Chiesa: il dissenso ha quarant’anni
Le Comunità cristiane di base rappresentano, nel panorama delle aggregazioni cattoliche, un movimento del tutto peculiare che si richiama al Concilio Vaticano II e, in particolare, alla riscoperta del valore delle chiese locali, quelle delle origini per intenderci, e di un cristianesimo che si incarna nella storia degli uomini.
Esse hanno mantenuto in questi quarant’anni un collegamento tra loro senza mai
considerarsi un modello di pratica ecclesiale. Mentre i Neocatecumenali, i
Focolarini, l’Opus Dei, i Legionari di Cristo, Sant’Egidio, Comunione e
Liberazione si sono caratterizzati come movimenti in competizione tra loro ma
legati direttamente al papa, spinti da una "spiritualità di conquista" per
ritornare ad un "regime di ri-consacrazione" del cristianesimo, le Comunità di
base hanno scelto di mettere costantemente alla prova la loro "fede in Dio e
fedeltà alla terra" senza mai darsi un progetto organizzativo. Vivono un’idea di
chiesa ancorata alla lettura comunitaria della Bibbia per ispirare ad essa la
propria iniziativa sui problemi concreti della società.
Cercano, in sostanza, di costruire dal basso una chiesa che rispetti le scelte
di ciascuna comunità, in una prospettiva di pluralismo teologico e
istituzionale. Una chiesa povera dalla parte dei poveri praticata mediante i
principi dell’autoconvocazione e della "porta aperta", senza tuttavia negare
all’istituzione ecclesiastica la sua funzione di garantire, nelle forme ritenute
storicamente più idonee, la presenza cristiana nel mondo. Una chiesa priva di
potere e dotata solo dei mezzi necessari per assolvere alla sua funzione di
evangelizzazione.
Con siffatto impegno di prossimità agli ultimi, le Comunità di base
contribuiscono a definire scelte politiche funzionali all’interesse generale
nella convinzione che il patrimonio ideale e culturale comune è scritto nella
Costituzione e non in altro libro sacro e che la politica è la forma più alta
della carità se vissuta con rigore morale e competenza e non per perseguire
interessi di parte cattolica.
Mario Campli e Marcello Vigli, entrambi impegnati nelle Comunità di base,
raccontano nel bel libro "Coltivare speranza. Una chiesa altra per un altro
mondo possibile" (Ed. Tracce, pagg. 215, Euro 13) le vicende di questo movimento
che ha compiuto senza riflettori un cammino originale e che intende continuare a
percorrerlo.
La narrazione, scandita in modo avvincente dallo scorrere cronologico degli
eventi riportati con precisione e puntualità, colma una grave lacuna nella
conoscenza storica di un periodo significativo della vicenda nazionale. Il
volume ci fa comprendere, infatti, come il ’68 si sia caratterizzato in Italia
nella forma di un moto di contestazione e liberazione che scosse e trasformò le
coscienze, i modelli di vita e l’organizzazione collettiva di parti estese della
società italiana – sia nelle città che nelle campagne mentre uscivano da
profonde trasformazioni - e che coinvolse pienamente anche il mondo cattolico
alle prese con un processo inesorabile di frantumazione.
Con l’avvento della democrazia si era ormai incrinata l’unità del mondo
cattolico, che costituiva una sorta di contenitore in cui stabilizzare i valori
religiosi e culturali della cristianità per salvaguardarli contro ogni
contaminazione esterna. E questo sgretolamento andava di pari passo con
l’impetuoso disgregarsi del mondo rurale in un paese dove in pochissimi anni
milioni di italiani avevano cambiato mestiere e residenza con costi umani
enormi.
Gli scritti di don Primo Mazzolari e successivamente le riviste "Il Gallo" di
Genova e "Questitalia" di Venezia circolavano normalmente nelle parrocchie e
ponevano in un’ottica nuova il rapporto tra la chiesa e il mondo. Agli inizi
degli anni ’60, la vicenda di don Lorenzo Milani, con la dura testimonianza
delle "Esperienze pastorali", sanciva la svolta egualitaria per una chiesa degli
ultimi. Nascono, in questa temperie, nuove riviste ed intorno ad esse si formano
i primi gruppi spontanei e le prime Comunità di base. I temi più dibattuti sono
l’antimilitarismo, la non violenza, la condizione degli oppressi, la lotta
contro il concordato tra stato e chiesa, il connubio tra la chiesa e il potere
politico ed economico.
La novità è che attraverso la lettura dei testi conciliari, che nel 1967 era già
diffusa, veniva scoperto e praticato il diritto-dovere di discutere nella chiesa
e della chiesa. Sicché da un dissenso genericamente cattolico nasce un dissenso
ecclesiale che porta con sé anche i caratteri di una specifica contestazione
politica e sociale. I temi posti al centro del confronto diventano, infatti, il
divorzio, il celibato ecclesiastico, la scuola confessionale, il ruolo della
donna nella coppia, nella società e nella chiesa, la libertà nel voto. Temi che
non sollevano unicamente l’esigenza di un diverso modo di essere chiesa, ma
richiedono anche nuove classi dirigenti capaci di leggere i mutamenti, di
superare le divisioni ingiustificate e che avevano a pretesto la "guerra fredda"
e di adeguare le forme di partecipazione alla voglia di protagonismo di nuovi
soggetti sociali.
Non a caso, mentre si acuiscono i contrasti tra le Comunità di base, da una
parte, e le gerarchie ecclesiastiche, dall’altra, che tentano di reprimere il
dissenso, le grandi forze politiche tacciono e guardano con distacco, non
comprendendo il carico di sofferenza di quei conflitti analogo a quello che si
sprigiona in tutte le lotte sociali.
Come opportunamente rilevano gli autori, nel dissenso ecclesiale sono pienamente
coinvolti il Mezzogiorno e le campagne, i luoghi dove il cristianesimo ha
rappresentato non solo un elemento di oppressione delle classi subalterne per i
legami che tenevano insieme la chiesa e i potenti, ma anche un elemento di
coesione tra i ceti più poveri, in ragione di una diffusa religiosità popolare
che si caratterizzava anche per i segni evidenti di ripulsa nei confronti dei
ricchi e, dunque, anche dei vescovi e dei preti.
Del resto, senza le modificazioni ideali e culturali delle aree rurali non ci
sarebbe stata la vittoria del referendum sul divorzio. Che quel nuovo
orientamento fosse diffuso nelle campagne italiane i vescovi dovevano ben
saperlo in quanto conoscevano i risultati di un’inchiesta sociologica,
effettuata tra il 1970 e il 1971 da 800 assistenti ecclesiastici della
Coldiretti. E tuttavia le gerarchie ecclesiastiche non riuscirono a convincere
Fanfani perché evitasse lo scontro; egli infatti si fece portare fuori strada da
Berlinguer che, convinto a sua volta di perdere il referendum, voleva a tutti i
costi raggiungere un’intesa per scongiurarlo. Entrambi i partiti maggiori, in
sostanza, non furono in grado di leggere le trasformazioni avvenute in quegli
anni.
L’ansia di rinnovamento che permeava tutte le pieghe della società era
alimentata da una forte carica liberatoria: la soggettività, che non metteva in
discussione solo il legame tra consumi e bisogni essenziali ma anche il rapporto
tra politica e società e tra chiesa e società. Tuttavia, questo elemento non era
affatto nuovo perché non derivava dalla società industriale, bensì da quei
valori della coscienza individuale e dell’autonomia della persona che erano
insiti nei caratteri del mondo rurale dell’Occidente, contaminato da elementi di
religiosità popolare propri del cristianesimo, e che in un contesto di
democrazia sono emersi in tutta la loro portata eversiva.
Dinanzi a processi di sviluppo in cui l’innovazione tecnologica aveva assunto un
finalismo totalizzante, gli spazi aperti venivano cementificati senza alcun
criterio razionale e l’organizzazione sociale assumeva forme dirigistiche e di
massificazione indistinta e anonima, i nuovi soggetti sociali che provenivano in
gran parte dalla cultura individualistica del mondo contadino hanno reagito per
sollecitare la riconduzione del modello di sviluppo al fondamento individuale
della democrazia occidentale, riproponendo la centralità della persona.
La politica italiana è ancora oggi alla ricerca di soluzioni al problema posto
dal ’68 e i partiti sorti ultimamente non danno segnali di volerlo affrontare
con un nuovo e più efficace sistema politico, che permetta forme effettive di
partecipazione democratica e di evitare derive populistiche.
Nella chiesa le distanze tra le gerarchie cattoliche e le Comunità di base
anziché accorciarsi si sono ulteriormente allargate, determinando al proprio
interno un’accentuazione di forme autoritarie e centralistiche. Non a caso oggi
scontiamo proprio sulla laicità dello stato e sui temi eticamente sensibili una
difficoltà democratica nel nostro paese dovuta anche al fatto che si volle
archiviare la domanda di cambiamento di 40 anni fa: essa poneva un salto di
qualità della democrazia in ambedue le sfere, quella delle istituzioni politiche
e quella della istituzioni ecclesiastiche, da affrontare ovviamente in modo
distinto e per vie del tutto autonome e precipue. Ma l’intreccio e l’influenza
reciproca dei due ambiti, come appare in tutta evidenza dal libro, ci ricordano
che la democrazia è un valore universale.
E’ dunque un "segno dei tempi" – per usare un’espressione-formula introdotta da papa Giovanni e cara ai "cattolici del dissenso" - se è rimasta nel paese una diffusa rete di Comunità che continuano a coltivare la speranza di una chiesa plurale: è motivo di speranza per tutti coloro che si riconoscono nei valori della laicità dello stato e della democrazia.
M. Campli – M. Vigli, Coltivare speranza. Una chiesa altra per un altro mondo possibile, Ed. Tracce, pagg. 215, Euro 13