L’impresa agricola ieri e oggi

Parlare dell’evoluzione dell’impresa agricola non è semplice, perché vanno sempre tenuti insieme due aspetti: l’idea stessa d’impresa e di agire economico ed il rapporto tra l’uomo e la “sua” terra.

L’intervento del Vescovo di Jesi, Oscar Serfilippi, all’inizio dell’incontro odierno, mi induce a richiamare i riferimenti culturali che ci derivano dalla tradizione giudaico-cristiana. Essi conservano ancora oggi una grande attualità.

La Genesi descrive l’uomo come creato dalla terra. Dio avrebbe potuto crearlo da un animale, come afferma la teoria evoluzionista. Ma, creandolo dalla terra, Dio ha imposto un rapporto di rispetto dell’uomo per la terra. Sia in ebraico che in latino uomo deriva da terra: Adamo da adama (terra in ebraico); uomo da humus.

La storia del diluvio ammonisce su ciò che sarebbe il mondo senza la terra: per essere stato iniquo fino a distruggere la terra, l’uomo ne fu privato.

L’anno sabbatico non ha il significato puramente economico della pratica del maggese: lasciare la terra a riposo affinché dopo produca di più. Al contrario, l’anno sabbatico paralizza un paese per un intero anno, affinché si prenda coscienza che la terra è un bene comune, il patrimonio comune dell’umanità intera.

La creazione è un dono di Dio per tutti. L’uomo non si può impadronire della terra. Ha il dovere di amministrare la “sua” terra. Egli la “presiede”, e, tra l’uomo e la “sua” terra, c’è un legame di appartenenza. Questo non significa che egli possa trasformarla in strumento di potere o in motivo di divisione. L’uomo ha il dovere di conservare la terra quale dono e benedizione.

Anche la cultura laica è fortemente influenzata da questi concetti. Essi possono risultare utili a tutti, se si vogliono affrontare con saggezza le grandi questioni del progresso tecnico, della globalizzazione economica e dell’equa distribuzione delle risorse.

La globalizzazione, infatti, sta producendo due effetti deleteri, che sono simmetrici, cioè facce della stessa medaglia. Da una parte, qui nei paesi sviluppati, i nostri ragazzi pensano che il loro benessere sia sempre più fatto di relazioni virtuali e non già di rapporti concreti e che esso non dipenda più dalla terra, nemmeno in senso lato. Dall’altra, nei paesi poveri, i contadini vengono materialmente distaccati da quella che essi considerano la “loro” terra, la terra dove vivono e lavorano. 

Tali esiti sono il risultato di una mera illusione: ritenere che l’antico legame tra l’uomo e la terra possa essere sostituito dal più moderno rapporto tra l’uomo e la tecnologia, a cui affidare la soluzione di tutti i problemi, a partire da quello della fame nel mondo.

Lo sviluppo tecnologico è fondamentale, ma non è sufficiente per affrontare tutti i problemi. Lo sviluppo è possibile se l’uomo torna ad avere “titolo” sulla terra. Anche questa condizione è fondamentale e deve diventare parte costitutiva dei diritti di cittadinanza e della democrazia ovunque nel mondo.

Avere “titolo” sulla terra deve riguardare tutti, agricoltori e cittadini, perché il benessere non dipende dalla produzione di una quantità enorme di beni maldistribuiti, ma dalla libertà, dalla capacità di scelta e dalla possibilità di realizzare lo stile di vita che ogni individuo desidera.

La parola d’ordine “Terra e liberta”, che ha caratterizzato le lotte contadine in ogni parte del mondo, assume oggi un significato più ampio. Non solo l’attività agricola va saldamente ancorata alla terra, come una delle condizioni indispensabili – insieme alla possibilità di utilizzare il progresso tecnico – per rendere libero l’agricoltore; ma molti stili di vita hanno bisogno di recuperare un contatto autentico con la terra, con i suoi frutti, con la natura, con il paesaggio, con una diversa dimensione dello spazio e del tempo, dove l’uomo possa ritrovare se stesso.

Torna ad essere attuale, in una dimensione inaspettatamente più ampia, l’articolo 44 della Costituzione italiana: “Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata…”.

Il solenne riconoscimento di questo principio nella Carta fondamentale del 1948 fu il risultato della partecipazione delle forze sociali dell’agricoltura alla Resistenza in ogni parte del Paese e delle imponenti lotte dei contadini e dei mezzadri, che erano riprese con rinnovato fervore dopo la caduta del fascismo, contro il latifondo e gli iniqui contratti agrari.

La fame di terra veniva da lontano, dalla coscienza di antichi diritti conculcati. Anche qui a Maiolati, nel corso del diciottesimo secolo, i contadini avevano dato impulso ad agitazioni e iniziative di lotta. Non solo quando le condizioni di vita erano diventate del tutto inaccettabili, in conseguenza delle carestie del 1733 e del 1764, ma anche nel corso delle insorgenze antifrancesi del triennio 1797-99. Il Prof. Santilocchi ha ricordato che le economie comunitarie, sia nel periodo antecedente le guerre sociali, che successivamente in età feudale, pur in un quadro di grave asservimento, contemplavano comunque una serie di diritti per i contadini. E quei diritti si vedevano posti in pericolo dalle nuove idee che venivano da Oltralpe. Questo risentimento permane lungo tutto l’Ottocento e parte del Novecento. Arriviamo così alle lotte mezzadrili, che già nel primo dopoguerra avevano assunto il valore simbolico di incrinatura profonda dei vecchi assetti gerarchici della società rurale.

Ma furono necessarie ulteriori iniziative di mobilitazione dei coltivatori per ottenere la riforma fondiaria, il divieto di stipulare nuovi contratti  di mezzadria e, infine, la riforma dei contratti agrari.

Si è trattato di una lunga serie di iniziative di lotta che le organizzazioni contadine e, successivamente, la Confcoltivatori hanno promosso per difendere la dignità dell’uomo e, in tal modo, conseguire il progresso dell’agricoltura.

È stato proprio questo intreccio tra tutela della dignità degli agricoltori, in quanto persone, cittadini e imprenditori, e introduzione delle innovazioni agronomiche a mettere in discussione il precario equilibrio di sussistenza, su cui si reggeva l’agricoltura italiana. I prodotti agricoli, infatti, erano realizzati da un’abbondante forza lavoro che consumava ciò che produceva.

Con la crescita dello spirito imprenditoriale e con l’innovazione sono aumentate le rese per ettaro e successivamente anche la produttività del lavoro. Ciò ha liberato gradualmente per altri impieghi forza lavoro rurale in eccesso dopo l’applicazione delle nuove tecnologie. È stato questo fenomeno, apparentemente negativo, ad innescare un ampio processo di sviluppo, trasformandosi rapidamente in un fenomeno di crescita economica e sociale.

L’agricoltura oggi ha bruscamente interrotto la dinamica negativa sul fronte occupazione in atto dal dopoguerra. Per la prima volta nel 2001 i dati mostrano un incremento di 6-7mila unità lavorative rispetto al 2000.

Accanto a questa inversione di tendenza, vanno valutati attentamente anche i dati sugli investimenti aziendali sempre più orientati allo sviluppo tecnologico, alla ricerca, ai sistemi avanzati di irrigazione, a lavorazioni a basso impatto ambientale, al miglioramento dei sistemi di qualità.

È assolutamente ingeneroso attribuire alle imprese agricole una scarsa propensione a misurarsi direttamente con la competizione globale.

È da circa un ventennio che la PAC vede progressivamente scemare il proprio ruolo di grande ombrello protettivo della redditività delle imprese agricole e della tenuta del mondo rurale. Gli agricoltori europei, pertanto, sono alle prese con una crescente e impegnativa sfida competitiva. E in questa condizione ancor più si trovano le imprese italiane, penalizzate da un sostegno comunitario disegnato a misura di un modello agricolo nordeuropeo.

Nonostante questa Pac sia squilibrata e contraddittoria, i traguardi raggiunti dall’agricoltura europea e da quella italiana, in particolare, sono considerevoli. E sono dovuti al fatto che il settore primario ha anticipato tendenze e processi che oggi coinvolgono quasi tutti i comparti dell’economia. Mi riferisco ai modelli aziendali flessibili e all’economia delle reti, due caratteristiche che oggi sono considerate alla base del successo delle imprese.

Gli agricoltori hanno saputo sviluppare quelle originali e particolari logiche dell’intraprendere, che hanno fatto delle loro imprese un paradigma vitale per i sistemi agricoli a qualunque latitudine.

Si tratta dell’impresa “personale”, che rappresenta il punto di incontro naturale tra la promozione di sè e la promozione dei propri affari. La sfera dell’imprenditorialità, intesa in senso aziendale, si intreccia con la sfera della vita personale e familiare.

Questo fenomeno non riguarda solo l’agricoltura, ma tutta l’area dell’impresa diffusa, un’economia che ha utilizzato, per crescere, il capitale personale e il capitale relazionale.

Storici e sociologi sono concordi sul fatto che il particolare tipo di organizzazione del mondo rurale dell’Italia centrale e del Nord-Est, basato sulla conduzione mezzadrile e per affittanza, abbia favorito lo sviluppo economico recente di quell’area e ne abbia determinato i tratti originari. Analogo convincimento sta maturando per i distretti meridionali. Essi appaiono favoriti, in molti casi anche dal sistema dei valori che affondano le proprie radici nella civiltà contadina e ne segnano taluni tratti identitari. La fiducia interpersonale e le reti di relazione comunitaria sono alla base della propensione al rischio e dell’imprenditorialità.

Nell’impresa diffusa, l’imprenditore ha sovrapposto la sua vita personale a quella dell’azienda ed ha sviluppato una capacità di relazioni con altre persone, con cui mantiene rapporti di fiducia, con cui gestisce conflitti, con cui elabora regole di scambio e di reciproco riconoscimento. In questa trama sociale anche il cliente, anche il lavoratore nonché il fornitore cessano di essere asettici ruoli definiti dal diritto e dall’economia e diventano persone.

Fino a qualche tempo fa, l’idea prevalente di modernità richiedeva che i rapporti economici si spersonalizzassero, seguendo i canoni della gestione scientifica dell’impresa affidata a procedure formali.

Oggi, con la crisi del fordismo, la personalizzazione delle imprese e dei loro circuiti di relazione diventa un elemento che non può essere lasciato nel passato, bensì una risorsa, una fonte di vantaggio competitivo che deve essere modernizzata, affinché possa accompagnarci nella sfida della globalizzazione.

La dimensione personale dell’impresa consente di dare una valenza etica all’agire economico, che oggi sempre più si sostanzia nell’assunzione di impegni e responsabilità che hanno un contenuto morale.

Gli agricoltori hanno da sempre agito con senso di responsabilità sia nei confronti del territorio e dell’ambiente, evitando un dissennato sfruttamento del suolo, sia nei confronti dei consumatori, assicurando prodotti sani e genuini.

Essi, in realtà, si sono da sempre mossi in una logica di multifunzionalità, ma per una certa fase hanno dovuto privilegiare l’obiettivo di realizzare una sempre maggiore quantità di prodotti alimentari, perché questo era richiesto dalla società e incentivato dalle politiche pubbliche.

Negli ultimi tempi, hanno saputo individuare nuovi bisogni e sensibilità. E la qualità dei prodotti agricoli, la sicurezza dei consumatori, la tutela delle risorse naturali si sono tramutate in vere e proprie strategie imprenditoriali per conquistare i mercati. Sebbene la politica agricola, spesso in modo petulante e predicatorio, pretenda di prescrivere la qualità, senza rendere disponibili risorse e servizi per sostenerne le strategie, gli agricoltori hanno compreso a loro spese, ma anche a loro vantaggio, che la qualità la determinano i consumatori e la realizzano i produttori.

È la dimostrazione più lampante che l’etica della responsabilità non solo, non è in contraddizione con la tutela dei redditi, ma addirittura può essere un valido presupposto per accrescere la ricchezza.

Gli agricoltori, inoltre, per fronteggiare meglio le diverse esigenze della società si sono adattati a svolgere, in modo sempre più specialistico, funzioni di gestione e tutela del territorio, servizi legati all’ospitalità aziendale o in aree rurali, attività connesse ad una soltanto delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti. Percependo l’orientamento dei consumatori e dei cittadini, essi hanno saputo per tempo dislocarsi tra le diverse fasi dei processi produttivi, specializzandosi e dando vita ad imprese territoriali di fase e di servizi.

A questo punto si è creato un cortocircuito tra quadro giuridico dell’agricoltura, politiche agricole e realtà socio-economica.

Infatti, per un lungo periodo si è ritenuto che le finalità dell’articolo 44 della Costituzione si fossero realizzate una volta per tutte con la riforma fondiaria e con le nuove norme sui contratti agrari.

E si è lasciata all’impianto produttivistico, uniaziendalistico e unisoggettivistico del Codice del ’42 la definizione di attività agricola e di imprenditore agricolo. In quelle norme, l’agricoltura si sostanziava nella produzione di beni alimentari, l’organizzazione imprenditoriale agricola nell’unità e inscindibilità del ciclo dei lavori dell’agricoltore ed il rapporto con la terra nella concezione chiusa e individualistica del fondo rustico da recintare e separare dalle altre aree e da altri soggetti. In questa scia, alcuni giuristi hanno ideato la teoria del “ciclo biologico” per considerare agricoli anche gli allevamenti senza terra.

Nello stesso tempo, la Pac, che pure era nata come amalgama di misure di mercato e azioni strutturali, ha sostenuto le quantità oltre il necessario e non si è mai occupata seriamente della dimensione territoriale dello sviluppo agricolo.

Si è dovuto faticare non poco per scardinare impianti teorici che non avevano più nulla a che vedere con la realtà. Per esempio, abbiamo dovuto convincere gli economisti agrari che i fenomeni di scomposizione dei processi produttivi agricoli non andavano necessariamente considerati elementi di debolezza, ma come potenziali elementi di forza, fattori positivi di innovazione organizzativa e tecnologica. Ed abbiamo atteso un bel po’ la revisione delle analisi dualistiche dell’agricoltura italiana. Sicchè ora tutti convengono che sono proprio le agricolture non industrializzate quelle capaci di inserirsi meglio nell’economia e nella società post-fordista. Hanno con sè ciò che altre agricolture non hanno a sufficienza: il cosiddetto “patrimonio dell’arretratezza”, fatto di relazioni informali con il territorio e di esternalità positive e di interesse generale non riconoscibili in termini economici.

Si fa finalmente strada anche in agricoltura l’idea del distretto, come reticolo di imprese di fase e di servizi, in grado di intrecciare multifuzionalità e sviluppo rurale in una prospettiva che può interessare tutto il settore primario.

La multifuzionalità va, però, intesa correttamente come nuovo modello imprenditoriale e come opportunità per le imprese di seguire differenti strategie di competitività. La multifuzionalità non è un percorso alternativo a quello di centrare l’obiettivo della vitalità delle imprese. Competitività e multifunzionalità sono ancora considerate come elementi distinti solo nelle politiche pubbliche, ma non più nelle logiche che seguono le imprese agricole.

Pertanto, bisogna tendere ad integrare questi due elementi anche nelle politiche agricole, a partire dalla revisione di medio termine di Agenda 2000.

La politica della multifunzionalità e dello sviluppo rurale, infatti, è ancora gracile. E soprattutto è pensata in un’ottica riduttiva. Essa va rafforzata, ma anche ritematizzata. Non può essere solo un aspetto delle politiche per le aree in ritardo di sviluppo. Va ripensata, invece, come una nuova dimensione dell’intervento pubblico nei confronti di tutte le multiformi agricolture europee. Si tratta di favorire la capacità di queste diverse agricolture nel proporsi come “principio ordinatore” del territorio rurale e di realizzare sviluppo endogeno, diversificazione produttiva e integrazione economica e sociale in una logica distrettuale.

In questa stessa logica di rete, le imprese agricole singolarmente, le loro forme associate e tutto quel mondo costituito dai consorzi di bonifica – da rinnovare profondamente e inserire nella dimensione distrettuale – potranno svolgere quella funzione essenziale di conservazione e riproduzione dell’equilibrio ecologico. Da esso dipende, infatti, la qualità del territorio rurale, la sua competitività e quella delle imprese, il successo delle attività economiche che vi si realizzano.

E’ qui l’elemento forte che accomuna il distretto agroalimentare e il distretto rurale e ne fa una cosa del tutto diversa dal distretto industriale: la qualità ambientale intesa in senso complessivo, anche come una fonte di sicurezza di vita per tutti i cittadini.

Questo percorso della qualità non è remunerato dal mercato. Ma se correttamente individuato e accompagnato dall’intervento pubblico, fa emergere il ruolo territoriale dell’impresa agricola. E assicura all’insieme del sistema agroalimentare e rurale un valore aggiunto fino ad oggi invisibile, ma di grande interesse pubblico.

Così i distretti potranno essere vissuti dagli stessi cittadini che vi abitano come costruzione reticolare di condivisione collettiva e di identificazione in valori comuni e in elementi reali, che assumono un connotato simbolico. Ricucendo appartenenze. Recuperando tradizioni.  Le tracce mitologiche del territorio marchigiano sono segni e simboli di identificazione da ricostruire e  valorizzare nel dar vita ai distretti.

Bisogna creare un circolo virtuoso: l’agricoltura che produce paesaggi di qualità, opere di ricostruzione di storie, miti e tradizioni locali, cibi d’arte e materie prime per rifornire i mercati di alimenti sicuri e graditi ai consumatori; e il territorio che si rende vivibile, si riattiva, attrae turismo e accresce gli occupati.

Ma tutto questo funziona se si opera in una logica di impresa.

Ecco perché non potevamo rimanere nelle strettoie delle vecchie definizioni codicistiche. L’agricoltura e le sue imprese non si ritrovavano più in quell’impianto normativo. E ci siamo battuti per ottenere la legge di orientamento. Lì vi è riposta la cassetta degli attrezzi per un nuovo modello di intervento pubblico, che potesse centrare l’agricoltura oltre i confini delle sue funzioni tradizionali, creare un nesso inscindibile tra agricoltura e territorio e raggiungere l’imprenditore agricolo oltre gli steccati delle vecchie definizioni soggettive fondate sul lavoro e su una concezione produttivistica delle attività agricole.

Vengono sanciti in queste nuove norme principi fortemente innovativi: ”…promuovere il sostegno e lo sviluppo dell’agricoltura e dei sistemi agroalimentari secondo le vocazioni produttive del territorio, individuando i presupposti per l’istituzione di distretti agroalimentari e rurali di qualità ed assicurando la tutela delle risorse naturali, della biodiversità, del patrimonio culturale e del paesaggio agrario e forestale…”

Occorre riprendere il percorso avviato. E’ quasi pronta una nuova delega al governo. Si tratta di riordinare le normative fiscali e previdenziali e snellire le procedure, proprio per valorizzare la dimensione territoriale dell’agricoltura e le nuove attività delle imprese agricole territoriali, di fase e di servizi.

Potrà così partire, senza difficoltà, la sperimentazione dei contratti di collaborazione e di promozione, nonché le convenzioni con le pubbliche amministrazioni.  E si potranno ricucire le fasi dei processi produttivi, le attività di servizio, remunerarle se non lo fa il mercato. Mantenere e distribuire in modo equilibrato servizi sociali e pubblici nelle aree disagiate e a rischio di abbandono.

E’, infatti, attorno a questo reticolo di rapporti negoziali che si dovrebbero costruire, a nostro avviso, i distretti agroalimentari e rurali e realizzare quegli interventi che proponeva l’Assessore Bucciarelli, che mi ha preceduto.

Distretti non concepiti come una camicia di forza per le imprese. Una sovrastruttura burocratica che dispensa risorse. Ma un percorso offerto innanzitutto alle reti di imprese agricole di fase e di servizi per valorizzare la capacità di sviluppo sociale e conservazione ambientale. Un percorso dal basso, sviluppando fortemente sussidiarietà e concertazione. Con un’attenzione particolare ai sistemi della conoscenza, a quel trinomio ricerca, formazione e assistenza, essenziali per ridistribuire ed accrescere le risorse immateriali, divenute componenti sempre più importanti dei sistemi territoriali.

Così l’uomo potrà tornare ad avere “titolo” sulla “sua” terra. Non soltanto gli agricoltori, ma l’insieme delle comunità. E l’azione collettiva per nuovi e più avanzati rapporti tra l’uomo e la “sua” terra, nelle forme moderne della rappresentanza, potrà ancora una volta - come è avvenuto a più riprese con le lotte agrarie del secolo scorso - conseguire ulteriormente sviluppo e democrazia insieme. Tale azione collettiva dovrà avere una dimensione globale. La revisione di medio termine di Agenda 2000 non può costituire un’occasione mancata. L’Unione europea, da una parte, deve intensificare il sostegno alla competitività dei propri sistemi territoriali e, dall’altra, negoziare regole internazionali che consentano una maggiore apertura dei mercati, nell’ambito di un’attenzione alle attese dei cittadini. Vi è, infatti, un rapporto di stretta interdipendenza tra l’affermazione di un modello più equilibrato di sviluppo agricolo e rurale all’interno dei paesi ricchi e l’obiettivo di una più equilibrata ripartizione delle opportunità di benessere su scala globale. L’una e l’altra cosa si realizzano contestualmente. Agire su ambedue i versanti è il modo per ricomporre il corretto rapporto tra l’uomo e la “sua” terra.