"La qualità legata al territorio: una politica per i prodotti
tradizionali"
I
Con questo Convegno
desideriamo proporre alle Regioni del Centro-Italia un’ipotesi di
collaborazione per tutelare e valorizzare i prodotti tradizionali.
L’iniziativa
si colloca nel solco di un impegno delle istituzioni e delle forze sociali –
supportate in modo efficace dal Cnel e, segnatamente, dal suo Consigliere e
nostro Presidente Aggiunto Bellotti – teso a far emergere tratti e interessi
comuni delle cinque Regioni al fine di promuovere intese di programma e
progetti partecipati dalle organizzazioni imprenditoriali.
L’Italia
centrale è ricca di prodotti tipici che richiamano valori culturali di comunità
locali, contribuiscono ad evocare la memoria storica d’intere aree rurali e
sono frutto di antichi saperi, esperienze consolidate nel tempo e applicazioni
di tecnologie moderne.
Si
tratta di un patrimonio collettivo che, adeguatamente tutelato e valorizzato,
può dare benessere, occupazione e sviluppo.
I
nuovi bisogni della società contemporanea fanno si che la tipicità delle
produzioni, le bellezze naturali, il paesaggio agrario, i gioielli
architettonici e le tradizioni locali – che costituiscono il vero e proprio
patrimonio genetico del mondo agricolo – diventino opportunità per sviluppare
molteplici funzioni di tipo economico, ambientale e culturale. Tali funzioni si
integrano, spesso già in modo efficiente, in uno spazio caratterizzato
dall’agricoltura produttiva, come attività economica fondamentale. E’ questa la
nuova ruralità, i cui valori tradizionali si riproducono in modo dinamico e sostengono, in chiave
moderna, lo sviluppo di una molteplicità di relazioni e di una capacità di
allocazione efficiente delle risorse di un determinato territorio.
Il
Centro-Italia ha innumerevoli possibilità per sperimentare uno sviluppo rurale
correttamente inteso, perché il suo territorio è costellato di prodotti tipici.
Finora
solo una ventina tra questi si è fregiata della denominazione d’origine o
dell’indicazione geografica protetta. Numerosi altri prodotti con le medesime
caratteristiche non sono identificati e sono privi di disciplinari. Spesso la
tenuità delle derrate interessate sconsiglia l’accesso alla complessità del
sistema delle denominazioni. Inoltre, tale accesso è precluso ai prodotti che
presentano quei caratteri di eterogeneità che, invece, è utile mantenere. Si
tratta di elementi peculiari, frutto di diverse combinazioni di spezie ed
aromi, che non compromettono la riconoscibilità dei prodotti, ma servono a
darne uno “charme” particolare e personalizzato. Già Plinio il vecchio,
Columella e il medico Galeno rilevarono come alla determinazione del gusto e del
valore nutritivo degli alimenti concorrevano sia il prodotto agricolo in sé,
che la pratica dell’arte della conservazione.
Riteniamo
- ecco il punto di partenza del nostro ragionamento - che le attuali condizioni
di un mercato che si globalizza e di una società che accresce qualitativamente
le proprie esigenze fanno si che il
riconoscimento pubblico della tipicità di un prodotto sia lo strumento
per evitare il rischio di una sua dispersione. E’ inevitabile che una tradizione
orale svanisce se non si trasforma in una tradizione scritta e, nel nostro
caso, in un disciplinare. Peraltro, le metodiche tramandate solo oralmente, che
contemplano già prescrizioni igienico-sanitarie collaudate da secoli di storia,
spesso non sono considerate dalle recenti normative sulla sicurezza degli
alimenti che fanno riferimento a standard di tipo industriale. E non è
sufficiente la buona volontà delle autorità sanitarie – quando pure si
manifesta – a tradurre le flessibilità già previste dall’Unione europea in
autorizzazioni specifiche e in applicazioni semplificate delle norme.
Un
adattamento elastico delle prescrizioni di legge è possibile se si trasferisce
in un manuale di corretta pratica igienica la regola sanitaria che deriva dalla
tradizione orale. E’ già questa un’esigenza concreta che impone l’adozione di
un sistema di riconoscimento pubblico. In tale ambito, infatti, può continuare
ad esercitarsi la responsabilità del produttore nell’assicurare, in prima
istanza, al consumatore la sanità e la tipicità di un prodotto. Ben vengano,
pertanto, iniziative come quella
promossa da Slow Food. Essa condivide la nostra stessa preoccupazione sui
rischi che corre il patrimonio enogastronomico italiano, ed ha lanciato un
appello al legislatore perché intervenga.
Il
nostro intento è fare uno sforzo di concretezza, non attendere inerti
l’emanazione di nuove norme, ma proporre delle soluzioni fattibili
immediatamente e, su di esse, confrontarci oggi con le Regioni del
Centro-Italia e venerdì prossimo a Roma con il Ministro delle Politiche
agricole, le altre organizzazioni professionali e quelle ambientaliste.
II
Proponiamo
un decalogo per tutelare e valorizzare
i prodotti tradizionali. Si tratta di realizzare una serie di azioni
concrete per intrecciare la sicurezza igienico-sanitaria con la qualità legata
al territorio e con la valorizzazione di mercato. I tre aspetti non si possono
scindere se vogliamo effettivamente difendere tali prodotti e contrastare sia
le posizioni di chi, in virtù di una pretesa scientificità, mira a standardizzare
e omologare modelli di produzione e consumo a livello mondiale, sia quelle di
chi tende a ghettizzare i prodotti tipici in piccole nicchie di produzione e in
circoli élitari di consumo, senza offrire assetti organizzativi moderni e
spendibili sul mercato e un rapporto continuo con la ricerca scientifica.
Il
primo punto riguarda l’individuazione del prodotto tradizionale. E’ quel prodotto che presenta caratteristiche di qualità
fortemente legate al territorio e per il quale non è stata avviata la procedura
di riconoscimento come Dop o Igp per l’esiguità o l’eterogeneità delle derrate
interessate. Si tratta molto spesso di produzioni di assoluta eccellenza, che
si caratterizzano come “arte del particolare” e per profili organolettici
peculiari. Rispondono ad una molteplicità di attese di gratificazione culturale
e psicologica, oltre che nutrizionale e sensoriale. Inoltre, molte produzioni
di pregio si trovano lungo la dorsale appenninica e nelle aree protette.
Assumere, in questi casi, il disciplinare come documento pubblico e collettivo,
sottraendolo alla tradizione orale, è il modo migliore per garantire la
continuazione di pratiche agricole
rispettose dell’ambiente.
Il
secondo punto è riferito alla procedura di predisposizione del disciplinare. Su iniziativa di uno o più produttori e per ciascun prodotto
individuato, si costituisca un Forum aperto agli altri produttori,
utilizzatori, distributori e consumatori, nonché agli enti locali e ad
organismi culturali territoriali. Compito di questo Forum è la valutazione di
uno schema di disciplinare essenziale, semplice e oggettivo, che deve essere
preventivamente allestito dai proponenti.
Il
terzo punto concerne il meccanismo del riconoscimento pubblico. E’ la Regione che predispone l’Elenco dei prodotti e dei
relativi disciplinari e li candida nell’Atlante del patrimonio gastronomico
nazionale.
Il
quarto punto fa riferimento al sistema di autocontrollo adottato
dall’operatore. Si tratta di
predisporre “linee guida” semplici, agevoli e su misura delle realtà aziendali.
Sicché è il produttore che si assume la responsabilità di attestare in prima
istanza la sanità e la tipicità del prodotto.
Il
quinto punto individua – laddove è necessario – le modalità per conciliare
regole igieniche della tradizione e procedure attuali. Sono i manuali che devono contenere le autorizzazioni specifiche
e semplificate, concordate con le Autorità sanitarie.
Il
sesto punto riguarda il segno distintivo di qualità. Va apposta in etichetta la menzione “Prodotto tradizionale
iscritto nell’Atlante del patrimonio gastronomico”. Tale segnale identifica il
prodotto, ne garantisce la conformità al disciplinare e ne attesta la sicurezza
igienico-sanitaria.
Il
settimo punto concerne il controllo di conformità. Esso deve essere efficace, ma nello stesso tempo il meno costoso
possibile e privo di orpelli inutili. Si tratta di utilizzare tutte le basi
informative già esistenti sul territorio e di affidare alle organizzazioni
professionali il compito di raccordare gli organismi di controllo alle imprese.
L’ottavo
punto segnala l’esigenza di sostenere specifiche campagne promozionali e azioni
di marketing. Occorre non solo realizzare studi e servizi di mercato e
favorire un’efficace partecipazione a fiere ed esposizioni, ma avviare un
“marketing della trasparenza” fondato su relazioni informative corrette tra
produzione e consumatori. Tali relazioni vanno considerate un bene pubblico e
devono coinvolgere il mondo della scuola e dei mass-media.
Il
nono punto indica l’opportunità di formare una Borsa telematica. E’ noto che i canali più usuali di commercializzazione dei
prodotti tipici, oltre la vendita diretta, sono rappresentati dalle reti di
aziende agrituristiche e dalla ristorazione e distribuzione locale. Al di fuori
del territorio di produzione, i canali si fanno più specializzati, dalle
"boutique" alimentari alla ristorazione di classe medio-alta.
Pertanto,
la Borsa telematica può favorire la concentrazione delle contrattazioni e
preparare le imprese all’avvio del commercio elettronico, in corso di
definizione a livello mondiale.
Il
decimo punto suggerisce di rafforzare il sistema dei servizi. Si tratta di assicurare la partecipazione di tutti i soggetti
interessati e di costruire collegamenti organici con gli sportelli tecnologici
e centri di ricerca multidisciplinari. E’ necessario raccordare gli scienziati
dell’alimentazione, coi biologi, i medici, gli agronomi, gli storici e i
cultori delle tradizioni locali.
L’elogio
della diversità, infatti, non va confuso con la mera difesa della tradizione.
Essa è figlia della storia, mai immobile, ed è il frutto di contaminazioni.
Sicché occorre gestire in maniera equilibrata e intelligente il rapporto tra
tutela delle tradizioni e spinta al cambiamento derivante dalla ricerca, dalla
globalizzazione, dall’integrazione tra culture molteplici e dalla scoperta di
nuove proprietà negli alimenti capaci di prevenire le patologie del benessere.
Favorendo tale equilibrio è possibile
arricchire ulteriormente e non impoverire la biodiversità e il
patrimonio gastronomico a disposizione delle generazioni future.
III
Il
decalogo contiene in modo succinto gli elementi di un programma che intendiamo
formulare e realizzare in collaborazione con le Regioni del Centro-Italia.
Come
vedete non è un elenco di richieste di proroghe che rimandano e non affrontano
i problemi o di deroghe generalizzate e trattamenti privilegiati o addirittura
di steccati tra aziende piccole e grandi e
tra i vari settori produttivi.
Gli emendamenti alle norme sull’igiene degli alimenti, introdotti in
questi giorni dal Parlamento, accanto a indicazioni volte a semplificare gli
adempimenti, ne contengono altre che appaiono estremamente contraddittorie.
Tali provvedimenti parziali rischiano di ottenere risultati controproducenti,
perché lasciano le produzioni tipiche senza una tutela ed il settore agricolo
in una condizione di dipendenza dal resto della filiera. E provocano cadute di
immagine, turbative di mercato e confusione nel consumatore.
La
sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti va inquadrata in una politica
organica della qualità, che deve interessare tutta la filiera, compresi i
settori che forniscono i mezzi tecnici, altrimenti è sempre l’agricoltura a
pagare anche per le colpe degli altri. Per questo motivo, desideriamo ribadire
che la risposta più efficace alla vicenda del “mangime alla diossina” è
innanzitutto garantire la visibilità della filiera – a partire dall’origine
delle materie prime – e la rintracciabilità dei prodotti immessi sul mercato.
Solo in questo modo si possono rassicurare meglio i consumatori ed allontanare
per sempre le ombre che, in ogni emergenza alimentare, finiscono per addensarsi
ingiustamente sull’agricoltura. Bisogna, poi, affrontare organicamente i
problemi emersi. Si tratta di modificare le normative europee sulla
composizione dei mangimi e dar vita ad un’Autorità di sorveglianza
epidemiologica per un coordinamento europeo dei sistemi di controllo dopo
averli armonizzati.
La
proposta della Cia di istituire un Comitato partecipato da tutti i soggetti
interessati va nella direzione di avviare immediatamente l’identificazione del
bestiame e l’etichettatura delle carni. Bisogna essere consapevoli che questi
obiettivi non si possono raggiungere con schemi di controllo rigidi, burocratici
ed imposti dall’alto. Perché siano efficaci, occorre puntare sull’autogoverno e
sulla responsabilizzazione dei produttori, sul potenziamento dei servizi reali
alle imprese, sullo sviluppo delle organizzazioni e delle relazioni di filiera,
all’interno di un quadro condiviso di regole.
Dalle
vicende drammatiche di questi giorni riteniamo che sia necessario trarre
stimolo e determinazione per riaffermare l’esigenza di una politica della
qualità legata al territorio. L’auspicio è che si ripeta quanto accaduto dieci
anni fa, quando in risposta allo scandalo del “vino al metanolo” si avviarono
interventi di riorganizzazione nel settore vitivinicolo, con lo sviluppo
dell’imbottigliamento, delle denominazioni d’origine, di politiche adeguate di
marketing, con risultati positivi sia riguardo al soddisfacimento delle
esigenze dei consumatori, sia riguardo ai redditi per i produttori. Non solo si
è verificata concretamente la maggiore disponibilità del consumatore a pagare
prodotti sicuri. Ma si è anche dimostrata coi fatti l’ingiustizia e la
stravaganza del pregiudizio duro a morire, secondo il quale l’artigianalità dei
processi rappresenterebbe un disvalore, perché incapace di garantire
l’igienicità dei prodotti.
Si
tratta, ancora una volta, di adottare, non solo a livello nazionale ma anche a
livello europeo, la strategia della qualità legata al territorio come leva per
rendere più competitivi i sistemi agricolo-alimentari territoriali e per dare
maggiore sicurezza ai consumatori. In tale quadro, vanno superati gradualmente
gli squilibri del comparto zootecnico italiano e la spinta ad una produttività
sfrenata, ponendo l’obiettivo di un rapporto più corretto base
foraggera/allevamento, attraverso la valorizzazione della tipicità delle carni
e dei prodotti lattiero-caseari.
Una
efficace gestione dei segni di identità territoriale presuppone un intreccio
tra regole pubbliche e impianto normativo volontario sufficientemente
flessibile per adattarsi a tutte le specificità settoriali, organizzative e
territoriali, che compongono l’immensa ricchezza dei sistemi
agricolo-alimentari italiani. In tale ambito, i concetti di autocontrollo,
responsabilizzazione dei produttori e valorizzazione del particolare
rappresentano dei punti di forza per una reale semplificazione e, nello stesso
tempo, per una maggiore efficacia dell’intero impianto normativo
igienico-sanitario, a garanzia della sicurezza dei consumatori.
IV
A
distanza di otto anni dall’approvazione dei Regolamenti comunitari in materia
di Dop e Igp, nel nostro Paese non si è ancora concluso il processo di
edificazione delle regole e degli strumenti di gestione di una politica della
qualità legata al territorio e manca un disegno strategico al riguardo.
A
differenza di altri Paesi europei, l’Italia non ha ancora una sede di indirizzo
e coordinamento del complesso sistema dei segni della qualità legata al fattore
territoriale, aperto alla partecipazione di tutte le rappresentanze degli
interessi coinvolti. L’istituzione di un comitato con tale compito è essenziale
per realizzare un quadro condiviso di regole e strumenti. E’ il carattere del
sistema della qualità prescelto dall’Unione europea a rendere obbligatoria la
partecipazione di tutti i soggetti pubblici e privati interessati. Quando una
singola parte del sistema non ha la possibilità di far valere le proprie
esigenze, tutto l’impianto si squilibra e si riducono le garanzie per il
consumatore.
L’altro
elemento di difficoltà è la chiusura netta mostrata dall’Unione europea ad
ammettere segni identificativi della provenienza geografica dei prodotti,
diversi da quelli regolamentati nelle discipline delle Dop e delle Igp.
E’
noto che la Commissione ha mosso rilievi alle disposizioni che hanno introdotto
il marchio identificativo della produzione nazionale, la menzione “prodotto
tradizionale” e l’Atlante del patrimonio gastronomico. Vi ha trovato aspetti
che ad essa appaiono in contrasto con le norme in materia di aiuti di Stato e
di concorrenza, confermando un orientamento negativo già precedentemente
assunto per il marchio “prodotti di montagna” ed altri segni distintivi legati
al territorio.
Solo
ora, modificando alcune norme per la commercializzazione dell’olio d’oliva,
l’Unione europea ha introdotto la formula della “designazione di origine”. Si
tratta di un regolamento fortemente discutibile - lega l’origine dell’olio alle
operazioni di spremitura delle olive - e che va assolutamente modificato.
Tuttavia, esso squarcia il muro frapposto dalla Commissione ai tentativi
dell’Italia di allargare le proprie politiche della qualità. Si è, infatti, affermato finalmente il
principio che l’indicazione d’origine sull’etichetta o sulla confezione di un
prodotto - pur non collegata a specifiche caratteristiche oggettivamente
rilevabili e analiticamente misurabili - si caratterizza, una volta garantita e
certificata, come strumento di maggiore informazione al consumatore e di leale
e corretta concorrenza.
E’
possibile a questo punto delineare una strategia nazionale da far valere a
livello comunitario, configurando il sistema della qualità legata al territorio
non già come modello rigido, ma come un insieme di opportunità diverse,
intrecciate in un contesto unitario.
Questa
articolazione è quanto mai opportuna perché corrisponde alla complessità del
sistema agricolo alimentare italiano ed europeo, garantisce i gradi di libertà
alle scelte imprenditoriali, assicura flessibilità di soluzioni organizzative e
capacità di adattamento alle situazioni territoriali.
Si
potrebbero individuare quattro grandi filoni della qualità legati al fattore
territorio.
1. Le
denominazioni di origine – Dop, Igp e,
indirettamente, le Specialità tradizionali garantite – che rappresentano il
livello di eccellenza della qualità di prodotto e di processo, richiedono una
struttura organizzativa complessa e una certa soglia produttiva, ma
garantiscono anche la massima tutela comunitaria.
2. I
prodotti tradizionali, che sono
anch’essi prodotti e processi produttivi irripetibili al di fuori di un
contesto territoriale definito, ma legati a modelli organizzativi più semplici
corrispondenti a livelli produttivi più limitati.
3. I
prodotti di fattoria, che
rappresentano il frutto di processi produttivi
fortemente caratterizzati dall’identità di un’azienda agricola e del suo
territorio circostante.
4. Le
designazioni d’origine specificate,
che semplicemente si collegano
all’identità ed all’appartenenza con una dichiarata area geografica di una
Montagna, di un Parco, di una Regione o di uno Stato.
Queste diverse
possibilità non rappresentano una rigida classificazione di soluzioni
alternative, ma solo un tentativo di descrivere diverse opportunità che si
possono offrire alle imprese e ai sistemi agricoli locali. Le denominazioni di
origine e i prodotti tradizionali che aggiungono una designazione geografica
ulteriore riferita ad un’area montana o ad un parco soddisfano un’ulteriore
domanda del consumatore relativa alla protezione ambientale. Inoltre, andrebbe
auspicata la capacità evolutiva di alcuni prodotti tradizionali di accedere,
dopo una fase di consolidamento e di sviluppo, al riconoscimento della
denominazione di origine.
L’Italia
deve operare scelte precise se vuole conquistare soluzioni convenienti in sede
comunitaria e contribuire a costruire una valida strategia negoziale per il
“Millennium Round”. Si tratta di affrontare non solo gli accordi
sull’agricoltura, ma anche quelli sulle misure sanitarie e fitosanitarie, sui
diritti di proprietà intellettuale e sulle biotecnologie. E’ in questo ambito
che occorrerebbe istituire un registro mondiale di tutte le denominazioni di
origine e affermare regole volte a garantire la sicurezza alimentare, la
conservazione della biodiversità e l’informazione dei consumatori sulla
provenienza e sulle caratteristiche dei prodotti e dei processi produttivi.
L’Unione europea potrà svolgere una funzione importante se saprà orientare il
confronto non solo sulla riduzione dei protezionismi, ma anche, e direi
soprattutto, sull’adozione di nuove regole che riguardano la qualità dei
prodotti. In tal modo, si potrà rendere effettivamente più equa la concorrenza,
evitare distorsioni di mercato e salvaguardare il pluralismo dei sistemi
produttivi e dei modelli alimentari.
V
La
nuova politica strutturale e di sviluppo rurale, diventata più consistente a
seguito dell’Accordo di Berlino su “Agenda 2000”, offre notevoli possibilità
per sviluppare una strategia della qualità legata al territorio.
Per
le Regioni del Centro-Italia, proprio in queste settimane, si pone l’esigenza di
localizzare in modo equilibrato gli interventi per lo sviluppo rurale.
Noi
suggeriamo che essi siano incentrati sull’agricoltura produttiva e sui sistemi
imprenditoriali che si riconoscono nella strategia della qualità territoriale dei prodotti. In tal modo, gli
interventi previsti, agendo coerentemente anche sugli altri settori collegati
all’agricoltura, le reti infrastrutturali ed i servizi che la interessano,
potranno stimolare uno sviluppo rurale armonioso.
Vanno
sostenute non solo le giunture che reggono le filiere agricolo-alimentari, ma
anche quelle che danno vita a filiere territoriali che collegano agricoltori,
operatori turistici e associazioni venatorie, ittiche, ambientaliste,
culturali.
Si
tratta di fare riferimento alla progettualità e al protagonismo di tutti coloro
che si pongono in dialogo per valorizzare all’esterno una ricchezza
territoriale collettiva. In questo senso, la delimitazione di distretti
rurali, da parte delle Regioni, può
aiutare ad individuare meglio soggetti e zone che danno vita a sistemi locali
di sviluppo rurale. La Cia ha già proposto di delimitare le aree delle Marche e
dell’Umbria colpite dal terremoto come un unico e grande distretto rurale dove
concentrare in modo integrato tutti gli interventi di ricostruzione e sviluppo.
E’
auspicabile che i Piani operativi regionali orientino gli interventi
agro-ambientali in modo connesso con l’edificazione di sistemi volti a
valorizzare la qualità di produzioni tipiche o provenienti da zone montane ed
aree protette specificamente indicate. In tal modo, lo sviluppo di metodi di
produzione agricola più rispettosi dell’ambiente - da quelli integrati a quelli
biologici - nonché il controllo dei processi adottati e dell’origine del
prodotto potranno contribuire ad accrescere lo sviluppo locale fondato sulla
qualità territoriale. A tale proposito va ricordato che si è svolto
recentemente un incontro tra le Organizzazioni professionali agricole e la
Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve naturali. In tale occasione
sono state ipotizzate forme di collaborazione per sperimentare e favorire
sistemi integrati di valorizzazione dei prodotti, i cui processi devono
contestualmente rispondere ai requisiti igienico-sanitari di legge, uniformarsi
alle metodiche tradizionali e assicurare il rispetto dell’ambiente e del
paesaggio agrario.
Se
si considerano tali aspetti, si avverte ancor più la necessità di approntare
una Legge di Orientamento, come strumento delle regole e dei principi per
accrescere la competitività delle imprese e valorizzare la dimensione
multifunzionale del settore.
La
dimensione territoriale dello sviluppo ha acquisito la piena legittimazione sul
piano politico-istituzionale con l’estensione al settore agricolo degli
strumenti della programmazione negoziata. Senza l’agricoltura non si
costruiscono strategie sensate di sviluppo territoriale. Peraltro, ritardi e
incomprensioni ancora si addensano e impediscono di rendere definitiva questa
scelta, nonostante la disponibilità dei finanziamenti. Ma ciò attiene alla più
generale disattenzione verso l’agricoltura nell’evoluzione istituzionale del
Paese.
La
Cia ha espresso una posizione di netta critica sulla decisione del Consiglio
dei Ministri di accorpare il Mipa all’interno del futuro Ministero per le
attività produttive. Tale decisione è stata presa dal Governo senza discuterla
al Tavolo Agricolo. E’ questo il primo rilievo che abbiamo mosso, perchè
l’Esecutivo ha istituito il Tavolo proprio con lo scopo di acquisire in quella
sede le valutazioni e gli orientamenti del mondo agricolo, prima di assumere
ogni determinazione di interesse del settore.
Inoltre,
la scelta del Governo è grave perché considerare l’agricoltura come una delle
tante attività produttive contraddice lo sforzo che proprio l’Italia insieme
agli altri Paesi mediterranei ha compiuto per conquistare in Europa
l’attenzione alla dimensione
territoriale del settore primario e alle sue molteplici funzioni produttive,
conservative, ambientali e culturali.
La
scelta strategica della qualità legata al territorio nasce dalla consapevolezza
che possediamo un modello alimentare - derivante da un peculiare intreccio
storico tra ambiente, economia e cultura - già riconoscibile a livello mondiale
ma bisognevole di strutturarsi meglio in un sistema unitario e coordinato, di interventi
e di relazioni, a livello territoriale e sul piano nazionale.
E’
auspicabile che analoga consapevolezza cresca nelle istituzioni e si compiano
scelte coerenti ed efficaci anche nel modo come esse stesse devono rinnovarsi e
ristrutturarsi. Potrà essere così assecondato il nostro impegno a cogliere un
formidabile vantaggio competitivo, derivante dalla nostra storia, ed a cui, in
ogni caso, non rinunceremo.