"La qualità legata al territorio: una politica per i prodotti tradizionali"

 

 

I

 

Con questo Convegno desideriamo proporre alle Regioni del Centro-Italia un’ipotesi di collaborazione per tutelare e valorizzare i prodotti tradizionali.

L’iniziativa si colloca nel solco di un impegno delle istituzioni e delle forze sociali – supportate in modo efficace dal Cnel e, segnatamente, dal suo Consigliere e nostro Presidente Aggiunto Bellotti – teso a far emergere tratti e interessi comuni delle cinque Regioni al fine di promuovere intese di programma e progetti partecipati dalle organizzazioni imprenditoriali.

L’Italia centrale è ricca di prodotti tipici che richiamano valori culturali di comunità locali, contribuiscono ad evocare la memoria storica d’intere aree rurali e sono frutto di antichi saperi, esperienze consolidate nel tempo e applicazioni di tecnologie moderne.

Si tratta di un patrimonio collettivo che, adeguatamente tutelato e valorizzato, può dare benessere, occupazione e sviluppo.

I nuovi bisogni della società contemporanea fanno si che la tipicità delle produzioni, le bellezze naturali, il paesaggio agrario, i gioielli architettonici e le tradizioni locali – che costituiscono il vero e proprio patrimonio genetico del mondo agricolo – diventino opportunità per sviluppare molteplici funzioni di tipo economico, ambientale e culturale. Tali funzioni si integrano, spesso già in modo efficiente, in uno spazio caratterizzato dall’agricoltura produttiva, come attività economica fondamentale. E’ questa la nuova ruralità, i cui valori tradizionali si riproducono  in modo dinamico e sostengono, in chiave moderna, lo sviluppo di una molteplicità di relazioni e di una capacità di allocazione efficiente delle risorse di un determinato territorio.

Il Centro-Italia ha innumerevoli possibilità per sperimentare uno sviluppo rurale correttamente inteso, perché il suo territorio è costellato di prodotti tipici.

Finora solo una ventina tra questi si è fregiata della denominazione d’origine o dell’indicazione geografica protetta. Numerosi altri prodotti con le medesime caratteristiche non sono identificati e sono privi di disciplinari. Spesso la tenuità delle derrate interessate sconsiglia l’accesso alla complessità del sistema delle denominazioni. Inoltre, tale accesso è precluso ai prodotti che presentano quei caratteri di eterogeneità che, invece, è utile mantenere. Si tratta di elementi peculiari, frutto di diverse combinazioni di spezie ed aromi, che non compromettono la riconoscibilità dei prodotti, ma servono a darne uno “charme” particolare e personalizzato. Già Plinio il vecchio, Columella e il medico Galeno rilevarono come alla determinazione del gusto e del valore nutritivo degli alimenti concorrevano sia il prodotto agricolo in sé, che la pratica dell’arte della conservazione.

Riteniamo - ecco il punto di partenza del nostro ragionamento - che le attuali condizioni di un mercato che si globalizza e di una società che accresce qualitativamente le proprie esigenze fanno si che il  riconoscimento pubblico della tipicità di un prodotto sia lo strumento per evitare il rischio di una sua dispersione. E’ inevitabile che una tradizione orale svanisce se non si trasforma in una tradizione scritta e, nel nostro caso, in un disciplinare. Peraltro, le metodiche tramandate solo oralmente, che contemplano già prescrizioni igienico-sanitarie collaudate da secoli di storia, spesso non sono considerate dalle recenti normative sulla sicurezza degli alimenti che fanno riferimento a standard di tipo industriale. E non è sufficiente la buona volontà delle autorità sanitarie – quando pure si manifesta – a tradurre le flessibilità già previste dall’Unione europea in autorizzazioni specifiche e in applicazioni semplificate delle norme.

Un adattamento elastico delle prescrizioni di legge è possibile se si trasferisce in un manuale di corretta pratica igienica la regola sanitaria che deriva dalla tradizione orale. E’ già questa un’esigenza concreta che impone l’adozione di un sistema di riconoscimento pubblico. In tale ambito, infatti, può continuare ad esercitarsi la responsabilità del produttore nell’assicurare, in prima istanza, al consumatore la sanità e la tipicità di un prodotto. Ben vengano, pertanto,  iniziative come quella promossa da Slow Food. Essa condivide la nostra stessa preoccupazione sui rischi che corre il patrimonio enogastronomico italiano, ed ha lanciato un appello al legislatore perché intervenga.

Il nostro intento è fare uno sforzo di concretezza, non attendere inerti l’emanazione di nuove norme, ma proporre delle soluzioni fattibili immediatamente e, su di esse, confrontarci oggi con le Regioni del Centro-Italia e venerdì prossimo a Roma con il Ministro delle Politiche agricole, le altre organizzazioni professionali e quelle ambientaliste.

 

II

 

Proponiamo un decalogo per tutelare e valorizzare i prodotti tradizionali. Si tratta di realizzare una serie di azioni concrete per intrecciare la sicurezza igienico-sanitaria con la qualità legata al territorio e con la valorizzazione di mercato. I tre aspetti non si possono scindere se vogliamo effettivamente difendere tali prodotti e contrastare sia le posizioni di chi, in virtù di una pretesa scientificità, mira a standardizzare e omologare modelli di produzione e consumo a livello mondiale, sia quelle di chi tende a ghettizzare i prodotti tipici in piccole nicchie di produzione e in circoli élitari di consumo, senza offrire assetti organizzativi moderni e spendibili sul mercato e un rapporto continuo con la ricerca scientifica.

Il primo punto riguarda l’individuazione del prodotto tradizionale. E’ quel prodotto che presenta caratteristiche di qualità fortemente legate al territorio e per il quale non è stata avviata la procedura di riconoscimento come Dop o Igp per l’esiguità o l’eterogeneità delle derrate interessate. Si tratta molto spesso di produzioni di assoluta eccellenza, che si caratterizzano come “arte del particolare” e per profili organolettici peculiari. Rispondono ad una molteplicità di attese di gratificazione culturale e psicologica, oltre che nutrizionale e sensoriale. Inoltre, molte produzioni di pregio si trovano lungo la dorsale appenninica e nelle aree protette. Assumere, in questi casi, il disciplinare come documento pubblico e collettivo, sottraendolo alla tradizione orale, è il modo migliore per garantire la continuazione di pratiche  agricole rispettose dell’ambiente.

Il secondo punto è riferito alla procedura di predisposizione del disciplinare. Su iniziativa di uno o più produttori e per ciascun prodotto individuato, si costituisca un Forum aperto agli altri produttori, utilizzatori, distributori e consumatori, nonché agli enti locali e ad organismi culturali territoriali. Compito di questo Forum è la valutazione di uno schema di disciplinare essenziale, semplice e oggettivo, che deve essere preventivamente allestito dai proponenti.

Il terzo punto concerne il meccanismo del riconoscimento pubblico. E’ la Regione che predispone l’Elenco dei prodotti e dei relativi disciplinari e li candida nell’Atlante del patrimonio gastronomico nazionale.

Il quarto punto fa riferimento al sistema di autocontrollo adottato dall’operatore. Si tratta di predisporre “linee guida” semplici, agevoli e su misura delle realtà aziendali. Sicché è il produttore che si assume la responsabilità di attestare in prima istanza la sanità e la tipicità del prodotto.

Il quinto punto individua – laddove è necessario – le modalità per conciliare regole igieniche della tradizione e procedure attuali. Sono i manuali che devono contenere le autorizzazioni specifiche e semplificate, concordate con le Autorità sanitarie.

Il sesto punto riguarda il segno distintivo di qualità. Va apposta in etichetta la menzione “Prodotto tradizionale iscritto nell’Atlante del patrimonio gastronomico”. Tale segnale identifica il prodotto, ne garantisce la conformità al disciplinare e ne attesta la sicurezza igienico-sanitaria.

Il settimo punto concerne il controllo di conformità. Esso deve essere efficace, ma nello stesso tempo il meno costoso possibile e privo di orpelli inutili. Si tratta di utilizzare tutte le basi informative già esistenti sul territorio e di affidare alle organizzazioni professionali il compito di raccordare gli organismi di controllo alle imprese.

L’ottavo punto segnala l’esigenza di sostenere specifiche campagne promozionali e azioni di marketing. Occorre non solo  realizzare studi e servizi di mercato e favorire un’efficace partecipazione a fiere ed esposizioni, ma avviare un “marketing della trasparenza” fondato su relazioni informative corrette tra produzione e consumatori. Tali relazioni vanno considerate un bene pubblico e devono coinvolgere il mondo della scuola e dei mass-media.

Il nono punto indica l’opportunità di formare una Borsa telematica. E’ noto che i canali più usuali di commercializzazione dei prodotti tipici, oltre la vendita diretta, sono rappresentati dalle reti di aziende agrituristiche e dalla ristorazione e distribuzione locale. Al di fuori del territorio di produzione, i canali si fanno più specializzati, dalle "boutique" alimentari alla ristorazione di classe medio-alta.

Pertanto, la Borsa telematica può favorire la concentrazione delle contrattazioni e preparare le imprese all’avvio del commercio elettronico, in corso di definizione a livello mondiale.

Il decimo punto suggerisce di rafforzare il sistema dei servizi. Si tratta di assicurare la partecipazione di tutti i soggetti interessati e di costruire collegamenti organici con gli sportelli tecnologici e centri di ricerca multidisciplinari. E’ necessario raccordare gli scienziati dell’alimentazione, coi biologi, i medici, gli agronomi, gli storici e i cultori delle tradizioni locali.

L’elogio della diversità, infatti, non va confuso con la mera difesa della tradizione. Essa è figlia della storia, mai immobile, ed è il frutto di contaminazioni. Sicché occorre gestire in maniera equilibrata e intelligente il rapporto tra tutela delle tradizioni e spinta al cambiamento derivante dalla ricerca, dalla globalizzazione, dall’integrazione tra culture molteplici e dalla scoperta di nuove proprietà negli alimenti capaci di prevenire le patologie del benessere. Favorendo tale equilibrio è possibile  arricchire ulteriormente e non impoverire la biodiversità e il patrimonio gastronomico a disposizione delle generazioni future.

 

III

 

Il decalogo contiene in modo succinto gli elementi di un programma che intendiamo formulare e realizzare in collaborazione con le Regioni del Centro-Italia.

Come vedete non è un elenco di richieste di proroghe che rimandano e non affrontano i problemi o di deroghe generalizzate e trattamenti privilegiati o addirittura di steccati tra aziende piccole e grandi e  tra i vari settori produttivi.  Gli emendamenti alle norme sull’igiene degli alimenti, introdotti in questi giorni dal Parlamento, accanto a indicazioni volte a semplificare gli adempimenti, ne contengono altre che appaiono estremamente contraddittorie. Tali provvedimenti parziali rischiano di ottenere risultati controproducenti, perché lasciano le produzioni tipiche senza una tutela ed il settore agricolo in una condizione di dipendenza dal resto della filiera. E provocano cadute di immagine, turbative di mercato e confusione nel consumatore.

La sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti va inquadrata in una politica organica della qualità, che deve interessare tutta la filiera, compresi i settori che forniscono i mezzi tecnici, altrimenti è sempre l’agricoltura a pagare anche per le colpe degli altri. Per questo motivo, desideriamo ribadire che la risposta più efficace alla vicenda del “mangime alla diossina” è innanzitutto garantire la visibilità della filiera – a partire dall’origine delle materie prime – e la rintracciabilità dei prodotti immessi sul mercato. Solo in questo modo si possono rassicurare meglio i consumatori ed allontanare per sempre le ombre che, in ogni emergenza alimentare, finiscono per addensarsi ingiustamente sull’agricoltura. Bisogna, poi, affrontare organicamente i problemi emersi. Si tratta di modificare le normative europee sulla composizione dei mangimi e dar vita ad un’Autorità di sorveglianza epidemiologica per un coordinamento europeo dei sistemi di controllo dopo averli armonizzati.

La proposta della Cia di istituire un Comitato partecipato da tutti i soggetti interessati va nella direzione di avviare immediatamente l’identificazione del bestiame e l’etichettatura delle carni. Bisogna essere consapevoli che questi obiettivi non si possono raggiungere con schemi di controllo rigidi, burocratici ed imposti dall’alto. Perché siano efficaci, occorre puntare sull’autogoverno e sulla responsabilizzazione dei produttori, sul potenziamento dei servizi reali alle imprese, sullo sviluppo delle organizzazioni e delle relazioni di filiera, all’interno di un quadro condiviso di regole.

Dalle vicende drammatiche di questi giorni riteniamo che sia necessario trarre stimolo e determinazione per riaffermare l’esigenza di una politica della qualità legata al territorio. L’auspicio è che si ripeta quanto accaduto dieci anni fa, quando in risposta allo scandalo del “vino al metanolo” si avviarono interventi di riorganizzazione nel settore vitivinicolo, con lo sviluppo dell’imbottigliamento, delle denominazioni d’origine, di politiche adeguate di marketing, con risultati positivi sia riguardo al soddisfacimento delle esigenze dei consumatori, sia riguardo ai redditi per i produttori. Non solo si è verificata concretamente la maggiore disponibilità del consumatore a pagare prodotti sicuri. Ma si è anche dimostrata coi fatti l’ingiustizia e la stravaganza del pregiudizio duro a morire, secondo il quale l’artigianalità dei processi rappresenterebbe un disvalore, perché incapace di garantire l’igienicità dei prodotti.

Si tratta, ancora una volta, di adottare, non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo, la strategia della qualità legata al territorio come leva per rendere più competitivi i sistemi agricolo-alimentari territoriali e per dare maggiore sicurezza ai consumatori. In tale quadro, vanno superati gradualmente gli squilibri del comparto zootecnico italiano e la spinta ad una produttività sfrenata, ponendo l’obiettivo di un rapporto più corretto base foraggera/allevamento, attraverso la valorizzazione della tipicità delle carni e dei prodotti lattiero-caseari.

Una efficace gestione dei segni di identità territoriale presuppone un intreccio tra regole pubbliche e impianto normativo volontario sufficientemente flessibile per adattarsi a tutte le specificità settoriali, organizzative e territoriali, che compongono l’immensa ricchezza dei sistemi agricolo-alimentari italiani. In tale ambito, i concetti di autocontrollo, responsabilizzazione dei produttori e valorizzazione del particolare rappresentano dei punti di forza per una reale semplificazione e, nello stesso tempo, per una maggiore efficacia dell’intero impianto normativo igienico-sanitario, a garanzia della sicurezza dei consumatori.

 

 

IV

 

A distanza di otto anni dall’approvazione dei Regolamenti comunitari in materia di Dop e Igp, nel nostro Paese non si è ancora concluso il processo di edificazione delle regole e degli strumenti di gestione di una politica della qualità legata al territorio e manca un disegno strategico al riguardo.

A differenza di altri Paesi europei, l’Italia non ha ancora una sede di indirizzo e coordinamento del complesso sistema dei segni della qualità legata al fattore territoriale, aperto alla partecipazione di tutte le rappresentanze degli interessi coinvolti. L’istituzione di un comitato con tale compito è essenziale per realizzare un quadro condiviso di regole e strumenti. E’ il carattere del sistema della qualità prescelto dall’Unione europea a rendere obbligatoria la partecipazione di tutti i soggetti pubblici e privati interessati. Quando una singola parte del sistema non ha la possibilità di far valere le proprie esigenze, tutto l’impianto si squilibra e si riducono le garanzie per il consumatore.

L’altro elemento di difficoltà è la chiusura netta mostrata dall’Unione europea ad ammettere segni identificativi della provenienza geografica dei prodotti, diversi da quelli regolamentati nelle discipline delle Dop e delle Igp.

E’ noto che la Commissione ha mosso rilievi alle disposizioni che hanno introdotto il marchio identificativo della produzione nazionale, la menzione “prodotto tradizionale” e l’Atlante del patrimonio gastronomico. Vi ha trovato aspetti che ad essa appaiono in contrasto con le norme in materia di aiuti di Stato e di concorrenza, confermando un orientamento negativo già precedentemente assunto per il marchio “prodotti di montagna” ed altri segni distintivi legati al territorio.

Solo ora, modificando alcune norme per la commercializzazione dell’olio d’oliva, l’Unione europea ha introdotto la formula della “designazione di origine”. Si tratta di un regolamento fortemente discutibile - lega l’origine dell’olio alle operazioni di spremitura delle olive - e che va assolutamente modificato. Tuttavia, esso squarcia il muro frapposto dalla Commissione ai tentativi dell’Italia di allargare le proprie politiche della qualità.  Si è, infatti, affermato finalmente il principio che l’indicazione d’origine sull’etichetta o sulla confezione di un prodotto - pur non collegata a specifiche caratteristiche oggettivamente rilevabili e analiticamente misurabili - si caratterizza, una volta garantita e certificata, come strumento di maggiore informazione al consumatore e di leale e corretta concorrenza.

E’ possibile a questo punto delineare una strategia nazionale da far valere a livello comunitario, configurando il sistema della qualità legata al territorio non già come modello rigido, ma come un insieme di opportunità diverse, intrecciate in un contesto unitario.

Questa articolazione è quanto mai opportuna perché corrisponde alla complessità del sistema agricolo alimentare italiano ed europeo, garantisce i gradi di libertà alle scelte imprenditoriali, assicura flessibilità di soluzioni organizzative e capacità di adattamento alle situazioni territoriali.

Si potrebbero individuare quattro grandi filoni della qualità legati al fattore territorio.

1.     Le denominazioni di origine – Dop, Igp e, indirettamente, le Specialità tradizionali garantite – che rappresentano il livello di eccellenza della qualità di prodotto e di processo, richiedono una struttura organizzativa complessa e una certa soglia produttiva, ma garantiscono anche la massima tutela comunitaria.

2.     I prodotti tradizionali, che sono anch’essi prodotti e processi produttivi irripetibili al di fuori di un contesto territoriale definito, ma legati a modelli organizzativi più semplici corrispondenti a livelli produttivi più limitati.

3.     I prodotti di fattoria, che rappresentano il frutto di processi produttivi  fortemente caratterizzati dall’identità di un’azienda agricola e del suo territorio circostante.

4.     Le designazioni d’origine specificate, che  semplicemente si collegano all’identità ed all’appartenenza con una dichiarata area geografica di una Montagna, di un Parco, di una Regione o di uno Stato.

Queste diverse possibilità non rappresentano una rigida classificazione di soluzioni alternative, ma solo un tentativo di descrivere diverse opportunità che si possono offrire alle imprese e ai sistemi agricoli locali. Le denominazioni di origine e i prodotti tradizionali che aggiungono una designazione geografica ulteriore riferita ad un’area montana o ad un parco soddisfano un’ulteriore domanda del consumatore relativa alla protezione ambientale. Inoltre, andrebbe auspicata la capacità evolutiva di alcuni prodotti tradizionali di accedere, dopo una fase di consolidamento e di sviluppo, al riconoscimento della denominazione di origine.

L’Italia deve operare scelte precise se vuole conquistare soluzioni convenienti in sede comunitaria e contribuire a costruire una valida strategia negoziale per il “Millennium Round”. Si tratta di affrontare non solo gli accordi sull’agricoltura, ma anche quelli sulle misure sanitarie e fitosanitarie, sui diritti di proprietà intellettuale e sulle biotecnologie. E’ in questo ambito che occorrerebbe istituire un registro mondiale di tutte le denominazioni di origine e affermare regole volte a garantire la sicurezza alimentare, la conservazione della biodiversità e l’informazione dei consumatori sulla provenienza e sulle caratteristiche dei prodotti e dei processi produttivi. L’Unione europea potrà svolgere una funzione importante se saprà orientare il confronto non solo sulla riduzione dei protezionismi, ma anche, e direi soprattutto, sull’adozione di nuove regole che riguardano la qualità dei prodotti. In tal modo, si potrà rendere effettivamente più equa la concorrenza, evitare distorsioni di mercato e salvaguardare il pluralismo dei sistemi produttivi e dei modelli alimentari.

 

V

 

La nuova politica strutturale e di sviluppo rurale, diventata più consistente a seguito dell’Accordo di Berlino su “Agenda 2000”, offre notevoli possibilità per sviluppare una strategia della qualità legata al territorio.

Per le Regioni del Centro-Italia, proprio in queste settimane, si pone l’esigenza di localizzare in modo equilibrato gli interventi per lo sviluppo rurale.

Noi suggeriamo che essi siano incentrati sull’agricoltura produttiva e sui sistemi imprenditoriali che si riconoscono nella strategia della qualità  territoriale dei prodotti. In tal modo, gli interventi previsti, agendo coerentemente anche sugli altri settori collegati all’agricoltura, le reti infrastrutturali ed i servizi che la interessano, potranno stimolare uno sviluppo rurale armonioso.

Vanno sostenute non solo le giunture che reggono le filiere agricolo-alimentari, ma anche quelle che danno vita a filiere territoriali che collegano agricoltori, operatori turistici e associazioni venatorie, ittiche, ambientaliste, culturali.

Si tratta di fare riferimento alla progettualità e al protagonismo di tutti coloro che si pongono in dialogo per valorizzare all’esterno una ricchezza territoriale collettiva. In questo senso, la delimitazione di distretti rurali,  da parte delle Regioni, può aiutare ad individuare meglio soggetti e zone che danno vita a sistemi locali di sviluppo rurale. La Cia ha già proposto di delimitare le aree delle Marche e dell’Umbria colpite dal terremoto come un unico e grande distretto rurale dove concentrare in modo integrato tutti gli interventi di ricostruzione e sviluppo.

E’ auspicabile che i Piani operativi regionali orientino gli interventi agro-ambientali in modo connesso con l’edificazione di sistemi volti a valorizzare la qualità di produzioni tipiche o provenienti da zone montane ed aree protette specificamente indicate. In tal modo, lo sviluppo di metodi di produzione agricola più rispettosi dell’ambiente - da quelli integrati a quelli biologici - nonché il controllo dei processi adottati e dell’origine del prodotto potranno contribuire ad accrescere lo sviluppo locale fondato sulla qualità territoriale. A tale proposito va ricordato che si è svolto recentemente un incontro tra le Organizzazioni professionali agricole e la Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve naturali. In tale occasione sono state ipotizzate forme di collaborazione per sperimentare e favorire sistemi integrati di valorizzazione dei prodotti, i cui processi devono contestualmente rispondere ai requisiti igienico-sanitari di legge, uniformarsi alle metodiche tradizionali e assicurare il rispetto dell’ambiente e del paesaggio agrario.

Se si considerano tali aspetti, si avverte ancor più la necessità di approntare una Legge di Orientamento, come strumento delle regole e dei principi per accrescere la competitività delle imprese e valorizzare la dimensione multifunzionale del settore.

La dimensione territoriale dello sviluppo ha acquisito la piena legittimazione sul piano politico-istituzionale con l’estensione al settore agricolo degli strumenti della programmazione negoziata. Senza l’agricoltura non si costruiscono strategie sensate di sviluppo territoriale. Peraltro, ritardi e incomprensioni ancora si addensano e impediscono di rendere definitiva questa scelta, nonostante la disponibilità dei finanziamenti. Ma ciò attiene alla più generale disattenzione verso l’agricoltura nell’evoluzione istituzionale del Paese.

La Cia ha espresso una posizione di netta critica sulla decisione del Consiglio dei Ministri di accorpare il Mipa all’interno del futuro Ministero per le attività produttive. Tale decisione è stata presa dal Governo senza discuterla al Tavolo Agricolo. E’ questo il primo rilievo che abbiamo mosso, perchè l’Esecutivo ha istituito il Tavolo proprio con lo scopo di acquisire in quella sede le valutazioni e gli orientamenti del mondo agricolo, prima di assumere ogni determinazione di interesse del settore.

Inoltre, la scelta del Governo è grave perché considerare l’agricoltura come una delle tante attività produttive contraddice lo sforzo che proprio l’Italia insieme agli altri Paesi mediterranei ha compiuto per conquistare in Europa l’attenzione  alla dimensione territoriale del settore primario e alle sue molteplici funzioni produttive, conservative, ambientali e culturali.

La scelta strategica della qualità legata al territorio nasce dalla consapevolezza che possediamo un modello alimentare - derivante da un peculiare intreccio storico tra ambiente, economia e cultura - già riconoscibile a livello mondiale ma bisognevole di strutturarsi meglio in un sistema unitario e coordinato, di interventi e di relazioni, a livello territoriale e sul piano nazionale.

E’ auspicabile che analoga consapevolezza cresca nelle istituzioni e si compiano scelte coerenti ed efficaci anche nel modo come esse stesse devono rinnovarsi e ristrutturarsi. Potrà essere così assecondato il nostro impegno a cogliere un formidabile vantaggio competitivo, derivante dalla nostra storia, ed a cui, in ogni caso, non rinunceremo.