Il negoziato dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: problemi e prospettive per la valorizzazione del vino italiano

1.     Una definizione di territorio.

La Commissione europea  ha recentemente ridotto la tutela delle menzioni tradizionali dei vini di qualità prodotti nell’Unione. Ed ha giustificato il provvedimento argomentando che la reale finalità della decisione sarebbe quella di favorire un accordo in sede di WTO, dove erano state messe in discussione le norme precedenti.

C’è da chiedersi se sia valida una strategia di questo tipo per proteggere i nostri vini più pregiati dalle imitazioni. A mio parere, una strategia che si limiti solo allo scambio di concessioni ai tavoli negoziali appare insufficiente e rischia di dimostrarsi alla lunga anche controproducente, perché potrebbe indurre i paesi terzi a ritenere che l’impianto normativo finora adottato in Europa non poggi su criteri rigorosi. Va, invece, ingaggiata  una efficace iniziativa politica e culturale volta a far conoscere la storia del nostro modello di protezione delle indicazioni geografiche e presentarlo come uno strumento valido per tutelare le biodiversità  dappertutto, un percorso di sviluppo di tutte le agricolture che si confrontano in un contesto sempre più liberalizzato e globale. Si tratta, dunque, di inquadrare la strategia negoziale europea in un’azione più generale di integrazione culturale, chiarendo innanzitutto il significato che noi diamo al concetto di legame di un prodotto agroalimentare col territorio.

Tradizionalmente si è ritenuto che territorio non significasse estensione di terra, ma ambito di signorìa. Lo jus terrendi è stato usato come sinonimo di jus imperii. Dunque, territorium non deriverebbe da terra, ma da terreo, territus (terrorizzato, atterrito).

Nei classici latini, tuttavia, territorium significa terra intorno alla città. E’ la terra appartenente alla città e che da questa riceve non solo imperio e governo ma anche e insieme identità. In tale accezione il territorio non è semplicemente confine geografico dello Stato ed area di esercizio della sovranità. E’ ciò che dalla città cui appartiene riceve identità nello stesso tempo in cui restituisce identità, in un rapporto di relazione molto stretto.

Nel Medioevo, l’imponente crescita demografica determina l’ambivalenza del rapporto tra città e campagne. A nord delle Alpi sono gli abitanti delle campagne che si addensano nelle città. A sud delle Alpi sono le città che organizzano le campagne circostanti.

La cosiddetta “civiltà urbana” italiana del Medioevo, tranne poche eccezioni come Genova e Venezia, è, in effetti, una civiltà “agrario-urbana”. Città e campagne sono due facce della stessa medaglia e “l’Italia delle cento città” è affiancata da “mille campagne”.

“Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città… il borgo e la città sono i luoghi in cui si scambiano i propri prodotti e si vende il proprio lavoro… Si parte la mattina ma si rientra la sera” (F. Braudel).

Gli stessi prodotti della campagna traggono identità da una relazione fra il territorio, la terra intorno e la città: “è la città, infatti, a costituire il luogo strategico di costruzione e di trasmissione di una cultura gastronomica al tempo stesso locale e nazionale… La città rappresenta il territorio, appropriandosi… dei suoi beni e della sua cultura (anche gastronomica) per metterla in gioco, esportarla, diffonderla. Perciò, in Italia il patrimonio gastronomico viene normalmente individuato e riconosciuto attraverso il richiamo di identità cittadino, e ciò non solo nel caso di ricette o preparazioni elaborate in ambito urbano, nelle botteghe artigianali o, più tardi, negli stabilimenti industriali (la mostarda di Cremona, gli spaghetti di Napoli), ma anche quando si tratta di risorse provenienti dalla campagna, dai monti, dal mare, come nel caso del radicchio di Treviso e dell’olio di Bitonto, del rombo di Ravenna e del pesce spada di Messina, del pecorino romano e delle noci di Sorrento” (A. Capatti – M. Montanari).

Dal Medioevo, tuttavia, il concetto di territorio è stato sempre contrapposto ad una visione universalistica. Il Rinascimento è stato il periodo in cui si è elaborata una concezione cosmopolitica della vita come superamento della dimensione locale. Solo adesso la nozione di territorio è concepita integrandola nei meccanismi di scambio e di mercato, fino a parlare di esportazione del territorio, come nel caso dei nostri grandi vini di qualità, che hanno dei marchi di identità e di appartenenza territoriale che però vivono ovunque nel mondo.

Furono, infatti, le popolazioni indigene della Sicilia e dell’Italia Meridionale, insieme ai pionieri-avventurieri provenienti dal Medio Oriente, a interpretare e diffondere per primi l’attività agricola e l’allevamento del bestiame in Occidente con grande successo e ad avviare, coi Greci e i Fenici, i traffici commerciali nel Mediterraneo. Qui furono inventati gli alimenti tipizzati, elaborati da ogni famiglia per rendere conservabili i prodotti deperibili e si avviò la tecnica culinaria con l’invenzione della gastronomia, cioè la cultura applicata alla cucina.

Lo storico Gaetano Forni, nel testo Gli albori dell’agricoltura, ricorda all’uomo di oggi che “in un’epoca e in un paese come il nostro, notevolmente industrializzati e urbanizzati, la distorsione culturale più rilevante sta senza dubbio nella mancata consapevolezza sia della dipendenza della nostra civiltà e della stessa esistenza, dall’agricoltura quale unica – in concreto – fonte di alimento, sia dalla sua sostanziale identità con l’ambiente biologico”.

Questo richiamo è essenziale per recuperare i valori storici della sequenza alimentare biologica, anche perché permette a noi europei di ricordare che l’origine di molti alimenti di oggi, quelli di maggiore qualità, è la stessa di quella presente nei tempi più lontani con impiego di materie prime provenienti dal Medio Oriente. Identità e incroci culturali che si sovrappongono mai in una condizione di staticità.

Territorio, dunque, come luogo identitario ed oggi come risorsa produttiva e concorrenziale, in un mercato globalizzato in cui il territorio è elemento della competizione. Territorio come reticolo di imprese e di attività diverse che si organizza in una logica distrettuale.

2.     La logica distrettuale dello sviluppo territoriale.

“La distrettualità individua i suoi elementi connotanti nella ricostruzione di imprese territoriali di fase e di imprese di comparto, nel senso che all’interno dello stesso territorio le produzioni vengono ripartite in fasi di estrema specializzazione ma tutte tra loro funzionalmente collegate, sicché destinatario dell’attività della singola impresa non è necessariamente il cliente finale, ma per larga parte un’altra impresa, operante nel medesimo territorio in una fase diversa della filiera”. (F. Albisinni)

Un fenomeno analogo è stato osservato dagli studiosi dello sviluppo locale, con specifico riferimento alle strutture locali della produzione agricola, sicché “l’intuizione elementare dell’impresa, agricola o agroindustriale che sia, la vede legata al territorio e immersa nella società locale”. (G. Becattini)

I sistemi produttivi locali vanno, pertanto, indirizzati verso la logica distrettuale, cogliendo le opportunità della “legge di orientamento” che prevede l’individuazione dei distretti rurali e agroalimentari di qualità. Tali nuove tipologie distrettuali rappresentano contestualmente sia uno strumento che un obiettivo di politica economica per lo sviluppo locale. Possono costituire una modalità chiara e trasparente per la finalizzazione degli investimenti. Inoltre, la possibilità di operare attraverso contratti di promozione e di collaborazione con gli operatori agricoli, come pure la possibilità introdotta di assumere convenzioni con le pubbliche amministrazioni, amplia la gamma degli strumenti amministrativi a disposizione dei sistemi locali per imboccare il sentiero della realizzazione della modalità distrettuale.

La tracciabilità, cioè la possibilità di ricostruire i passaggi percorsi da un alimento, ha molto a che fare con la logica distrettuale. Essa segnala la domanda di maggiore sicurezza che i consumatori rivolgono agli operatori delle filiere alimentari e la fiducia che essi sono disposti a riporre nei segni identificativi dell’origine.

D’altronde, come nelle economie del passato i consumatori e i produttori si incontravano e si conoscevano direttamente, le regole della tracciabilità oggi permettono di nuovo di conoscere i produttori, le aree di produzione, le tecniche usate. E’ come se i produttori e i consumatori tornassero a stringersi la mano.

Alcuni elementi della tracciabilità devono essere indicati dalle leggi anche perché servono a garantire la sicurezza igienica. Ma molto va fatto volontariamente dagli operatori delle filiere agroalimentari, a patto che tutte le indicazioni fornite siano controllate e certificate.

La tracciabilità, dunque, va costruita mediante forme negoziali tra soggetti economici, nonché tra questi e il potere pubblico.

Se la strategia vincente è promuovere la libertà di scelta del consumatore, diventa necessaria una politica organica per garantire informazioni chiare, pubblicità non ingannevoli, relazioni di filiera trasparenti e paritarie, sistemi distributivi efficienti, logistica mirata ad abbassare i costi di trasporto, prezzi non speculativi, controlli accurati. A questi obiettivi andrebbero finalizzati i distretti agroalimentari di qualità. Distretti non imposti dall’alto ma che nascono per iniziativa delle forze locali.

Per individuarli correttamente, infatti, entrano in gioco criteri del tutto nuovi che solo le forze locali possono efficacemente maneggiare. Non solo le vocazioni produttive, i livelli di specializzazione, gli indicatori occupazionali, ma anche il valore estetico e culturale dei paesaggi agrari, sempre più elemento peculiare della biodiversità. E poi la sicurezza idrogeologica delle colline e delle vallate, il percorso dei fiumi, la capacità di accumulo degli invasi, il valore ricreativo delle montagne, che dipende in misura decisiva dall’opera di manutenzione di agricoltori e selvicoltori.

Si tratta, in sostanza, di misurare le dinamiche di evoluzione e crescita di biosistemi, perché nei distretti si vanno ad integrare processi socio-economici e processi ecosistemici, nella logica della “bioregione”.

I  distretti, dunque, non vanno concepiti come camicie di forza per le imprese.  Ma percorsi offerti  alle reti imprenditoriali per valorizzare la capacità di sviluppo sociale e conservazione ambientale. Percorsi dal basso, sviluppando fortemente sussidiarietà e concertazione, per fare in modo che gli agricoltori ed altri soggetti sociali operanti all’interno dei territori rurali, nelle loro multiformi funzioni, possano esprimere tutte le  potenzialità per il benessere collettivo.

3.     Le indicazioni geografiche

L’indicazione geografica collega al prodotto la bellezza e la rinomanza che un particolare luogo suggerisce al consumatore. Più precisamente, nell’ipotesi di prodotti agricoli, l’indicazione geografica collega ad essi le proprietà organolettiche impresse al prodotto dal terreno e dal clima e che il consumatore si aspetta di ritrovare nei prodotti indicati con quel nome geografico.

Per i vini, la materia è disciplinata in leggi nazionali, diversi regolamenti comunitari, nonché nell’ambito dell’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs).

Con tale Accordo si intende combattere nel mercato internazionale l’utilizzazione indebita di un nome geografico notoriamente indicativo di prodotti tipici e di qualità. E ciò per due motivi: 1) per evitare che imprenditori di pochi scrupoli si approfittino della fama e della reputazione di un certo prodotto per smerciare i propri, simili all’altro ma mancanti di quelle qualità organolettiche che soltanto il terreno ed il clima della determinata area geografica in cui il primo è prodotto sono capaci di attribuire; 2) per impedire che il nome si “volgarizzi” e perda di distintività, così come è successo all’acqua di colonia ed all’inchiostro di china, che non si ricollegano più alla città tedesca di Colonia o al paese della Cina, ma indicano una generica acqua profumata o un tipico inchiostro di colore nero ovunque prodotti.

Ne consegue che oggi, anche sul mercato mondiale, è offerta ai produttori delle zone colturali rinomate il diritto di esclusiva sul nome geografico della loro terra di produzione, posto che ogni Stato firmatario dell’Accordo è tenuto ad approntare i mezzi legali diretti a consentire agli interessati di impedire “l’uso, nella designazione o presentazione di un prodotto, di ogni elemento che indichi o suggerisca che il prodotto in questione è originario di un’area geografica diversa dal vero luogo di origine in modo tale da ingannare il pubblico sull’origine geografica del prodotto” (art. 22.2, lett. a).

Solo che la tutela dei prodotti europei tradizionalmente conosciuti in tutto il mondo con i nomi delle regioni in cui si producono trova, in sede internazionale, una forte resistenza da parte di quei paesi i cui imprenditori agroalimentari smerciano i loro prodotti “sotto” nomi geografici che ad essi non competerebbero.

Le più diffuse forme di ingannevoli evocazioni dei vini made in Italy sono elencate in un recente Rapporto del CNEL. “Negli Stati Uniti (California), Canada, Australia e Sud America (Argentina e Brasile) è stata segnalata – così denuncia il Rapporto - la presenza di prodotti commercializzati con le denominazioni dei principali vini italiani, dal Chianti, al Marsala, dal Barbera al Sangiovese, dal Pinot Bianco e Nero al Lambrusco, dal Malvasia al Moscato, dal Nebbiolo al Dolcetto. Recentissimamente è stata addirittura rinvenuta una confezione da un litro e mezzo di Chianti prodotto in Indonesia”.

Tuttavia, le discussioni in sede di WTO non sono facili perché si tratta di applicazione extraterritoriale del diritto interno a situazioni concorrenziali che superano i confini nazionali. Gli Stati Uniti, ad  esempio, pretendono non solo che sarebbero generici (e, quindi, non tutelabili) i nomi di sake e di vermouth, ma che sarebbero semi-generici (e, quindi, autorizzati, ma con l’obbligo di aggiungere nell’etichetta la precisazione del vero luogo di produzione) nomi famosi di vini come quelli di Champagne, Chianti, Porto e  Sherry.

Nell’ipotesi di nomi di vini, l’Accordo TRIPS esclude la tutela quando l’indicazione geografica “sia identica alla denominazione comune di una varietà di uva esistente” alla data di entrata in vigore dell’Accordo stesso, nel territorio dello Stato che invoca l’eccezione. Si tratta della cosiddetta clausola del nonno.

In tale contesto sono nati i tentativi della Commissione europea di regolare l’utilizzazione delle menzioni tradizionali con il fine dichiarato di difenderle meglio sul mercato mondiale a vantaggio dei produttori delle aree europee di riferimento. Il controverso Regolamento n. 316 del febbraio scorso stabilisce, infatti, che, a determinate condizioni, sia possibile per Paesi diversi da quelli di origine usare nell’etichetta dei vini alcune denominazioni tradizionali europee, tra le quali 17 italiane, ed esportare questi prodotti nell’UE. Il provvedimento è di certo criticabile perché abbassa notevolmente la soglia di protezione di tali denominazioni. Tuttavia, non si può tacere il fatto che il precedente Regolamento, il 753/2002, che vietava l’uso delle menzioni tradizionali, era stato oggetto di pesanti critiche da parte di molti paesi extraeuropei ed era praticamente indifendibile in ambito WTO. Occorre, perciò, individuare una strategia di più ampio respiro per affermare la cultura della tutela delle indicazioni geografiche.

Alla V Conferenza ministeriale della Wto, svoltasi a Cancun, gli Stati membri dell’Ue si erano presentati fortemente impegnati per far sì che il mercato venisse ad essere sgomberato dalle imitazioni, considerate come distorsioni del commercio agricolo. Ma il problema non è stato affrontato anche perché, fuori dall’Europa, non se ne comprende appieno la valenza culturale e dai Paesi in via di sviluppo, che pure avrebbero interesse a trattarlo, viene percepito – avendolo proposto per la prima volta come oggetto del negoziato sul commercio agricolo ! – come un vantaggio esclusivo dei paesi ricchi.

4.     Indicazioni geografiche e proprietà intellettuale

Se i beni di proprietà intellettuale sono, come dice la stessa parola, prodotto dell’ingegno umano, come sono le opere d’arte, quelle letterarie e le invenzioni, ma anche i “nomi” nuovi con cui l’operatore economico designa, per individuarli, la propria impresa (la ditta), la propria azienda (l’insegna) e i propri prodotti (i marchi), c’è da chiedersi perché l’Accordo TRIPS includa, tra i diritti di proprietà intellettuale, anche le indicazioni geografiche, ovvero toponimi, cioè i nomi di già esistenti località geografiche.

Per rispondere a tale domanda, occorre riflettere su come nasce una indicazione geografica. C’è stato qualcuno che ha per primo usato un toponimo per indicare i prodotti di una certa terra caratterizzata, per suolo, sottosuolo e clima, nella maniera più adatta per una specifica produzione, determinando nei consumatori il collegamento tra il nome della zona geografica e quel prodotto e suscitando in essi il giudizio di un prodotto di qualità.

Non è, dunque, il toponimo in sé a costituire il bene intellettuale ma è l’idea – sì, appunto l’idea – di utilizzare il nome geografico per designare i prodotti di quella determinata zona.

Del resto, l’indicazione geografica non richiama solo ed esclusivamente un territorio, ma anche le modalità con cui quel particolare prodotto è solito essere realizzato in quell’area, dato che i consumatori attribuiscono le qualità organolettiche del prodotto sia al fattore geografico che a quello umano.

“E’ in questo senso che l’indicazione geografica richiama una sorta di invenzione collettiva, che si perde nella notte dei tempi, degli elementi e dei procedimenti indispensabili per ottenere quel prodotto che, nel giudizio dei consumatori, è l’immagine di una terra e della sua gente. In sostanza, l’originalità e la novità di una indicazione geografica e, dunque, la meritevolezza della tutela esclusiva di tale menzione a favore di coloro che in quel territorio realizzano la produzione stanno in due cose fondamentalmente: 1) nella fantasia creativa di una comunità, capace di dosare gli elementi e di individuare il procedimento per la produzione di determinati prodotti di un certo territorio; 2) nell’idea di sfruttare, per il commercio, il nome di quell’area geografica la meglio vocata per quelle produzioni.” (A. Germanò)

5.     Indicazioni geografiche e globalizzazione

Spesso, nel recente passato, abbiamo considerato la difesa delle indicazioni geografiche  come una chiave per scardinare gli effetti di uniformità e omogeneità indotti dalla globalizzazione e di recuperare il rapporto tra i prodotti e il territorio. Tale tutela, infatti, permette di salvaguardare le diversità territoriali, le diverse qualità organolettiche dei prodotti, i diversi profumi, i diversi gusti. E abbiamo considerato i sistemi di tutela delle denominazioni di origine un vantaggio che l’Europa, soprattutto quella mediterranea, per la ricchezza dei suoi giacimenti enogastronomici, dovrebbe saper sfruttare.

Salvatore Settis scrive che “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum” che lega monumenti, opere, musei, città, paesaggi ed enogastronomia in un tessuto connettivo unico ed ineguagliabile. Agli occhi del mondo intero questo è il tratto identitario per eccellenza dei paesi euromediterranei.

Tuttavia, noi europei dobbiamo essere consapevoli che tale modello nasce e si consolida nel Mediterraneo e non è diffuso nel mondo.

Recentemente Massimo Cacciari ha paragonato l’Europa continentale ad una tundra, tutta uguale e tutta piatta, mentre l’Europa mediterranea ad un arcipelago, formato da isole varie e diverse; e conseguentemente ha espresso l’opinione che l’approccio degli uomini dei paesi dell’Europa continentale (ma anche di quelli degli USA) verso i problemi della produzione agroalimentare sia dominato dal complesso della tundra – l’unico problema che hanno è quello della sanità del prodotto – mentre quello degli europei del Mediterraneo è dominato dall’idea dell’arcipelago, della varietà nell’unità – oltre la sanità, hanno importanza la cultura alimentare, il gusto, l’olfatto.

“Oggi si confrontano, fondamentalmente due approcci al tema dell’alimentazione. L’uno è riassumibile nella espressione: il cibo si fabbrica. L’altro è riassumibile nell’espressione : il cibo si produce. (…) Questi due approcci oggi sono prevalentemente vissuti in contrasto tra loro (spesso, con ampie tifoserie al seguito). Una situazione di responsabilità richiederebbe il superamento di una tale contrapposizione” (M. Campli).

Le due culture si devono riconoscere ed integrare così come ha incominciato a fare l’Unione Europea con il Regolamento 178/2002 del Parlamento e del Consiglio, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. Sicurezza igienico-sanitaria e sistemi certificati di qualità legata al territorio non si contrappongono più ma si integrano, interagiscono si arricchiscono vicendevolmente. E’ per questo motivo che desta perplessità la istituzione di una ulteriore Agenzia europea per la qualità dei prodotti agroalimentari, distinta e separata da quella prevista dal Regolamento 178/2002.

Oggi appare sempre più evidente che la molteplicità delle biodiversità, dei cultivar, delle pratiche produttive, nonché la storicità delle diverse agricolture sono valori che possono servire a tutti se si integrano coi diritti dei consumatori. L’Europa deve conquistare a questa idea le diverse aree del mondo.

Se i paesi terzi percepiscono l’affermazione del nostro punto di vista solo come una difesa dell’ agricoltura europea difficilmente riusciremo a vincere la battaglia per salvaguardare le indicazioni geografiche nel mercato globale. Vi è bisogno di una iniziativa che si svolga sul piano politico e culturale e che veda protagonista non solo le tecnostrutture che presidiano le sedi di confronto in ambito WTO, ma il mondo della scienza, della ricerca, della cultura, della politica e della rappresentanza degli agricoltori.

Dobbiamo tener presente che ogni cultura è il frutto di contaminazioni, ogni tradizione è figlia della storia. E la storia non è mai immobile. Le innumerevoli contaminazioni culturali che si sono verificate nell’area mediterranea dimostra che condizioni geografiche comuni non sono sufficienti a stabilire una comunità di scelte e di usi. Non esiste alcuna identità pura. Quanti toponimi identici si incontrano nei diversi angoli di questa parte del pianeta. A monte del fenomeno delle cosiddette contraffazioni ci sono sicuramente forti interessi economici, ma vi è anche la storia della colonizzazione del nuovo mondo da parte degli europei, vi è anche la più recente  vicenda delle comunità d’immigrati italiani che nelle diverse aree del globo  hanno per decenni ricostruito nei luoghi d’immigrazione la cucina d’origine oppure hanno coltivato vigneti e prodotto vino adoperando i nomi che memoria e nostalgia hanno trasformato in nuovi segni identitari. Per essi chiamare Chianti il loro vino non procura alcun rimorso, nessun senso di colpa, anzi costituisce motivo di orgoglio.  Tutto questo non si può cancellare con colpi di spugna ripristinando purezze che non vengono riconosciute. Ma esige una indagine approfondita, dal punto di vista storico, sociologico e antropologico, per confrontare le nostre ragioni con le ragioni degli altri e trovare nuovi equilibri. La stessa materia dei diritti dovrà confrontarsi con le tecnologie telematiche, che inducono la necessità di una nuova sintesi tra il concetto tradizionale di territorio e il concetto di spazio, virtuale e senza confini.

In definitiva, la battaglia per difendere i segni identitari delle produzioni è tutt’uno con l’impegno per integrare le diverse culture in un progressivo avanzamento dei diritti di cittadinanza di produttori e consumatori, nonché delle sedi multilaterali di governo democratico della globalizzazione.