Distretti agricoli e programmazione negoziata

1. Il distretto rurale e il distretto agroalimentare.

Tematica estremamente innovativa. Cimento culturale di studiosi. E qualche cantiere aperto. Nulla di più. Ma è giunto il tempo di fare. Le politiche agricole si riorientano verso la qualità territoriale, la sicurezza alimentare e la tutela ambientale. E le imprese agricole territoriali potrebbero vedere accresciuti opportunità e vantaggi competitivi per fare reddito e mantenere l’occupazione.
Intanto, tentiamo, se ci riusciamo, di concordare il lessico. E’ la prima condizione per dialogare. E così vedremo se sarà possibile dare lo stesso significato ai concetti. Poi passiamo alle metodologie, agli approcci concreti, ma nella chiarezza delle strategie che si mettono in atto.

Tra il distretto industriale e il distretto agroalimentare c’è una differenza macroscopica. Le imprese industriali si concentrano nei loro distretti con una densità spaziale che le imprese agricole e agroindustriali non presentano. Il solo punto in comune tra le due forme di distretto è la “filosofia” dei rapporti inter-imprenditoriali e inter-sociali.

Il distretto rurale addirittura ha tutta un’altra storia. E’ un concetto che deriva dalla politica di sviluppo rurale. E da una revisione analitica dei fenomeni di scomposizione dei processi produttivi agricoli, non più considerati elementi di debolezza, ma rivalutati come potenziali elementi di forza, fattori positivi di innovazione organizzativa e tecnologica.

Deriva anche da una revisione delle analisi dualistiche dell’agricoltura italiana. Sono proprio le agricolture non industrializzate quelle capaci di inserirsi meglio nell’economia e nella società post-fordista, mettendo a frutto il cosiddetto “patrimonio dell’arretratezza”, fatto di relazioni informali con il territorio e di esternalità positive di interesse generale non riconoscibili in termini economici.

Il distretto rurale, come reticolo di imprese di fase e di servizi, è in grado, dunque, di intrecciare multifunzionalità dell’agricoltura e sviluppo rurale in una prospettiva che può interessare tutto il settore primario.

Ma la politica di sviluppo rurale è ancora gracile. E soprattutto è stata pensata in un’ottica riduttiva. Essa va rafforzata, ma anche ritematizzata. Non può essere solo un aspetto delle politiche per le aree in ritardo di sviluppo. Va ripensata, invece, come una nuova dimensione dell’intervento pubblico nei confronti delle agricolture avanzate. Sono proprio esse, infatti, quelle in grado di svolgere, in modo imprenditoriale, una molteplicità di funzioni richieste dalla società e di proporsi, perciò, come “principio ordinatore” del territorio rurale. Così potranno affrontare meglio la sfida del “globale”. E le imprese agricole, che in esse operano, potranno continuare a realizzare sviluppo endogeno, diversificazione produttiva e integrazione economica e sociale in una logica distrettuale.

In questa stessa logica di rete, le imprese agricole singolarmente, le loro forme associate e tutto quel mondo costituito dai consorzi di bonifica – da rinnovare profondamente e inserire nella dimensione distrettuale – potranno svolgere quella funzione essenziale di conservazione e riproduzione dell’equilibrio ecologico. Da esso dipende, infatti, la qualità del territorio rurale, la sua competitività e quella delle imprese, il successo delle attività economiche che vi si realizzano.

E’ qui l’elemento forte che accomuna il distretto agroalimentare e il distretto rurale e ne fa una cosa del tutto diversa dal distretto industriale: la qualità ambientale intesa in senso complessivo, anche come una fonte di sicurezza di vita per tutti i cittadini.

Questo percorso della qualità non è remunerato dal mercato. Ma se correttamente individuato e accompagnato dall’intervento pubblico, fa emergere il ruolo territoriale dell’impresa agricola. E assicura all’insieme del sistema agroalimentare e rurale un valore aggiunto fino ad oggi invisibile, ma di grande interesse pubblico.

Così i distretti potranno essere vissuti dagli stessi cittadini che vi abitano come costruzione reticolare di condivisione collettiva e di identificazione in valori comuni e in elementi reali, che assumono un connotato simbolico. Ricucendo appartenenze. Recuperando tradizioni.

Ed entrano in gioco criteri del tutto nuovi per individuarli. Non solo le vocazioni produttive, i livelli di specializzazione, gli indicatori occupazionali, ma anche il valore estetico e culturale dei paesaggi agrari sempre più elemento peculiare della biodiversità. E poi la sicurezza idrogeologica delle colline e delle vallate, il percorso dei fiumi, la capacità di accumulo degli invasi, il valore ricreativo delle montagne che dipende in misura decisiva dall’opera di manutenzione di agricoltori e selvicoltori.

Si tratta, in sostanza, di misurare le dinamiche di evoluzione e crescita di biosistemi, perché nei distretti si vanno ad integrare processi socio-economici e processi ecosistemici, nella logica della “bioregione”.

La drammatica crisi idrica, che stiamo vivendo da anni ed emerge come la grande questione del futuro, rende palpabile come la disponibilità di acqua per l’irrigazione condiziona la competitività territoriale. Non si tratta più di incrementare le rese, ma di diversificare le produzioni, migliorare la qualità, prevenire il degrado. E per fare queste cose l’acqua è essenziale.

Bisogna creare un circolo virtuoso: l’agricoltura che produce paesaggi di qualità e materie prime per rifornire i mercati di alimenti sicuri e graditi ai consumatori; e il territorio che si rende vivibile, si riattiva, attrae turismo e accresce gli occupati.

Ma tutto questo funziona se si opera in una logica di impresa.

A questo fine ci siamo battuti per ottenere la legge di orientamento. Lì vi è riposta la cassetta degli attrezzi per un nuovo modello di intervento pubblico, che potesse centrare l’agricoltura oltre i confini delle sue funzioni tradizionali, creare un nesso inscindibile tra agricoltura e territorio e raggiungere l’imprenditore agricolo oltre gli steccati delle vecchie definizioni soggettive fondate sul lavoro.

Occorre riprendere il percorso avviato. E’ quasi pronta una nuova delega al governo. Si tratta di riordinare le normative fiscali e previdenziali e snellire le procedure, proprio per valorizzare la dimensione territoriale dell’agricoltura e le nuove attività delle imprese agricole territoriali, di fase e di servizi.

Potrà così partire, senza difficoltà, la sperimentazione dei contratti di collaborazione e di promozione, nonché le convenzioni con le pubbliche amministrazioni.  E si potranno ricucire le fasi dei processi produttivi, le attività di servizio, remunerarle se non lo fa il mercato. Mantenere e distribuire in modo equilibrato servizi sociali e pubblici nelle aree disagiate a rischio di abbandono e, quindi, di degrado.

E’, infatti, attorno a questo reticolo di rapporti negoziali che si dovrebbero costruire, a nostro avviso, i distretti agroalimentari e rurali.

Qui andrebbero concentrate risorse nazionali e regionali. E nei prossimi anni anche risorse comunitarie, se nella verifica di medio termine di Agenda 2000 si riarticoleranno le misure di sviluppo rurale, includendovi anche queste azioni. E se in tale quadro si adegueranno le politiche di sostegno delle aree montane, che attendono di essere coinvolte pienamente nelle politiche di sviluppo territoriale, coi loro ecosistemi specializzati.

A questo primo nucleo di rapporti negoziali andrebbero, poi, collegate tutte le iniziative di programmazione e di spesa in campo agricolo e rurale, le azioni per le aree protette, le Agende 21, i siti della rete “Natura 2000”, i supporti e i servizi alle imprese, i piani di bonifica, gli accordi di programma per la difesa del suolo, la gestione dell’acqua e l’attuazione dei piani urbanistici delle aree distrettuali.

La complementarietà delle diverse iniziative è un aspetto fondamentale del distretto in agricoltura. E’ sicuramente un criterio complesso da realizzare ed è anche uno dei problemi irrisolti che le politiche pubbliche si trascinano nel tempo.

In ogni Regione si dovrebbe fare un esame serio dello stato delle politiche avviate, dall’ottica della complementarietà. Si potrebbe così, controllare che una sufficiente massa critica di risorse e di politiche confluisca in determinati territori e che vi sia un pieno utilizzo delle risorse finanziarie.

Piani di sviluppo regionale nel Centro-Nord, piani operativi regionali nel Mezzogiorno, programmi integrati territoriali, di filiera e di settore, iniziative comunitarie, patti territoriali e contratti di programma sono strumenti che hanno investito nel cambiamento dei contesti territoriali. Ma finora hanno dialogato poco tra di loro.

La complementarietà deve essere il risultato, in un certo senso, delle attività di coordinamento e di concertazione, già attivate nei diversi territori.

Solo dopo aver messo a regime tutte queste cose, si dovrebbe pensare a norme regionali che riconoscano il distretto.

Un distretto, quindi, non concepito come una camicia di forza per le imprese. Una sovrastruttura burocratica che dispensa risorse. Ma un percorso offerto innanzitutto alle reti di imprese agricole di fase e di servizi per valorizzare la capacità di sviluppo sociale e conservazione ambientale. Un percorso dal basso, sviluppando fortemente sussidiarietà e concertazione.

2. La programmazione negoziata in agricoltura.

In questo caso siamo su un terreno già dissodato. Ci sono centinaia di patti monotematici agricoli e agro-industriali e decine di contratti di programma presentati negli ultimi due anni. 91 patti specializzati agricoli sono stati dichiarati finanziabili e già decretati, 67 nel Mezzogiorno e 24 nel Centro-Nord ed in alcuni casi le risorse stanno arrivando agli imprenditori.

Chi riteneva inutile estendere questa strumentazione all’agricoltura, considerando il settore poco adatto ad esprimere progettualità innovativa, è stato smentito dai fatti. Anche in questo caso, invero, il mondo agricolo ha dato un segnale di vitalità e capacità di cimentarsi su terreni complessi. Del resto, l’esperienza dei patti è figlia delle politiche europee ed il “popolo dei patti” discende dal “popolo dei Leader”. Ancora una volta sviluppo rurale. Tradotto in Italia in chiave industrialista e solo successivamente ricondotto al suo originario carattere integrato.

Non si può ancora fare un bilancio dei patti territoriali agricoli e agro-industriali. Mi limito a dare un dato, emerso da un’analisi campione e che sembra interessante: la creazione di un’unità occupazionale aggiuntiva in agricoltura assumerebbe un costo inferiore del 37% a quello necessario nell’industria.

Sulle esperienze generaliste si sono dette le cose più disparate. Va sottolineato il consenso riscontrato per il metodo della concertazione, nonché per le strategie di rete e di cooperazione. Il contesto locale e l’identità del territorio sono altri due aspetti a cui si dedica sufficiente attenzione.

Ma in generale si sono evidenziate gravi difficoltà nel raccordare la dimensione locale dei patti e le politiche regionali, nel mettere in relazione i diversi segmenti delle filiere agro-industriali e commerciali, nel creare un partenariato che potesse durare oltre la fase del finanziamento, nel migliorare la qualità della progettazione.

Sui contratti di programma e gli interventi per il rafforzamento e lo sviluppo delle imprese di trasformazione e commercializzazione, il giudizio è fortemente critico. Risorse scarse, cooperazione poco valorizzata, riferimenti istituzionali in continua evoluzione, procedure incerte ed arbitrarie.

Non abbiamo difficoltà ad ammettere limiti che riguardano anche il mondo delle imprese e delle sue rappresentanze. Ma le responsabilità delle scelte che hanno determinato i ritardi e le incongruenze nella vicenda della programmazione negoziata vanno ricercate nel modo errato di concepire questi strumenti di autogoverno e di promozione dello sviluppo locale. Quello di considerarli strumenti per costruire e gestire il consenso.

Se si usano così, prevarranno centralismo e discrezionalità. Ma la promozione delle classi dirigenti locali è fatta di concertazione vera e sussidiarietà istituzionale e sociale, senza creare nuovi livelli burocratici, che prescindono dalle scelte effettuate localmente e ripropongono le vecchie logiche dei trasferimenti clientelari di risorse e dei rapporti subalterni tra centro e periferia. E’ fatta di riforma profonda della pubblica amministrazione, la cui gestione efficiente contribuisce a garantire dalle paralisi burocratiche e dai favoritismi. Ci vogliono solide istituzioni per rendere possibile la partecipazione e la condivisione delle scelte. Oggi, per essere solide, le nostre istituzioni devono assicurare la coesistenza di due elementi: efficacia decisionale e rappresentatività.

Bisogna allora avere il coraggio di voltare pagina. Recuperando lo spirito originario di questa strumentazione, su cui le aspettative restano elevate.

La delega al Governo per completare il processo di modernizzazione in agricoltura, nel testo approvato dalla Commissione Agricoltura della Camera, riguarda anche la “ridefinizione del sistema della programmazione negoziata nei settori di competenza del Mipaf e i relativi modelli organizzativi”. E significativamente è stato aggiunto: “anche al fine di favorire la partecipazione delle Regioni sulla base del principio di sussidiarietà e garantire il trasferimento di un adeguato vantaggio economico ai produttori agricoli”.

Pensiamo che i patti debbano rientrare nella piena disponibilità delle Regioni. Uno strumento di promozione dello sviluppo da usare volta a volta in alternativa ai PIT in base ai bisogni locali.

Mentre i contratti di programma andrebbero regolati, in un’ottica di semplificazione, per iniziative cofinanziate di rilevanza interregionale strategicamente inserite nella programmazione regionale e sulla base di precise intese Stato-Regioni.

Novità positive attendiamo dalla nuova fase di operatività della società Sviluppo Italia. Sarebbe opportuno predisporre in essa una struttura dedicata all’agro-alimentare come supporto progettuale e finanziario dei contratti di programma.

Sul complesso delle tematiche della programmazione negoziata ha pesato l’assoluta mancanza di un coordinamento funzionale tra i Ministeri coinvolti e Sviluppo Italia e, di conseguenza, di ogni forma di concertazione con le forze sociali. Ma da qui occorre necessariamente muoversi per ricondurla nel suo binario di partenza.

3. Il ruolo del sistema camerale.

C’è molto da fare per le Camere di Commercio perché i distretti e la programmazione negoziata altro non sono che ulteriori “architravi” tra i soggetti economici organizzati e le istituzioni. L’esperienza camerale, perciò, risulta estremamente preziosa per costruire partenariati e pratiche concertative durevoli.

L’attività formativa volta a sviluppare competenze e capacità di auto-apprendimento relative al processo di programmazione dello sviluppo locale è oggi prioritaria per sostenere queste politiche. La collaborazione tra sistema camerale e organizzazioni professionali agricole interessate a realizzare progetti formativi rivolti a dirigenti, animatori e progettisti, con il supporto dell’Inea ed altre istituzioni di ricerca, può contribuire a dare stabilità e sistematicità al processo di adeguamento, della rappresentanza degli interessi sul piano dei comportamenti e della cultura organizzativa.

Il secondo apporto che può venire dal sistema camerale è la realizzazione di un monitoraggio delle attività legate allo sviluppo locale. Si tratta di verificare le ricadute delle azioni di sviluppo, di validare i meccanismi virtuosi posti in essere, di favorire le decisioni basate su dati di fatto e di individuare i casi di eccellenza per farne eventualmente esperienze pilota.

Per quanto riguarda le azioni di accompagnamento delle attività di concertazione, alle Camere di commercio non potranno essere richieste prestazioni sostitutive di rappresentanza sociale. Ma quando si passa alla fase di gestione, la partecipazione camerale nelle compagini societarie è il modo per rendere disponibile il sostegno di tutti i servizi del sistema camerale alle azioni di sviluppo, a partire dal marketing territoriale, i servizi di qualità e la promozione.

Appare essere questa al momento la forma più utile per far convivere proficuamente il pluralismo della rappresentanza. Si eviteranno possibili aporie. E sarà demandato alla pratica concreta della vera concertazione lo spazio creativo dove inverare nuove regole e sperimentare nuove sintesi.

Se manteniamo ferma la convinzione che i valori centrali del processo decisionale sono la sussidiarietà e le forme di partecipazione dal basso e di autonomia delle comunità, secondo una tradizione tipica del nostro paese e delle sue radici più profonde, sarà più facile innovare anche sul terreno della rappresentanza sociale. Si potrà così evitare che un’impropria spinta competitiva non garantisca il necessario contrappeso ad una più incisiva capacità decisionale delle istituzioni.