La via Francigena all’alba della nuova Europa: il sentiero, il cammino, la sosta

La via Francigena era chiamata in origine "Strada di Monte Bardone", denominazione che rievoca i Longobardi che l’avevano tracciata per scendere nel "Giardino dell’Impero". Ma ricorda anche l’appellativo "Lombardi", esteso a tutti gli italiani dediti agli affari, che erravano nel Nord Europa a fare traffici da una fiera all’altra e che mettevano a frutto tecniche bancarie e commerciali ancora sconosciute in quei paesi.

Non solo pellegrini, invasori e mercanti la percorrevano. Anche uomini di cultura, sia quelli che venivano in Italia a cercare il passato, sia quelli che dall’Italia esportavano saperi e conoscenze utili per l’avvenire dell’Europa.

Lungo la via Francigena si definì il duplice carattere del rapporto tra città e campagne. A nord delle Alpi erano le campagne che si addensavano nelle città. A sud delle Alpi erano le città che organizzavano le campagne circostanti.

La cosiddetta "civiltà urbana" italiana del Medioevo, tranne poche eccezioni come Genova e Venezia, fu, in effetti, una civiltà "agrario-urbana". Città e campagne erano due facce della stessa medaglia e "l’Italia delle cento città" era affiancata da mille campagne.

Era una campagna marcatamente dinamica quella che si delineava nell’Italia comunale. Il rinnovamento interessò l’assetto degli insediamenti, quello della proprietà, la distribuzione delle coltivazioni, le condizioni di vita dei contadini e le forme di conduzione della terra.

Fu allora che nacquero i consorzi di proprietari interessati alla gestione di terre acquitrinose e apparvero per la prima volta le norme per un ambiente che la crescita della popolazione aveva strappato al suo originario aspetto selvaggio, ma che mostrava già chiari segni di usura.

Per soddisfare nuove esigenze alimentari delle città, si dilatò la coltura della vite e si espansero le "terre da pane", come venivano chiamati i campi seminati a cereali.

Mentre le città non aumentavano di numero ma si espandevano soltanto, gli insediamenti rurali nascevano, morivano e si trasformavano senza sosta in un continuo processo di riorganizzazione dell’habitat, delle colture e delle proprietà.

Caratterizzavano i territori toccati dalla Via Francigena tre modelli di azienda agricola: la grangia cistercense nell’Italia settentrionale, il podere mezzadrile in Toscana, il casale nel Lazio. Tipologie completamente diverse che rimandavano a culture locali profondamente differenti.

Questi rapidi cenni alla storia delle campagne medievali dimostrano come l’evoluzione dei territori rurali  sia parte integrante dell’identità originariamente europea del nostro Paese e delle radici dell’Europa. Ma servono anche per sottolineare che promuovere la tutela, il recupero e la valorizzazione delle funzioni della via Francigena sarebbe un’operazione parziale senza la riscoperta dell’insieme dei valori che sottendono la complessa rete di attività e relazioni addensatesi lungo il tracciato.

Dunque, non si può fare a meno di approfondire la conoscenza e salvaguardare la memoria anche di  quella che è stata l’evoluzione socio-economica e ambientale degli spazi rurali. Si tratta di un impegno finalizzato, senza dubbio,  ad attivare interventi legati alla valorizzazione delle produzioni tipiche, artigianali e gastronomiche, alla sentieristica, al restauro dei paesaggi, al recupero dei valori architettonici dei fabbricati rurali, alla ricettività e alla promozione turistica. Ma c’è un’altra finalità ancora più pregnante ed è la riappropriazione di culture, valori e saperi per poterli rielaborare e ricalare in forme moderne nella realtà odierna.

Oggi si parla tanto dello sviluppo rurale come processo integrato di programmazione e gestione del territorio. Ma la rinascita della ruralità, come nuovo modello che può attenuare l’omologazione delle società urbane e le tipologie standardizzate di vita e di consumo, è credibile se si fonda sulla ricostruzione, senza banalizzazioni, di valori effettivi e non fittizi.

Riscoprire le grange cistercensi non significa solo ammirare la bravura di quei monaci che sapevano  sfruttare le conoscenze tecniche locali e metterle in pratica su larga scala. Non vuol dire solo rimanere estasiati dinanzi alla capacità di quei frati che gestivano gli immensi patrimoni con l’intento di razionalizzare l’economia curtense attraverso l’insediamento dei conversi nelle innumerevoli case svuotate dei loro abitanti. Non è solo recuperare dal degrado i monasteri medievali.

Si tratta anche di prendere atto che ora esistono "nuovi monasteri", “grange del Duemila”, laiche e religiose, luoghi del “fare” e del “pensare”.  Mi riferisco alle comunità per il recupero dei tossicodipendenti, luoghi in cui la vita sociale, il lavoro comune e la condivisione dei valori, laici e religiosi, favoriscono il distacco dalle sostanze stupefacenti e accompagnano il passaggio verso la realizzazione personale.

I nuovi monasteri sono le fattorie sociali dove le pertinenze aziendali e le attività di coltivazione e di allevamento diventano occasioni per valorizzare le diverse abilità che si manifestano  nelle persone svantaggiate.

Sono i patti territoriali per lo sviluppo sociale delle aree rurali, dove l’irrobustimento delle reti di protezione su basi di socialità responsabile e di auto-aiuto è condizione per accrescere la competitività dei territori.

La rete dei vecchi e dei nuovi monasteri è in posizione di attesa fino a quando non saremo capaci di attivare tutte le potenzialità, ricostruendo prima i processi storici che hanno condotto a tale patrimonio e approfondendo i processi da cui scaturiscono le recenti esperienze di agricoltura sociale.

Così pure riscoprire i poderi mezzadrili non significa solo coltivare il sogno di farci la casa in Val d’Orcia. Si tratta anche di comprendere perché la mezzadria dal Medioevo si è protratta fin quasi ai nostri giorni. E di ricercare le ragioni per le quali da tali rapporti è poi nata l’economia della Terza Italia. L’approfondimento di quel sistema molto duttile di relazioni ci può soccorrere per costruire una rete di distretti rurali e agroalimentari di qualità, fatta di contratti e convenzioni tra il pubblico e il privato, dove concentrare e rendere complementari gli innumerevoli piani e programmi di sviluppo che esistono sul territorio.

Infine, riscoprire i casali del Lazio non significa solo venire a conoscenza di una tipica unità di produzione delle grandi terre del latifondo nel basso Medioevo. Un modello produttivo del tutto diverso dal modello dell’insediamento familiare sul fondo coltivato.

In una Campagna Romana caratterizzata da un marcato spopolamento, il casale fu un concentrato di attività per produrre ingenti quantità di beni alimentari da immettere sul mercato cittadino romano e ricavarne ampi profitti.

Le attività che si svolgevano nei casali erano, dunque, lo snodo dei rapporti tra Roma e l’Agro Romano, un’area molto vasta che doveva quasi da sola soddisfare le esigenze alimentari della città capitolina.

Oggi i casali da recuperare dovrebbero diventare moderni centri di cultura rurale, luoghi dove elaborare nuove funzioni della metropoli romana nella globalizzazione. Se la Capitale d’Italia vuole proporsi come cerniera tra il nord e il sud del mondo, bisogna puntare sulla capacità dei nostri sistemi produttivi locali di promuovere sviluppo rurale da realizzare anche mediante le politiche di cooperazione coi paesi terzi.

Ancora una volta, come molti secoli fa, le campagne sono alle prese con trasformazioni profonde. E  soccorre - sia gli agricoltori che devono riadattare il loro mestiere, sia i cittadini alla affannosa ricerca delle proprie radici - la metafora del pellegrino che sceglie la mobilità animata da valori rispetto all’incardinamento ad un feudo, o a un contado. Una mobilità che anticipa una identità proiettata al futuro, fatta di pendolarismo, meticciamento, sottrazione al diktat temporale e organizzativo della società fordista.

Nei territori rurali lungo la via Francigena si torna per cercare non solo sapori e odori perduti, ma anche e soprattutto l’eterna aspirazione a conoscersi e a riconoscersi come simili.