Presentazione
del libro “Tavole e bottiglie eccellenti della Calabria” di Peppino
Antelmi
Desidero
anch’io complimentarmi con Peppino Antelmi per aver realizzato un’opera di
qualità, in cui i protagonisti dei distretti agricoli e rurali calabresi
raccontano le proprie esperienze, annodandole ad una condivisa identità
regionale. Dalle pagine del volume emerge la corposità di una cultura
agroalimentare, che si intreccia con la storia e le bellezze paesaggistiche ed
architettoniche dei diversi luoghi, e di una imprenditoria ben disposta a
catalizzarsi in reti locali e filiere produttive, nonché a fare da
“molla” per il territorio nello scenario globale.
Alle
reti allude la metafora dei tratti di strada che collegano e unificano le
differenti realtà e forniscono il titolo ai diversi capitoli. Itinerari che
rimandano ai racconti dei viaggiatori europei del ‘700 e dell’800 che
visitarono il Mezzogiorno d’Italia, a “Vecchia Calabria” di Norman
Douglas, a “Itinerari Italiani” di Corrado Alvaro e al romanzo epico e
fantastico di Stefano d’Arrigo “Horcinus Orca”, in cui è descritto il
percorso dell’ulisside protagonista che torna a casa sul litorale dello
Stretto di Messina.
Ma,
più delle altre, a me “Tavole e bottiglie eccellenti” richiama alla
memoria quella geniale opera incompiuta di Rocco Scotellaro che è
“Contadini del Sud”. Cosa sono quelle stupende biografie di produttori e
personaggi caratteristici del Mezzogiorno agricolo degli anni ‘50, se non il
tentativo di ricavare dall’inchiesta elementi interpretativi delle culture
particolari addensate nei diversi territori?
Dal
libro di Antelmi vien fuori il tormentato rapporto della Calabria coi suoi
conquistatori. Per secoli le popolazioni erano insediate lungo gli ottocento
chilometri di costa. Poi si sono messe al sicuro nella montagna interna per
difendersi dagli invasori e dalla malaria. E solo da qualche decennio sono
scese di nuovo a valle. Ma il benessere è dato dall’equilibrato rapporto
tra insediamenti montani e quelli vallivi. E senza invasori che premono ci si
può finalmente ridistribuire sul territorio.
I
due grandi processi di grecizzazione, avvenuti a distanza di un millennio
l’uno dall’altro, ci fanno, invece, riflettere sulla singolarità di
questa terra che ogni mille anni si stacca culturalmente ed economicamente dal
resto dell’Italia e dell’Europa. Con l’allargamento ad est dell’Unione
Europea si ripresenta, all’alba del terzo millennio, il rischio di una nuova
emarginazione, se la costruzione europea non viene incardinata sulla capacità
di integrare culture diverse.
Questi
processi ci aiutano a capire il nostro modello agroalimentare, che non è
un’operazione nostalgica, non è un tentativo di difendersi da una modernità
non gradita, non è un ritorno ad una naturalità mai esistita. Ma è
un’attitudine – che qui possediamo in modo spiccato – a percepire le
complesse interazioni tra alimentazione, ambiente, cultura ed economia; una
capacità di considerare il mondo che ci circonda come l’esito di una storia
di scambi e di riconoscere le culture particolari di un territorio come il
risultato di meticciamenti, passaggi, invasioni, viaggi.
Sono
stereotipi duri a morire, quelli che identificano il mondo contadino con una
società immobile e statica e la tipicità di prodotti e cucine locali con la
mera tutela della tradizione. I passaggi storici non sono mai traumatici, ma
sono l’esito di piccoli e lenti mutamenti, accelerazioni e persistenze, a
volte anche arretramenti. E la storia di un alimento è fatta di continue
contaminazioni con culture diverse e nuove tecnologie. La tipicità di un
prodotto è un’innovazione ben riuscita, un’invenzione dell’oggi in
presenza di nuovi saperi.
Il
mito industrialista, che ha imperato negli ultimi decenni anche nel
Mezzogiorno, ha offuscato valori essenziali della civiltà contadina, come il
senso profondo dei legami familiari, la coscienza della vita e della morte,
del destino e della condizione umana, della felicità e della saggezza. Agli
spiriti progressisti e al positivismo economicistico questi valori sono
apparsi come un oscuro relitto del passato, una barriera insormontabile alla
crescita del sistema economico e al processo di modernizzazione. Lo sviluppo
è stato considerato come distruzione cieca, quasi euforica, del passato.
Quella
“forma mentis” finalmente ora è in crisi e si può tornare a porre
l’esigenza di integrare valori senza falsificarli, di perseguire la modernità
rispettando la tradizione, di riscoprire i tesori della civiltà contadina per
dare identità e forza competitiva ai distretti agricoli e rurali dei nostri
tanti Mezzogiorno.
Ci
parla di queste cose il bel libro che ci ha donato Peppino Antelmi.