in territori rurali, movimenti new global, soggetti pubblici e
privati protagonisti dello sviluppo locale.
Si tratta, dunque, di rimeditare
sul significato di quel complesso di regole, risorse, organizzazioni, relazioni
che sono alla base dell’attività agricola e di interrogarsi su come questo
mestiere possa di nuovo considerarsi utile alla società.
Centrale diventa il problema di
ridefinire il profilo etico-politico della professione agricolo-rurale, una professione di sintesi,
ad un tempo agricola, alimentare, ambientale, paesaggistica, ma espressione
anche di una molteplicità di nuovi mestieri.
In discussione sono anche i nuovi
e più ampli confini che racchiudono ciò che oggi consideriamo agricoltura. Tali
delimitazioni non sono più disegnate sul tradizionale binomio
agricoltura/produzione e agricoltura/protezione, bensì lungo il crinale del
binomio agricoltura/sistema industriale e agricoltura/territorio. E tale nuovo
rapporto non tende a divergere asimmetricamente, ma converge e si intreccia al
punto tale da suscitare una pluralità di combinazioni imprenditoriali, ciascuna
portatrice di specifiche esigenze e organizzata per rispondere a differenti
bisogni della società.
2.
Ridefinire la
rappresentanza agricolo-rurale
Tale evoluzione mette in crisi
anche le tradizionali funzioni di rappresentanza delle organizzazioni agricole.
Per svolgerle bene, bisogna imparare ad integrare la salvaguardia degli
interessi degli agricoltori con la capacità di assumere come
vincoli-opportunità le aspirazioni provenienti dall’esterno del loro mondo.
Inoltre, le funzioni di
rappresentanza diventano più complesse. Dovrebbero, infatti, tendere a
convergere non solo su interessi settoriali o di filiera, ma in modo
orizzontale su quelli dell’impresa tout court e dei sistemi territoriali.
Andrebbero, altresì, svolte
nell’ambito di una più ampia aggregazione del mondo della produzione e
dell’agricoltura di servizio con quello del terziario agricolo avanzato. E’ in
questo quadro più articolato di relazioni con una molteplicità di portatori di
interesse che l’agricoltura dovrebbe rimodellare il proprio sistema di
rappresentanza.
Rappresentare e salvaguardare
questo nostro mondo implica stare in una posizione di frontiera tra la
categoria (con i suoi interessi) e la società (con le sue attese) che la
ricomprende, l’avvolge e la valuta incessantemente.
3.
La
responsabilità sociale delle imprese
Diffondere una cultura della
responsabilità sociale diventa, pertanto, elemento primario della funzione di
rappresentanza, nella logica della Corporate Social Responsibility (CSR), di
cui in Europa si sta discutendo da diversi anni.
Il filosofo Nicola Abbagnano
definì, già nel 1971, la responsabilità come “possibilità di prevedere gli
effetti del proprio comportamento e di correggere il comportamento stesso in
base a tale previsione”.
D’altro canto, Ulrich Beck afferma
che nell’attuale “società del rischio, l’agire economico e tecnico-scientifico
acquista una nuova dimensione politica ed etica e che il modello di politica
gerarchico-razionalista, ispirato ai criteri del rapporto mezzi-fini è stato
soppiantato da teorie che enfatizzano la consultazione, l’interazione, la
negoziazione, la rete”.
Pertanto, essere socialmente
responsabili significa per le imprese agricole non solo soddisfare gli obblighi
giuridici, ma andare oltre. Si tratta di integrare, su base volontaria e
contrattuale, le preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro attività e
nelle relazioni coi portatori di interesse. Di fare i conti con la riflessione
dell’etica. Di affermare un modello reputazionale di legittimazione delle
attività agricole e rurali che sia condiviso dalla società e si fondi
sull’inclusione all’interno e all’esterno delle aree rurali.
Non è una cosa particolarmente
difficile per il nostro mondo. La ruralità si è sempre caratterizzata per una
forte componente valoriale - legata al
benessere delle popolazioni, alla solidarietà, alla reciprocità, alla tutela
delle risorse naturali - ultimamente erosa dai processi di urbanizzazione e
industrializzazione.
Rilanciare, ammodernare e
valorizzare i contenuti di qualità e coesione sociale che storicamente
connotano la ruralità significa, dunque, qualificare l’immagine del territorio
rurale e renderlo anche economicamente e socialmente più competitivo. Si
tratta, in tale quadro, di orientare l’assunzione di responsabilità verso più
direzioni: le generazioni dell’agricoltura di domani; la scienza e
l’innovazione; chi è dentro e chi resta fuori dalle profonde trasformazioni nel
mercato mondiale degli alimenti; le risorse che appartengono a tutti, che non
sono infinite e che non sono riproducibili.
4.
La difficile
transizione dei Consorzi di Bonifica
Oggi vivono una difficile
transizione anche organismi sorti in seno al mondo agricolo e che hanno alle
spalle un passato glorioso, come i Consorzi di Bonifica. Essi affondano le
proprie radici in epoca medievale, nelle prime esperienze padane di
integrazione tra interessi privati e finalità pubbliche. Si sono poi innervati
negli assetti dello Stato moderno alla fine dell’800 e, in modo compiuto, negli
anni Trenta del secolo scorso, provvedendo a realizzare le grandi opere di
bonifica. Ma negli ultimi decenni, la crisi di identità che ha investito il
settore primario e le imprese che in esso operano inevitabilmente si è
riversata anche su tali strutture.
Il sistema della bonifica ha
reagito alla rottura ambientale candidandosi a svolgere nuove funzioni, che la
recente legislazione regionale e nazionale ha ampiamente riconosciuto. E sta
fronteggiando la rottura territoriale riqualificando il proprio ruolo come
soggetto protagonista dello sviluppo locale socialmente equo insieme ad altre
istituzioni. Il contributo della bonifica alla sicurezza territoriale,
ambientale ed alimentare è stato ampiamente esposto nel Documento approvato
dall’Assemblea dell’ANBI del 2003, che costituisce il “manifesto” del processo
di rinnovamento a cui è chiamato l’intero sistema.
Ma bisogna essere consapevoli che
le moderne azioni di manutenzione dei corsi d’acqua e degli scoli, il
miglioramento qualitativo, riciclo ed uso plurimo delle risorse idriche, la
difesa del suolo e la salvaguardia ambientale presentano una complessità tale
che si fa fatica a racchiuderle nell’antica formula onnicomprensiva di
“bonifica”. Spesso le ultime generazioni, che non conservano più la memoria
storica delle grandi opere di prosciugamento delle paludi e di trasformazione
di interi territori negli odierni paesaggi agrari, non collegano il termine
“bonifica” con le nuove funzioni dei Consorzi.
Nello stesso tempo, si è creata
nel Paese una situazione fortemente differenziata. Ci sono Consorzi che vivono
la propria missione in sintonia con la contribuenza e partecipano attivamente
al governo del territorio in collaborazione con gli enti locali. Purtroppo,
però, vi sono anche strutture consortili che si sono ridotte ad essere
quotidiano bersaglio di attacchi da parte dei consorziati, delle istituzioni
locali e delle forze sociali per le pervicaci inefficienze e la mancanza di
trasparenza ed equità nell’imposizione dei tributi, i cui costi vanno ad
incidere pesantemente sulla competitività delle imprese e dei sistemi
territoriali.
Vi è, pertanto, bisogno di avviare
un processo profondo di rinnovamento, che permetta al sistema della bonifica di
rilegittimarsi nei confronti della propria base consortile e della società.
Occorre, però, poter intervenire in modo differenziato. La flessibilità dei
modelli di gestione all’interno di una medesima Regione, qualora fosse prevista
da una ammodernata legislazione nazionale,
eviterebbe che gli agricoltori disponibili a farsi carico di gestioni
efficienti paghino le conseguenze di atteggiamenti omissivi.
Il mondo agricolo potrà meglio
difendere e rilanciare l’”autogoverno” del territorio se dimostrerà senso di responsabilità e capacità gestionale,
perseguendo trasparenza e innovazione. E se aprirà un dialogo con altri
soggetti economici e sociali interessati a sistemi territoriali competitivi da
realizzare unitamente ad un governo efficiente delle risorse ambientali. E’
noto, infatti, che in alcune realtà la contribuenza extragricola sta ormai
superando quella del nostro mondo. E’, dunque, nell’interesse degli agricoltori
ricercare alleati e favorire la partecipazione all’autogoverno da parte di quel
mondo imprenditoriale che, come noi, utilizza le risorse naturali ed è
disponibile a collaborare per una loro efficiente gestione. Anche in questo
modo potremo più efficacemente difendere i Consorzi e rilanciare la loro
insostituibile funzione.
5.
Lo sviluppo
integrato
Se questo è il quadro in cui gli
agricoltori operano, dovremmo essere noi stessi a sollecitare approcci nuovi
allo sviluppo, non più settoriale, ma da “economia delle risorse”, integrato.
Non hanno più senso, infatti, politiche pubbliche con ottiche meramente
settoriali quando gli snodi da costruire diventano le relazioni che gli usi
degli spazi, delle risorse e delle funzioni richiedono. Un tempo si mirava ad
ottenere la massima produzione per unità di superficie; ora si deve cercare di
ridurre al minimo il consumo di acqua, di energia, di fertilizzanti o
fitofarmaci e di contenere il più
possibile il loro impatto. C’è un’inversione di logica e le pratiche agricole
non sono più le stesse.
In questa problematica più
complessa, si inserisce quell’insieme di approcci allo sviluppo che prende il
nome di Sviluppo Rurale. E’ un tema che occuperà parte dell’azione
amministrativa dei prossimi mesi, sia come applicazione della recente riforma
della PAC, sia come componente importante della Politica Strutturale
dell’Unione Europea, che dovrà essere riorganizzata e rifinanziata.
Non si può, tuttavia, non rilevare
che oggi la politica di sviluppo rurale costituisce di fatto un aspetto della
PAC e non ha per nulla un approccio integrato con le altre politiche regionali.
Eppure, i dilemmi dello sviluppo contemporaneo delle aree rurali (dalla risk
society alla globalizzazione, dalla crisi del welfare state al mancato decollo
della welfare society) richiedono effetti d’integrazione, da produrre in parte
per via attiva e in parte per impatti indiretti.
Pertanto, l’Unione Europea
dovrebbe trasmettere nei paesi membri impulsi più incisivi per accelerare la
transizione verso politiche attive e integrate e per riorganizzare gli assetti
amministrativi e gestionali al fine di rendere operative tali politiche.
Altrimenti difficilmente si potranno afferrare le opportunità economiche
derivanti dalla valorizzazione delle risorse ambientali e culturali e
seriamente affrontare i nodi dell’invecchiamento della popolazione e della
fragilità delle reti di protezione sociale e di quelle infrastrutturali,
materiali e immateriali, che caratterizzano la gran parte dei territori rurali
europei. Si tratta, insomma, di riorientare la spesa comunitaria affinché il
denaro pubblico serva a preparare il futuro e non a congelare il presente o a
perpetuare un passato ormai messo in discussione.
6. Le opportunità della nuova PAC
Nonostante
i limiti richiamati sopra, la riforma di medio termine della PAC può offrire
nuove opportunità, che per essere colte, richiedono conoscenze più mirate,
valutazioni di carattere strategico e capacità di innovazione. Ad esempio, il
carattere di multifunzionalità del settore è destinato ad estendersi in modo
più deciso ai complessi fenomeni che caratterizzano il rapporto tra agricoltura
e ambiente, sia in termini di sostenibilità e di tutela, sia in chiave di
valorizzazione delle risorse naturali.
Attualmente
il sostegno alla gestione del territorio, all’interno degli interventi di sviluppo rurale, è irrisorio ed è erogato in
modo dispersivo e disorganico. Le misure che lo riguardano sono, infatti,
molteplici: “silvicoltura” (o “altre misure forestali”); “miglioramento
fondiario”; “gestione delle risorse idriche in agricoltura”; “sviluppo e
miglioramento delle infrastrutture connesse con lo sviluppo dell’agricoltura”;
“tutela dell’ambiente in relazione all’agricoltura, alla silvicoltura, alla
conservazione delle risorse naturali, nonché al benessere degli animali”;
“imboschimento delle superfici agricole”. Dal momento che le Regioni tendono
generalmente a spalmare le risorse finanziarie su tutte le misure in modo
indifferenziato, gli interventi che si realizzano sono per lo più di scarsa
entità. Nonostante le sollecitazioni non si è ottenuta una maggiore
concentrazione di risorse su determinate misure per la gestione del territorio.
Forse
un impulso a migliorare la situazione potrà venire dalla programmazione
2007-2013. Infatti, la bozza di regolamento sul sostegno dello sviluppo rurale
per quel periodo prevede che sia assicurato all’asse tematico “ambiente e
gestione dello spazio rurale” il 25 per cento del finanziamento complessivo,
comprendendo anche le iniziative di sviluppo rurale legate ai siti Natura 2000.
Per
quanto concerne, invece, l’integrazione delle istanze ambientali nella PAC, già
a partire dalla fine degli anni Novanta, si era proposto il cosiddetto sostegno
condizionato (o condizionalità). Tale scelta ha determinato una proliferazione
di svariati “livelli di riferimento”: “Requisiti minimi”, “Buone Pratiche
Agricole”, “Criteri Obbligatori di Gestione”, “Buone Condizioni Agronomiche e
Ambientali” e “Buone Pratiche Zootecniche”. Da un lato questa pluralità di
“livelli di riferimento” consente di graduare e finalizzare meglio gli
interventi, dall’altro rischia di generare confusione tra gli operatori e
notevoli complicazioni gestionali per le autorità amministrative.
Adesso
la riforma di medio termine ha rafforzato le misure agroambientali già
esistenti ed ha stabilito che gli agricoltori che beneficiano dei pagamenti
diretti debbano rispettare alcuni “criteri di gestione obbligatori” ed
impegnarsi anche “a mantenere la terra in buone condizioni agronomiche e
ambientali”. Pertanto, i “livelli di
riferimento” si ampliano ulteriormente ed alcuni, operanti nel primo e nel
secondo pilastro, si sovrappongono. Ma non vi è dubbio che muta la qualità
dell’approccio. Si passa, in sostanza, da una politica di “tutela
dell’ambiente” tout court ad una più ampia politica di “gestione della tutela
dell’ambiente”. Se consideriamo che in
Italia la superficie che sarà soggetta alla condizionalità dovrebbe attestarsi
intorno agli 11-12 milioni di ettari e che finora le misure agroambientali
hanno interessato solo 3 milioni di ettari e
con uno scarso legame alla gestione del suolo, si comprende la valenza strategica
di tale innovazione, ma anche la sua complessità.
Pertanto,
diventa necessario costruire sinergie tra i vari settori dell’amministrazione
coinvolti, adeguare le scelte di programmazione attuate nell’ambito dei POR e
PSR, armonizzare a livello nazionale gli standard minimi ambientali per evitare
disparità di trattamento, razionalizzare i controlli e promuovere la
sussidiarietà orizzontale.
Tra le
misure per lo sviluppo rurale, è stato opportunamente introdotto un sostegno
alla consulenza aziendale. Esso è finalizzato non solo ad accelerare
l’adeguamento delle imprese alle norme obbligatorie, ma anche a fare in modo
che le stesse si conformino “ad un’agricoltura moderna e di alto livello
qualitativo”. Tale misura va considerata, dunque, come un’occasione da non
mancare per riorganizzare e rilanciare il sistema dei servizi alle imprese, per
farne centri propulsivi della multifunzionalità in collegamento con la ricerca
e la sperimentazione. C’è, a tale proposito, un aspetto che merita di essere
sottolineato. L’esclusione degli investimenti tra le possibilità di sostegno di
questa misura rende necessario un collegamento tra questa e la misura relativa agli investimenti aziendali che
prevede proprio il sostegno di interventi strutturali volti a tutelare e a
migliorare l’ambiente naturale, le condizioni di igiene e il benessere degli
animali.
7. Un nuovo mestiere per l’agricoltore
In tale
quadro, manutenzione del territorio e gestione della tutela ambientale
potrebbero finalmente essere considerate a pieno titolo sia come funzioni
riconosciute dall’intervento pubblico all’impresa agricola, sia anche come
azioni volte ad aggiungere valore ambientale ad attività produttive di beni e
servizi remunerate dal mercato, sia ancora come entrambe operanti nell’ambito
di strategie della qualità legata al territorio. E’ sempre più ampia, infatti,
la fascia dei consumatori e dei cittadini che orienta le proprie scelte anche
sulla base di bisogni ed attese culturali ed etiche, come a voler premiare i
sistemi produttivi che implementano logiche di tutela e valorizzazione
dell’ambiente e del paesaggio.
In
questa concezione unitaria di sistemi agricoli, orientati al mercato di qualità
ad alla valorizzazione dell’ambiente, trova più facilmente spazio la
possibilità per gli agricoltori di realizzare specifici interventi di
sistemazione e manutenzione del territorio, di cura e mantenimento dei fenomeni
di desertificazione e di tutela delle vocazioni produttive del territorio, in
convenzione con l’operatore pubblico.
Finora
tali funzioni sono state riconosciute all’agricoltura mediante le attività
svolte dai Consorzi di Bonifica, che naturalmente dovranno continuare a
realizzarle in un rinnovato assetto, più flessibile e differenziato, che veda
meglio integrate le loro funzioni con quelle degli altri attori territoriali.
Ma
adesso anche gli agricoltori potranno farsi riconoscere dalla collettività la
realizzazione di piccole opere di difesa dalle inondazioni, la pulizia degli
argini e dei canali di bonifica, l’estirpazione di erbe acquatiche lungo gli
alvei, la chiusura di piccole rotte degli argini, la ripresa di frane lungo le
sponde dei canali, la riparazione e sostituzione di tubazioni irrigue, lo
sgombero delle foci dei canali di scolo e di irrigazione.
8. Contratti e convenzioni con gli
agricoltori
La
legge di orientamento agricolo ha introdotto fin dal 2001 una nuova normativa
che finalmente riconosce anche all’impresa agricola la capacità di produrre
quel mix di beni e servizi che caratterizza le imprese di tutti i settori
economici. Inoltre, ha previsto la possibilità di individuare i distretti
rurali e agroalimentari di qualità ed ha messo a disposizione dei sistemi
locali strumenti amministrativi – come i contratti di promozione e di
collaborazione, nonché le convenzioni con gli operatori agricoli – per
realizzare la modalità distrettuale.
Con la
stipula di atti negoziali nell’insieme dei territori rurali, le imprese
agricole potranno svolgere meglio la funzione di conservazione e riproduzione
dell’equilibrio ecologico. E’ dall’esercizio di quest’opera continua di
manutenzione che dipende la qualità dei territori rurali, la loro
competitività, il successo delle attività che vi si realizzano. Ed è per questo motivo che i criteri per
individuare i distretti in agricoltura non attengono solo alle vocazioni
produttive, ai livelli di specializzazione, agli indicatori occupazionali, ma
anche al valore estetico e culturale dei paesaggi agrari, sempre più elemento
peculiare della biodiversità. E poi alla sicurezza idrogeologica delle colline
e delle vallate, al percorso dei fiumi, alla capacità di accumulo degli invasi,
al valore ricreativo delle montagne. Si tratta, in sostanza, di misurare le
dinamiche di evoluzione e crescita di biosistemi, perché nei distretti si vanno
ad integrare processi socio-economici e processi ecosistemici, nella logica
della “bioregione”.
Coi
nuovi strumenti pattizi tra pubblico e privato, inoltre, si potranno ricucire
meglio le fasi frantumate dei processi produttivi e le attività di servizio;
remunerarle se non lo fa il mercato. E si potrà superare l’inefficacia dei
provvedimenti imperativi e unilaterali nel perseguimento di finalità di
interesse generale. A tale proposito, va segnalato che si aprono nuove
prospettive anche in campo urbanistico, perché gli impegni assunti
contrattualmente dai soggetti privati possono diventare il criterio regolatore
nelle scelte di localizzazione all’interno delle aree rurali e la leva più
efficace per integrare, salvaguardare e valorizzare le risorse naturali.
Tali
innovazioni si sono inizialmente rivelate di difficile applicazione per la
mancanza di coordinamento con le norme previdenziali, assicurative e fiscali. E
il ritardo dovrebbe farci riflettere se davvero sia conveniente rimanere in
regimi normativi speciali o individuare nuovi strumenti selettivi di sostegno
della competitività delle imprese simili a quelli operanti in altri settori.
Si è
perso tempo anche perché si è voluto ricomporre - a dire il vero
abbondantemente fuori tempo massimo come spesso accade nel nostro Paese per
tanti contrasti spesso viziati da pregiudizi ideologici - un annoso contenzioso
giuridico che si trascinava dal 1975, quando l’Italia recepì la Direttiva
comunitaria del 1972 che istituiva la figura dell’imprenditore agricolo a
titolo principale. Coloro che a ragione sostenevano l’estensione di tale
qualifica anche alle società hanno ottenuto – col decreto legislativo n. 99 del
29 marzo 2004 – che la nuova definizione di imprenditore agricolo professionale
valesse anche per le società agricole.
Ma
nessuno ha voluto accorgersi che il contenzioso non aveva più motivo di
esistere perché nel frattempo – con il regolamento comunitario n. 1257 del 17
maggio 1999 sullo sviluppo rurale – era
andata finalmente in pensione, dopo circa un trentennio, la definizione di
imprenditore agricolo a titolo principale. Sicché, a livello europeo, la
garanzia di una efficiente utilizzazione delle risorse è ora riposta in tutte
quelle aziende agricole che dimostrano redditività, che rispettano requisiti
minimi in materia di ambiente, igiene e benessere degli animali ed il cui
imprenditore possiede conoscenze e competenze professionali adeguate. Non sono
previste altre condizioni. Solo l’Italia si attarda ancora a misurare la
professionalità di un agricoltore in base alla quantità di tempo dedicato
all’attività agricola oppure al rapporto tra il reddito aziendale e quello
proveniente da altre fonti. E lo sta facendo con modalità diverse da Regione a
Regione. Mentre la Francia, con tutt’altra logica, misura le competenze professionali di un
agricoltore con un criterio assolutamente moderno: la partecipazione ad un
periodo minimo annuale di formazione e aggiornamento.
Dal
momento che si è voluto mantenere la figura dell’imprenditore agricolo
professionale, è stato giusto estendere la nuova definizione anche alle società
agricole. In tal modo, l’ammodernamento e il rilancio di un antico strumento
(la vecchia mezzadria era anche un contratto societario!) può costituire una
grande opportunità per far confluire in un’ impresa agricola capacità
professionali e capitali pubblici e privati anche in modo distinto.
9. L’esperienza della Regione Lombardia
Nonostante
tali persistenze e anacronismi, non sembrano più esserci difficoltà
nell’utilizzazione dei nuovi strumenti normativi da parte della pubblica
amministrazione. La Regione Lombardia, ad esempio, è stata tra le prime a
recepire nella propria legislazione le novità dei decreti di orientamento. Ed
ha definito, nell’ambito dei criteri e delle procedure per la concessione di contributi
finalizzati ai regimi di aiuti, quali le “misure forestali” e le “sistemazioni
idrauliche forestali”, le forme di coinvolgimento delle aziende agricole.
Esse,
infatti, si possono attivare secondo due modalità: 1) indirettamente, come
affidatarie di lavori pubblici; 2) direttamente, in qualità di beneficiarie di
contributi, in particolare in quanto concessionarie a titolo gratuito di
terreni di proprietà pubblica. Per quanto riguarda la prima modalità, la
circolare regionale fornisce alle amministrazioni pubbliche gli indirizzi a cui
attenersi ai fini dell’affidamento dei lavori e mette a disposizione degli enti
pubblici che intendono avvalersi di imprese agricole la modulistica necessaria.
Per quanto concerne, invece, la seconda modalità, viene definita la procedura
da adottare nel caso in cui un’impresa agricola, in assenza di un contratto
d’affitto o di una concessione temporanea a titolo gratuito dei terreni di
proprietà pubblica, intenda eseguire interventi selvicolturali finalizzati a
miglioramenti ambientali e paesaggistici su proprietà pubbliche.
10. I contratti tra i Consorzi di Bonifica
e gli agricoltori
Naturalmente,
anche i Consorzi di Bonifica, annoverati a pieno titolo tra le “pubbliche
amministrazioni”, possono stipulare “in deroga alle norme vigenti” contratti di
appalto con gli imprenditori agricoli per affidare ad essi lavori che rientrano
nelle proprie competenze. Attraverso la derogabilità, si può realizzare, infatti, quella “flessibilità”
della disciplina, necessaria per renderla adeguata alle esigenze specifiche
delle singole opere che si intendono affidare alle imprese agricole.
E’
dall’ottobre 2001 che l’ANBI ha predisposto uno schema di contratto che si può
adattare ai diversi casi che si possono presentare. Se l’opera che si intende
affidare è di una certa complessità tecnica, sarà necessaria la progettazione
vera e propria; se, invece, il lavoro consiste ad esempio nello sfalcio di
erbe, sarà sufficiente una semplice perizia. Ancora. Di fronte ad un lavoro di
importo significativo si potrà procedere ai pagamenti attraverso stati di
avanzamento; per un lavoro semplice e di importo modesto il pagamento potrà
avvenire a consuntivo. Inoltre, se il lavoro è di importo considerevole si
potrà chiedere la cauzione definitiva nella misura del 10 per cento; mentre se
l’importo è di lieve entità sarà opportuno rinunciare alla cauzione. Infine, se
il lavoro, per le modalità di esecuzione, può presentare rischi di danni a
terzi, il Consorzio potrà richiedere la polizza assicurativa; a tale polizza
specifica potrà rinunciare se l’impresa è già in possesso di una polizza a
copertura generale dei rischi a terzi; nessuna polizza sarà da richiedere se il
rischio dei danni a terzi è insussistente e
irrilevante.
Pertanto,
è rimesso al prudente apprezzamento dei Consorzi valutare di volta in volta, a
seconda della rilevanza tecnica ed economica del lavoro, nonché delle modalità
di esecuzione dello stesso, se procedere o meno a progettazione, se richiedere
cauzione, polizza assicurativa, se pagare per stati di avanzamento o a
consuntivo.
La
sperimentazione di detto contratto ha dato esito positivo in diverse Regioni e
non sono state segnalate particolari difficoltà nell’adozione di tale
strumento. Tant’è che nella legislazione regionale sulla bonifica, prodotta
negli ultimi anni, si è recepita la nuova strumentazione, dandole un più forte
valore giuridico. Ad esempio, la legge regionale della Regione Calabria,
approvata nel luglio 2003, prevede espressamente all’art. 19 che “i Consorzi
possono stipulare convenzioni, ai sensi e con le modalità di cui all’art. 15
del decreto legislativo n. 228/2001, con gli imprenditori agricoli, di cui
all’art. 2135 c.c., iscritti al Registro delle Imprese, in particolare per
realizzare attività ed opere di tutela e conservazione delle opere di bonifica
e del territorio”. In tal modo, i Consorzi non solo contribuiscono a rafforzare
la multifunzionalità delle imprese agricole, ma accrescono la loro
rilegittimazione nei confronti dei consorziati.
11. Diffondere la pratica contrattuale con
altri enti
Anche
gli enti parco possono stipulare contratti con gli agricoltori che operano
nelle aree protette per affidare loro compiti specifici di tutela ambientale e
di promozione della biodiversità. Lo prevede espressamente il Protocollo di
Intesa tra le Organizzazioni agricole, la Federparchi e la Legambiente,
sottoscritto nell’aprile scorso. Il contratto-tipo elaborato dall’ANBI potrebbe
essere preso come riferimento e adattato alla realtà delle aree protette.
La
pratica negoziale finalizzata alla manutenzione del territorio andrebbe estesa pure ai rapporti tra i Comuni e gli
agricoltori nell’ambito di programmi territoriali di promozione del welfare
locale, affidando alle iniziative di sviluppo sostenibile il ruolo di
riqualificare ed espandere i servizi sociali nelle aree rurali. Un Protocollo
di Intesa tra le Organizzazioni agricole e l’ANCI potrebbe favorire la
diffusione di relazioni pattizie tra gli enti locali e le imprese agricole per
rafforzarne la multifunzionalità ed accrescere l’efficienza dell’intervento
pubblico.
Nelle
aree montane, invece, esiste già una esperienza consolidata, vigendo dal 1994
una norma (art. 17 della legge n. 97) che prevede la possibilità di appaltare
lavori di manutenzione del territorio agli agricoltori. E che, in caso di
scambio di servizi tra soci di una stessa associazione, fa scattare i benefici
fiscali. Si tratta della prima enunciazione dell’impresa agricola di servizi
che, successivamente, coi decreti di orientamento trova il suo compimento. Significative sono state anche le
esperienze che in questi anni si sono realizzate nei rilievi in virtù di questa
legislazione antesignana, pur tra le difficoltà dovute alla mancanza di
coordinamento delle norme.
E’ ora
all’esame della Camera la proposta di legge La Loggia, volta a rinnovare la
normativa sulla montagna. Essa non solo conferma i contenuti dell’art. 17 della
legge attuale con le modifiche apportate successivamente, adeguando il limite
dei lavori che si possono affidare agli agricoltori da 50 milioni di lire a 75
mila euro. Ma prevede anche che tutti gli enti, compresi quelli interessati ai
servizi ambientali, possono istituire centri multifunzionali, il cui
funzionamento potrà essere assicurato mediante la stipula di convenzioni e
contratti con imprenditori agricoli sulla scorta di quanto previsto dai decreti
di orientamento. Si potranno aprire così varchi mai esplorati di collaborazione
a vasto raggio tra il potere pubblico e le imprese agricole per tutelare e valorizzare la montagna, passando da un
riconoscimento indiretto ad uno diretto del ruolo insostituibile degli
agricoltori che operano nelle aree montane.
La
logica negoziale tra il pubblico e il privato per la manutenzione del
territorio, pertanto, ha molteplici possibilità di esprimersi. Tuttavia, essa
si potrà affermare se la promozione della cooperazione istituzionale e sociale
a livello locale sarà accompagnata da un’azione di indirizzo, coordinamento e
supporto da parte delle organizzazioni imprenditoriali, sindacali e della società
civile sul piano nazionale. E’ a questo livello che occorre un maggiore impulso
per favorire intese volte a migliorare i contesti ambientali e i sistemi di
certificazione così come previsto dall’Accordo Quadro sottoscritto al CNEL da
21 organizzazioni nel maggio scorso.