L’acqua: una risorsa strategica

1. “L’acqua per lo sviluppo” è stato il tema della Giornata mondiale dell’acqua celebrata il 22 marzo scorso. L’acqua, infatti, è diventata una risorsa scarsa. Perciò costituisce un fattore indispensabile al cambiamento. Una risorsa strategica più del petrolio.

Senz’acqua non c’è agricoltura. E senz’agricoltura manca la possibilità di assicurare non solo le derrate alimentari, ma anche la manutenzione del territorio, la produzione di fonti energetiche alternative e la corretta gestione delle risorse idriche.

Il riconoscimento di questo ruolo da parte della società è la nuova frontiera del settore primario, la cui modernizzazione si gioca sul terreno della qualità dello sviluppo, della multifunzionalità e della sostenibilità.

Dinanzi ai processi di dissesto e di inaridimento, indotti dai cambiamenti climatici, è l’agricoltura che può svolgere una funzione essenziale per ricucire antichi equilibri.

Servono progetti di vero e proprio restauro del territorio, analogo a quello che si realizza per un’opera d’arte, capace di recuperare l’equilibrio spezzato tra il sistema naturale dei fiumi, delle coste, delle montagne con quello antropizzato delle città e delle infrastrutture.

L’agricoltura è decisiva per disegnare nuove relazioni tra questi due sistemi, se si valorizzano le risorse naturali e si persegue lo sviluppo territoriale.

Dovremmo tornare a creare paesaggi di qualità, la cui vera bellezza sta nel loro perfetto funzionamento, nel produrre beni di consumo, ma anche senso di identità, nel garantire un corretto equilibrio ecologico, ma anche un controllo dei fenomeni naturali.

Abbiamo bisogno di passare dalla logica gerarchica tra le aree territoriali a quella delle reti e di restituire al sistema delle imprese la libertà di far coincidere l’interesse individuale con la produzione di esternalità positive. La logica dei divieti deve far posto all’assunzione di responsabilità.

Gli agricoltori sono disponibili a farsi carico ulteriormente dell’interesse collettivo, ma in una logica imprenditoriale.

In questo senso ci siamo battuti per un nuovo modello di intervento pubblico, che potesse centrare l’agricoltura oltre gli antichi confini delle sue funzioni tradizionali e raggiungere l’imprenditore agricolo oltre gli steccati delle vecchie definizioni soggettive fondate sul lavoro.

Occorre riprendere il percorso avviato con la legge di orientamento. Si tratta, di riordinare le normative fiscali e previdenziali e snellire le procedure proprio per valorizzare la dimensione territoriale dell’agricoltura e le nuove attività di servizio delle imprese agricole.

Le nostre imprese, tendono a specializzarsi per ciascuna delle fasi del processo produttivo e ad operare in rete con le altre e con l’insieme della società locale. Per rendere fluidi i collegamenti tra questi differenti soggetti servono i contratti di collaborazione e di promozione e le convenzioni con le pubbliche amministrazioni. E vanno eliminati tutti gli ostacoli che impediscono di muoversi in una logica distrettuale.

2. Nella verifica di medio termine di Agenda 2000, il nostro Paese ha tutto l’interesse a spostare risorse dalle politiche di mercato e dagli aiuti compensativi alla politica di sviluppo rurale.

Bisogna, però, intendersi sul concetto di sviluppo rurale. E’ riduttivo considerarlo un aspetto delle politiche per le aree in ritardo di sviluppo. Com’è semplicistico individuare le aree rurali, solo come spazio ricreativo ad uso di chi vive in città o come mero deposito della tradizione.

Il sostegno allo sviluppo rurale va ritematizzato come una nuova dimensione dell’intervento pubblico nei confronti delle agricolture avanzate alle prese con i processi di dematerializzazione, specializzazione e interconnessione, con cui le economie dei paesi industrializzati si adattano all’estendersi della globalizzazione.

Oggi conta sempre più la componente immateriale delle attività e dei prodotti agricoli e alimentari.

L’acquisizione di nuova conoscenza e la capacità di sviluppare cultura  organizzativa non sono soltanto fattori di vantaggio competitivo delle imprese agricole. Assumono il ruolo di preposizioni di valore.

E la distrettualità rurale non ha solo una dimensione socio-economica, ma anche ecologica.

A questo proposito, non è superfluo ribadire che l’uso irriguo dell’acqua non ha più la funzione di incrementare le rese, come continuano a pensare erroneamente alcuni eurocrati e qualche ambientalista di casa nostra. L’acqua è fattore di diversificazione produttiva, miglioramento della qualità, salvaguardia della biodiversità e mantenimento del paesaggio e dell’ambiente. Accresce la possibilità di mantenere in loco il massimo valore aggiunto delle produzioni e di prevenire il degrado.

La disponibilità di acqua per l’irrigazione, perciò, condiziona la competitività territoriale.

Si tratta di individuare e sostenere nuovi e più articolati bisogni di sviluppo rurale, con misure da orientare su larga scala, senza le bardature burocratiche della modulazione obbligatoria, della ecocondizionalità e delle “envelope” nazionali. Una quota significativa di risorse dei piani di sviluppo rurale andrebbe destinata al finanziamento di convenzioni con imprese multifunzionali per attività di difesa idrogeologica, interventi antidissesto e sostegni alla gestione razionale delle acque.

E’ questo il modo anche per ammortizzare più facilmente gli scompensi che potrebbero derivare per gli agricoltori dalla revisione delle OCM e dall’avanzare del disaccoppiamento degli aiuti.

Così inteso, lo sviluppo rurale dovrebbe diventare nelle Regioni il cuore dell’intervento pubblico in agricoltura, non solo con accresciute risorse comunitarie, ma anche con significative dotazioni nazionali e regionali.

Ma se vogliamo introdurre nella riforma della Pac questa nuova concezione dello sviluppo rurale, le Regioni meridionali non possono rimodulare, così come avviene in questi giorni, i finanziamenti dei POR verso azioni che hanno scarsa ricaduta sulle imprese agricole, ma hanno solo il pregio di essere di “pronta cassa”. Bisogna, invece, confermare per quanto è possibile le scelte dei POR e, nel contempo, proporre all’Unione Europea misure più semplici, che abbiano al centro l’impresa agricola multifunzionale. In ogni caso, le modifiche vanno apportate seguendo le procedure della concertazione.

3. La drammatica crisi idrica che attanaglia non solo il Mezzogiorno, ma ormai l’intero Paese, richiede una contestualità di provvedimenti immediati e iniziative di carattere strutturale.

Al momento mancano sia gli uni  che le altre. Ed è per questo che la Cia pugliese ha organizzato nel mese scorso un’imponente e riuscita manifestazione a Bari. Altre iniziative di mobilitazione stiamo svolgendo in diverse Regioni. Attendiamo risposte concrete.

Non ci sono ancora dappertutto, nelle aree colpite, i decreti che dichiarano lo stato di calamità naturale.

Il Ministro Alemanno ha annunciato da tempo la costituzione di una task force tra i Ministeri dell’interno, dell’ambiente, delle infrastrutture e delle politiche agricole per coordinare le azioni.

Gli interventi nel settore della bonifica e dell’irrigazione ed il finanziamento del fondo di riassicurazione dei rischi atmosferici erano contenuti nella prima versione del Decreto “BSE”. Ma il provvedimento non è stato firmato dal Presidente della Repubblica. E ora il nuovo Decreto rifatto dal Governo non li prevede più.

Il Fondo di solidarietà nazionale ha scarsa efficacia in caso di siccità. Infatti, non è considerato per nulla il mancato reddito di quelle aziende che sono costrette a rinunciare alla semina delle colture irrigue.

Agli agricoltori che continuano a perdere reddito vanno date risposte immediate. Essi pagano gli effetti di fenomeni previsti da tempo e di inefficienze  lasciate proliferare in piena libertà.

4. Vorremmo non chiedere ancora interventi straordinari. Vorremmo che la cultura della prevenzione soppiantasse quella dell’emergenza e dell’azione risarcitoria.

Basterebbe valorizzare l’agricoltura multifunzionale nelle politiche di coesione, utilizzare in modo sostenibile la riserva d’acqua, combattere gli sprechi, assumere la manutenzione ordinaria del territorio e la sicurezza idraulica come parametri qualitativi di ogni politica territoriale, porre in cima ad un programma di infrastrutture gli investimenti necessari per gestire correttamente le risorse idriche.

Non si comprende, perché non si debbano completare le opere di accumulo per il trasferimento dell’acqua tra le diverse Regioni e progettarne di nuove.

Non è accettabile che tecnologie innovative per “stimolare” artificialmente la pioggia trovino attenzione e interesse presso l’Organizzazione meteorologica delle Nazioni Unite e, invece, nel nostro Paese, dove si è fatta un’ampia attività sperimentale, siano del tutto ignorate.

Non ha alcuna giustificazione il ritardo con cui si procede nella depurazione delle risorse idriche. L’utilizzo irriguo delle acque reflue urbane potrebbe essere una valida alternativa soprattutto nelle Regioni meridionali. Una recente valutazione elaborata dall’Inea stima per il Sud un recupero di acqua intorno al 35%. Ma si dà per imminente solo ora l’adozione del decreto interministeriale che fissa i parametri di qualità delle acque trattate da impiegare in agricoltura.

Ad otto anni dall’approvazione della “Legge Galli” mancano ancora le norme applicative sugli usi plurimi delle acque irrigue e di bonifica che contribuirebbero a tutelare quelle sotterranee.

Il ruolo della ricerca e della sperimentazione è essenziale per migliorare la qualità dell’acqua, nonché per il riciclo e l’uso plurimo della risorsa.

Lo sviluppo delle biotecnologie, in tale quadro, può contribuire ad individuare piante maggiormente resistenti agli stress climatici, meno bisognosi di acqua e in grado di favorire la stabilità del suolo.

Le indagini affidate all’Inea dall’Unione europea sulla gestione dei comprensori irrigui, in un gruppo di Regioni meridionali, si sono rivelate un’utile base cognitiva per monitorare gli esercizi consortili e validarne l’efficienza. Andrebbero estese a tutto il territorio nazionale.

L’agricoltura intende continuare a fare la sua parte per ridurre i consumi di acqua. In Italia siamo passati in pochi anni dal 70 al 50% di quelli globali.

L’ammodernamento dei sistemi di distribuzione e trasporto e l’impiego combinato di moderne soluzioni tecniche ed agronomiche potrebbero favorire un risparmio di acqua irrigua di circa il 30%. Nello stesso tempo, l’adozione di turni corti ed il passaggio alla distribuzione “a domanda”, da parte degli enti gestori dell’acqua, porterebbero ad una contrazione degli sprechi. E ancora più efficace é sostituire il sistema tariffario a superficie con quello a volume consumato.

In sostanza, la diffusione dei sistemi di qualità ambientale, intesi come gestione dei nuovi rischi e supportati dalla ricerca, dai servizi di sviluppo, dalle attività formative, è la risposta più adeguata ai nuovi bisogni di sicurezza che la modernità esprime.

Ma si tratta anche di ricostituire tra i cittadini, a partire dai ragazzi delle scuole, quel bagaglio di sensibilità, di voglia di partecipazione e di conoscenza attiva intorno ai temi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente e delle funzioni di salvaguardia svolte dall’agricoltura, bagaglio che era consistente nei secoli passati e che l’urbanizzazione ha progressivamente assottigliato.

Un fenomeno come la desertificazione nell’area del Mediterraneo, culla della nostra civiltà, caratterizzata finora da un clima particolarmente gradevole da non avere analoghi nel mondo, impone una presa di coscienza collettiva straordinaria. 

Il degrado ambientale, tuttavia, non è un evento del tutto nuovo nella storia del nostro Mezzogiorno. E le tecniche utilizzate nel passato dall’uomo per fronteggiarlo sono ben visibili nei reperti archeologici e negli artifici della bonifica che ancora segnano il territorio.

Per affrontare le sfide del futuro ed affermare una nuova cultura dell’acqua, vanno rese complementari le scienze socio-umane e le scienze naturali.

Siamo interessati a collaborare con le organizzazioni dei consumatori ed il mondo ambientalista per stabilire insieme un rapporto fecondo con la ricerca e l’università, affinché la conoscenza possa favorire uno sviluppo su basi etiche, un “nuovo umanesimo ambientale” per usare le parole del Presidente Ciampi.

5. Manca un approccio non solo culturale, ma anche economico, alle politiche di gestione del territorio. In condizioni di emergenza non si fanno preventivi e conti. Quando si è costretti ad attivare costantemente la Protezione civile ed a nominare commissari straordinari, si spende a piè di lista con controlli meno stringenti. La Banca mondiale ha fatto un calcolo che dovrebbe costringerci a riflettere: per ogni dollaro investito nella manutenzione ordinaria si potrebbero risparmiare 7 dollari,  che si è, invece, costretti a spendere per riparare i danni.

Ma ora che il quadro conoscitivo territoriale è stato completato, potrebbe prendere il via un programma di vera prevenzione fondata sulla razionalità socio-economica, affidando, invece, all’incentivazione degli strumenti assicurativi la gestione delle emergenze.

Andrebbe, però, garantita una continuità di finanziamenti faticosamente avviata negli ultimi anni e bruscamente interrotta con la Finanziaria 2002.

La volontà del Governo di accelerare l’infrastrutturazione del Paese è rimasta solo un annuncio. Nemmeno un cantiere è stato aperto delle “grandi opere” previste dalla cosiddetta legge-obiettivo e dal programma del Ministero delle infrastrutture.

Il Piano di azione per la lotta alla desertificazione è ancora in fase di elaborazione.

L’allarme lanciato dai Servizi di sicurezza sui rischi di interferenza delle cosche mafiose nelle attività di gestione delle acque in Sicilia dovrebbe indurre, invece, ad intensificare gli sforzi per rendere efficaci i meccanismi ordinari di governo del territorio.

Nel nostro Paese abbiamo disegnato per tempo un sistema di governo dell’acqua e del suolo fondato sul concetto di bacino idrografico, anticipando così i nuovi orientamenti comunitari.

Nel nuovo Ministero ambiente e territorio si sono unificate le competenze centrali in materia di risorse idriche e difesa del suolo. Ma occorre un raccordo tra questo dicastero con quelli delle infrastrutture e delle politiche agricole.

La gestione dell’acqua si sta industrializzando. Per sfruttare al massimo le economie di scala, si vogliono coinvolgere i privati e aprire il settore alla concorrenza. Il processo potrà essere accelerato, grazie anche all’azione dell’Autorità per le risorse idriche istituita l’anno scorso, che andrebbe utilmente articolata sul territorio e dotata di poteri sanzionatori per il mancato rispetto dei programmi e delle normative.

Ma vi sono ritardi riguardo all’operatività delle Autorità di Bacino e degli Ambiti territoriali ottimali, che ancora non hanno appaltato il servizio. Il settore è ancora caratterizzato da una estrema frammentarietà. Il numero delle imprese sono ancora 8 mila. Necessita un grande sforzo di aggregazione per creare un sistema imprenditoriale dotato della necessaria massa critica al fine di svolgere funzioni strategiche.

E’ evidente che le tariffe del servizio idrico – nel nuovo contesto di liberalizzazione e di separatezza tra responsabilità politica e gestione – non potrà più costituire una leva di politica economica e sociale. Esse devono tendere a ripagare i costi di gestione. E ciò, in un quadro di regole e controlli tutto da costruire, sarà un bene per tutti.

Bisognerà allora trovare con le Regioni nuove forme di intervento pubblico per riconoscere ai Consorzi di Bonifica, che pagheranno l’acqua come tutti gli altri utenti, un abbattimento del costo della risorsa, per la funzione di tutela ambientale e paesaggistica che svolgono. La stessa Direttiva comunitaria 60/2000, nel disporre che le tariffe, a partire dal 2003, dovranno tendere a coprire i costi di gestione, consente agli Stati membri di “tener conto delle ripercussioni sociali, ambientali ed economiche del recupero dei costi, nonché delle condizioni geografiche e climatiche delle Regioni in questione”. Tra le nuove misure dei piani di sviluppo rurale, pertanto, la compensazione di un eventuale aumento del costo dell’acqua sarebbe ampiamente giustificata.

L’ammodernamento dei Consorzi di Bonifica è l’altro grande capitolo da aprire con urgenza.

Le inefficienze di talune gestioni e la mancanza di trasparenza ed equità nei criteri di imposizione dei tributi consortili hanno attirato un diffuso atteggiamento critico nei confronti dei Consorzi.

Su questi elementi di oggettivo disagio si sono innestate, per un verso, iniziative populiste volte ad escludere dalla contribuenza gli immobili urbani, senza badare alle conseguenze disastrose che tali orientamenti avranno per il sistema consortile. E, per l’altro, una diffusa propensione al commissariamento, come mezzo per esercitare il controllo politico sulle gestioni, ma mettendo così a repentaglio l’autogoverno.

Noi pensiamo che sia giunto il momento di abbandonare una posizione difensiva e di aprire una riflessione nazionale su questo tema. Le attività di bonifica, invero, sono fortemente intrecciate con le questioni della disponibilità e dei costi delle risorse idriche per gli usi irrigui e della prevenzione del dissesto idrogeologico.

Non possiamo correre il rischio di disperdere questo immenso patrimonio di conoscenze e di attività, lasciandoci immobilizzare da un riflesso conservatore.

Si tratta di ricollocare lo strumento consortile nell’attuale evoluzione dell’assetto istituzionale del Paese, ancorandolo saldamente al principio di sussidiarietà di tipo orizzontale, inserito recentemente in modo esplicito nella Carta fondamentale, nonché ai principi comunitari della precauzione e dell’azione preventiva nelle politiche ambientali ed alle logiche dello sviluppo locale.

Sussidiarietà significa anche responsabilizzazione. E perciò il riconoscimento dei Consorzi – da trasformare in vere e proprie Organizzazioni di tutela delle risorse naturali - dovrebbe ancorarsi a precise condizioni: partecipazione significativa all’elezione degli organi come dimostrazione di reale interesse della contribuenza all’autogoverno; adeguatezza, efficienza ed economicità da verificare mediante il controllo di gestione e la certificazione di qualità; aggiornamento continuo del piano di classifica per collegare il tributo al beneficio effettivo ottenuto dagli immobili.

Qualora non si dovessero riscontrare tali requisiti, le Regioni dovrebbero essere libere di affidare la gestione del territorio a proprie strutture funzionali. Ma, in tal caso, l’assenza dell’intreccio pubblico-privato e del nesso autogoverno-contribuzione comporterà l’annullamento del tributo. E gli oneri relativi alle attività svolte verranno accollati alla fiscalità generale, oppure, laddove si individuerà un servizio destinato ad una utenza specifica, saranno compensati mediante  tariffazione.

Un siffatto sistema assicurerebbe soluzioni flessibili e differenziate nelle diverse realtà del Paese, da ottenere modificando i criteri stabiliti dalle norme del 1933.

Garantirebbe, infatti, a noi che rappresentiamo le forze sociali di salvaguardare le nostre prerogative e pesare nelle scelte che riguardano il territorio. Consentirebbe alle Regioni di incentivare l’autogoverno quando esso si responsabilizza, ma anche di eliminare inefficienze e diseconomie, qualora tali inconvenienti si dovessero manifestare.

E’ una ipotesi che offriamo al confronto. Ma si potrebbero trovare anche altre soluzioni per rilanciare i Consorzi.

Riteniamo che sia giunto il momento di ricercare un’intesa tra il Governo, le Regioni e le organizzazioni sociali per formulare una nuova normativa quadro sulla Bonifica.

Offriamo alle altre organizzazioni agricole, alle rappresentanze dei consumatori, alle forze ambientaliste e alle associazioni dei piccoli proprietari immobiliari il terreno di un’alleanza per ricollocare l’autogoverno delle risorse naturali nella nuova dimensione territoriale, che vede integrati i bisogni delle città e delle campagne e pone l’esigenza di rappresentarli in modo unitario.

7. La recente riforma del titolo V° della Costituzione potrà essere attuata se si supera la logica della separatezza, che ha caratterizzato la prima stagione del regionalismo nel nostro Paese. Si tratta ora di affermare il modello della cooperazione e dell’interdipendenza, il cui valore fondamentale non è più l’autonomia dei singoli livelli di governo, bensì l’efficacia delle politiche pubbliche, ossia la capacità di risolvere i problemi.

Per gestire correttamente le risorse idriche e aumentarne la provvista, tale impostazione appare decisiva. Si tratta di definire Accordi di Programma tra  Regioni e Amministrazioni centrali e di utilizzare in modo integrato fondi comunitari, nazionali e regionali, individuando gli interventi di concerto con le organizzazioni agricole.

Il Programma nazionale per l’approvvigionamento idrico in agricoltura e lo sviluppo dell’irrigazione, predisposto dal Ministero delle Politiche agricole e presentato alla Conferenza Stato-Regioni, appare una utile base per avviare la definizione degli Accordi.

Affermare un forte impegno di cooperazione e di solidarietà è essenziale per gestire la crisi idrica. Essa, infatti, nasce dall’interazione dinamica di fattori che nessuna Regione e nessun Paese sono in grado di controllare per intero all’interno dei rispettivi confini.

Occorrono politiche globali che il prossimo Summit di Johannesburg deve definire per attuare l’impegno contenuto nella Dichiarazione d’inizio millennio delle Nazioni Unite: dimezzare la popolazione senz’acqua potabile prima del 2015.

L’obiettivo è niente affatto scontato né secondario in questa stagione segnata da altri drammi. Lo stato di guerra permanente in Israele e Palestina si alimenta dei conflitti che riguardano anche il controllo delle risorse idriche. L’intenzione è di rilanciare la sfida per l’ambiente e lo sviluppo, di dare una svolta nell’impegno per attuare il Protocollo di Kyoto come nell’azione per battere la fame e la povertà.

Ci vorrebbe un’organizzazione mondiale, simile al WTO, che non solo promuova accordi, ma possa controllarne l’attuazione e comminare sanzioni. Essa dovrebbe governare l’equa e solidale ripartizione dell’acqua tra le diverse regioni del mondo.

E’ in questa dimensione globale l’attualità della proposta di un’Autorità unica per le acque, che, vent’anni fa, proprio qui a Matera, Giuseppe Avolio lanciò per la prima volta.

Si tratta di passare dalla produzione di rischi alla produzione di sicurezza, trasformando la globalizzazione della penuria, della paura e dell’ingiustizia nella globalizzazione della democrazia e della governabilità del pianeta