Raddrizzare la rotta senza fermarsi

Ad un anno dall’Assemblea congressuale ci troviamo nella necessità di raddrizzare la rotta strategica e adeguare la struttura organizzativa.

Non c’è da drammatizzare. Quando i cambiamenti sono repentini, bisogna avere l’agilità di apportare gli adattamenti in corso d’opera, senza fermarsi.

La relazione del presidente mette bene a fuoco i mutamenti di scenario entro cui occorre apportare le necessarie correzioni.

Ma i punti da perfezionare devono essere ben visibili e l’intera Confederazione li deve vivere come adattamenti utili. Altrimenti domani continueremo a fare esattamente quello che facevamo ieri.

Vorrei sottolineare tre grandi questioni da affrontare per raddrizzare il nostro asse strategico.

La prima questione riguarda il modello di agricoltura europea e le conseguenze che ne dobbiamo trarre.

Al centro di tale modello non c’è più l’agricoltore in quanto tale, ma le conseguenze delle sue attività, il suo progetto. Dunque, ci sono i sistemi produttivi territoriali, i servizi multifunzionali, le aspettative dei consumatori e dei cittadini.

Al suo centro ci sarà sempre più una concezione dello sviluppo rurale come processo integrato di programmazione e gestione del territorio, un processo intersettoriale e interdisciplinare.

E’ evidente che siamo ad un giro di boa.  Siamo ad una svolta profonda che si presta a due letture: una povera ed una ricca.

Con la prima, ci si limita a raccogliere in modo generico le sensibilità ambientaliste e le preoccupazioni dei cittadini per la sicurezza alimentare.

E si interpreta questo passaggio epocale nelle politiche agricole come pura operazione di immagine, come espediente per tentare di salvarci dal tracollo. Un approccio pericoloso, perché potrebbe tramutarsi davvero in un genocidio antropologico e culturale del mondo che rappresentiamo ed in una marginalizzazione irreversibile della nostra funzione.

Con l’altra lettura, quella ricca, si parte, invece, da un approfondimento del modo come la società post-industriale percepisce l’agricoltura e il mondo rurale. E notiamo che c’è stata una significativa evoluzione negli ultimi anni. Non ci troviamo più dinanzi ad una generica sensibilità per l’ambiente e per la qualità dei cibi che mangiamo. Ma sta emergendo un bisogno più profondo, avvertito dai cittadini, di riavvicinarsi agli agricoltori, al mondo rurale, ad una cultura non ridotta a folclore, ma viva e funzionale, alla qualità della vita, che può essere goduta in una campagna dinamica.

Sono bisogni nuovi, che nascono dalla crisi del modello urbano e industriale, da uno sconvolgimento di valori e da una vera e propria crisi di identità.

A questi nuovi bisogni non possiamo rispondere chiudendoci in un atteggiamento difensivo. Ma dobbiamo cogliere in questa nuova domanda una grande opportunità per diventare noi protagonisti, insieme ad altri soggetti, di un nuovo modello di ruralità, una ruralità post-industriale.

Vedete! Quando il tipo di sviluppo era di tipo industriale, il sostegno pubblico che era riservato alla nostra gente, in via quasi esclusiva, garantiva anche la salvaguardia delle aree rurali.

Ora, nella fase post-fordista dello sviluppo, la situazione è capovolta. Senza un parallelo sostegno allo sviluppo di tutte le aree rurali, noi non siamo in grado di garantire da soli un’agricoltura che sia ecocompatibile e, al tempo stesso, vivida, competitiva, redditizia.

E’ questo il paradosso con cui abbiamo a che fare. Il traguardo della competitività non riguarda soltanto le singole imprese, ma l’insieme dei territori. Anzi va detto di più. Se i territori non diventeranno competitivi non lo saranno nemmeno le imprese. La nostra gente non lo sarà.

Le conseguenze di questo capovolgimento di prospettiva sono per noi straordinariamente dense di opportunità.

Si allarga l’agricoltura di servizio, diventano meno netti i confini tra i settori, si sovrappongono lavoro autonomo e lavoro dipendente, prende piede la logica distrettuale, si aprono processi di delega convenzionata in cui il pubblico affida funzioni di interesse collettivo alle imprese ed ai sistemi agricoli, emerge una infinità di nuovi soggetti non rappresentati da nessuno che sono disponibili ad entrare nei nostri sistemi.

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: ci candidiamo a rappresentare questa nuova ruralità che cresce e si allarga o ci limitiamo a difendere ciò che ora siamo?

Attenzione! Se ci mettiamo sulla difensiva, rischiamo di essere conniventi dei nostri carnefici. Se, viceversa, spostiamo in avanti i nostri confini, se offriamo rappresentanza a soggetti a noi contigui, le cui attività non sono proprio quelle che  noi tradizionalmente svolgiamo, diventeremo più forti e avremo più opportunità, non già per sopravvivere ma per essere protagonisti all’interno dei nuovi processi di sviluppo. Avremo a disposizione più scelte, più strategie della qualità da adottare.

Addirittura sulle pensioni agli agricoltori, potremo rintuzzare meglio le critiche dei sindacati, proponendo noi di ampliare la platea contributiva, perché, nel frattempo, saremo diventati molto più numerosi di quanto lo siamo attualmente.

Ma questa volontà di espansione della nostra capacità di rappresentanza dobbiamo affermarla con chiarezza, non a mezza bocca, perché altrimenti non la percepisce nessuno, non diventa mobilitante e, quel che più conta, non si tramuta in scelte organizzative, in obiettivi di crescita delle risorse finanziarie, in un allargamento del nostro sistema.

La seconda questione riguarda il tema dell’inclusione sociale, come elemento centrale di equilibrio e sostenibilità delle dinamiche di sviluppo dei territori rurali.

Qui c’è un vero e proprio salto culturale che dobbiamo compiere.

Lo spazio rurale è depositario di risorse materiali e immateriali, di valori che fanno riferimento alla responsabilità sociale, alla collaborazione e alla reciprocità. Si tratta di risorse e valori che ne fanno un luogo privilegiato dove sperimentare percorsi di inclusione sociale nell’ambito di progetti di sviluppo locale.

E’ qui che si può ricostituire quel nesso tra sviluppo e coesione che non viene più garantito dai tradizionali strumenti redistributivi.

Al centro va posto il progetto dell’impresa agricola, la sua capacità di ampliare le proprie attività di servizio e di raccordarsi con altri soggetti  per qualificare e consolidare le reti di protezione sociale, promuovere il passaggio dalla società del disagio alla società dell’accoglienza e assicurare un innalzamento della qualità della vita a tutti i cittadini.

Se lo sviluppo rurale non vuole tradursi in una banalizzazione dei valori presenti nelle aree rurali, con un rischio di erosione delle culture locali, è necessario avviare un percorso che accresca la reputazione dell’agricoltura come settore che permette, più di ogni altro, alle ragioni dello sviluppo ed a quelle della solidarietà di incrociarsi e fecondarsi a vicenda.

La terza questione riguarda l’apertura dell’area di libero scambio nella regione euro-mediterranea entro il 2010 e il modo come anche noi prepariamo tale evento. Esso non può essere affrontato solo dall’ottica dei mercati, aprendo i cosiddetti "corridoi verdi", dal nome suggestivo quanto dall’esito incerto.

Come è noto, i “corridoi verdi” sono una sorta di area Shengen negli scambi commerciali tra l’Unione europea e i paesi terzi che si affacciano sul Mediterraneo.

Nella migliore delle ipotesi, i "corridoi verdi&uot; potrebbero rappresentare un debole argine ad una importazione disordinata e di massa. Nella peggiore, potrebbero costituire una porta aperta per riempire i banchi della grande distribuzione con prodotti a basso prezzo.

Bisogna puntare soprattutto sulla capacità dei nostri sistemi produttivi e tecnologici di promuovere la cooperazione allo sviluppo, su aree di comune interesse, quali il miglioramento qualitativo dei prodotti, la protezione delle risorse naturali, le tecniche irrigue, la sicurezza alimentare, la valorizzazione delle risorse locali, l’agricoltura di servizio, lo sviluppo sociale delle aree rurali.

Si stanno per avviare i negoziati per i Programmi MEDA III e bisogna ottenere un maggiore spazio, anche finanziario, per lo sviluppo rurale.

La cooperazione internazionale va concepita come opportunità per mobilitare risorse locali, sistemi imprenditoriali, centri di ricerca, poli tecnologici, centri di produzione culturale, sistemi delle aree protette, sistemi della bonifica.

Si tratta di creare sinergie tra territori e culture rurali diverse, scambi di buone pratiche, rapporti tra le organizzazioni sociali dei rispettivi paesi, tra comunità di immigrati e regioni d’origine.

E’ sullo sviluppo rurale che si giocherà la partita dell’integrazione. E, dunque, ci vogliono politiche efficaci, azioni progettuali, capacità di relazioni che mettono in gioco  realtà diverse.

Una metropoli come Roma, se vuole davvero diventare cerniera tra nord e sud del mondo, lo potrà fare solo se condividerà con tutto il Lazio questa missione, perché bisognerà mobilitare sistemi produttivi e non solo poli tecnologici.

 E ancora. In un’Europa che si allarga ad Est e non riesce a darsi una Costituzione, i sistemi rurali del Mezzogiorno d’Italia potranno aspirare ad una centralità europea, se diventeranno protagonisti nei processi di sviluppo da avviare nella regione euro-mediterranea.

Ho finito. Le tre questioni che ho indicato meritano approfondimenti programmatici di non poco conto.

Abbiamo tre mesi da spendere bene, da qui alla prossima Assemblea di primavera, per dibattere, soprattutto nel territorio, questi punti ed altri indicati da Pacetti e Politi,  e così compiere scelte precise e coraggiose e trarne le conseguenze organizzative.

Guai, però, se ci avviluppiamo su soluzioni organizzative che non dipendono da scelte strategiche, ma da meri atti amministrativi, che avremmo già dovuto compiere e rispetto ai quali siamo soltanto inadempienti.

Il risanamento finanziario di un’organizzazione è solo un prerequisito di un progetto strategico.

Avviamolo, dunque, sin da oggi, senza tergiversare ulteriormente.

Impegniamoci a portare all’Assemblea di primavera  un rendiconto dei primi atti compiuti.

Solo così, con gli animi sgombri dell’apprensione che ora ci domina, potremo rilanciare, con entusiasmo e fierezza, il progetto per il futuro nostro e dell’agricoltura italiana.